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Un carabiniere mi ha mandato in ospedale per le botte. Poi mi ha pure denunciato

Nel 2019 Bukuran Nishori si è ritrovato in una rissa con un carabiniere fuori servizio. Dopo due anni di indagini e un post virale su Instagram, la sua storia è diventata pubblica.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Foto di tsuguliev via AdobeStock.

Alla fine di luglio del 2019, Bukuran Nishori si risveglia in un letto dell’ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa (Veneto) senza avere la più pallida idea di come ci sia finito.

Ha varie fratture alle costole e una all’osso occipitale, e in un primo momento pensa di aver fatto un incidente stradale. Poi i medici gli spiegano come se le è procurate: in una rissa a Enego—un paesino di montagna di circa 1500 abitanti in provincia di Vicenza—con dei carabinieri. Sconvolto dalla notizia, e mentre è ancora in convalescenza, Nishori prova a ricostruire quello è successo.

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Stando ai racconti delle persone con cui si trovava quella sera, tutto è avvenuto al termine di un torneo di calcetto e di una serata nei pressi della Birreria Ciclamino in via Zante, una delle vie principali del paese. Lui e altri due amici chiacchieravano appoggiati a una staccionata di legno a un centinaio di metri dal locale; uno di loro stava rollando una sigaretta con tabacco e cannabis light, quando all’improvviso un uomo—un carabiniere fuori servizio, uscito dal locale insieme ad altri due colleghi sempre fuori servizio—ha dato una manata e l’ha gettata per terra.

Da lì sono partiti gli insulti, sfociati in una colluttazione piuttosto violenta tra un secondo carabiniere e Nishori: ad avere la peggio è stato appunto quest’ultimo, colpito al volto da un calcio sferrato dall’agente che aveva fatto cadere la sigaretta. Nessuno dei militari si sarebbe qualificato come tale.

Per parecchio tempo, però, la storia è rimasta un affare privato. È emersa solo negli ultimi giorni—prima con la chiusura delle indagini da parte della procura di Vicenza, che ha accusato tre militari di lesioni aggravate e tre di falso in atto pubblico, nonché lo stesso Nishori di lesioni (reato patteggiato a dicembre del 2021); poi tramite un post pubblicato da Nishori su Instagram, che è stato condiviso da molti influencer e rapper e ha in breve superato i centomila like.  

“Ho le lacrime agli occhi,” inizia il post. “Più di due anni. Due anni difficilissimi nei quali ho sofferto tanto. […] Non sapevo cosa pensare, cosa fare e/o a chi rivolgermi per far venire fuori la verità.” In molti, a partire dal legale che aveva all’epoca, gli avevano consigliato di lasciar perdere: “Ti stai mettendo contro lo Stato, è una partita persa.”

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A dire di Nishori—nato in Kosovo nel 1993, arrivato in Italia con la famiglia allo scoppio della guerra nel 1999 e ora residente in Svizzera—la svolta è arrivata dopo la nomina dell’avvocato Roberto Dissegna, che l’ha convinto a fare la denuncia e andare fino in fondo. Per ricostruire la vicenda ho sentito al telefono il diretto interessato e l’avvocato Dissegna, consultando anche l’avviso di conclusione delle indagini e i legali dei carabinieri.

“Vuoi fare anche tu la sua fine?”

Partiamo dunque dalla serata tra il 20 e il 21 luglio del 2019. Secondo la versione dei carabinieri, estrapolata da un verbale riportato nell'avviso di conclusione delle indagini, l’intero episodio nasce per puro caso: i militari fuori servizio escono dal locale e si incamminano verso l’auto, urtando per sbaglio un ragazzo vicino alla staccionata. Dando uno sguardo alla sigaretta caduta per terra, uno di loro ha il sospetto che possa essere “uno spinello”; di comune accordo, dunque, gli agenti decidono di tornare indietro per effettuare un controllo antidroga. Appena si girano, tuttavia, vengono insultati e aggrediti da Nishori e dagli altri.

Per i testimoni (inclusi altri amici di Nishori che hanno visto la scena a qualche metro di distanza) e la procura, invece, il gesto del carabiniere non è accidentale ma volontario e provocatorio—accompagnato dalla frase “butta via questa merda.” In più, i due agenti (il terzo si è allontanato subito) sono tornati indietro esclusivamente per reagire agli insulti e affrontare il gruppo di amici, senza però mai identificarsi come carabinieri.

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Per Nishori, quest’ultima circostanza è determinante: se avessero saputo che si trattava di membri delle forze dell’ordine, non avrebbero mai reagito in quella maniera. La colluttazione, aggiunge nella nostra conversazione telefonica, è stata “velocissima, una questione di due o tre minuti.” La procura la ricostruisce così: il secondo agente e il ragazzo “cominciano a spintonarsi e subito dopo a prendersi a pugni, cadendo entrambi e urtando ostacoli fissi e mobili,” tra cui la staccionata e un’automobile.

L’agente chiede l’aiuto del collega, che stava discutendo animatamente con gli altri due ragazzi; non appena sente la richiesta si avventa su Nishori: il calcio è talmente violento che nello sferrarlo perde una scarpa.

Mentre Nishori è a terra, il carabiniere si mette a cercare la scarpa. Uno degli amici, mi racconta Nishori, gli fa notare che è assurdo farlo in una situazione del genere, ricevendo una risposta dal tono piuttosto minaccioso: “Hai qualcosa da ridire? Vuoi finire anche tu come lui?” Alla fine, i due militari si allontanano per andare alla caserma di Enego.

Come risulta dagli atti dell’indagine, l’ambulanza viene chiamata a l’una di notte dagli amici di Nishori. Arriva dopo mezz’ora, e gli infermieri caricano subito il ragazzo che è vigile, ma in stato confusionale: ha varie fratture e sanguina in volto. Gli amici salgono in macchina e seguono il veicolo.

Nel frattempo, intorno all’una e mezza, il 118 viene contattato anche dalla caserma: il carabiniere che si è scontrato con Nishori ha il gomito sinistro lussato e diverse contusioni sul corpo. Invece di andare direttamente all’ospedale più vicino (quello di Bassano del Grappa, che dista comunque 40 chilometri), l’ambulanza devia verso la stazione dei carabinieri del paese—con grande sorpresa degli amici di Nishori.

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Uno di loro scende per cercare di capire cosa stia succedendo. A questo punto, in base all’avviso di conclusione delle indagini, il carabiniere che aveva gettato la sigaretta per terra e un altro (non presente fuori dalla birreria) gli si avvicinano e lo prendono sottobraccio per portarlo all’interno “contro la sua volontà”.

Il ragazzo oppone resistenza: viene dunque “scaraventato a terra” e “immobilizzato con un ginocchio in faccia” di fronte al portone d’ingresso, riportando un ematoma sulla coscia sinistra. Anche qui, le versioni nelle carte giudiziarie divergono: l’amico di Nishori ha sporto una denuncia per questi fatti, mentre i carabinieri hanno parlato della necessità di “sedarlo” perché troppo agitato.

Nel frattempo, gli infermieri del 118 visitano il carabiniere infortunato e capiscono che ha bisogno di essere portato al pronto soccorso. Visto che un’altra ambulanza ci avrebbe messo troppo tempo ad arrivare a Enego, decidono di caricarlo nello stesso veicolo su cui c’è Nishori—mettendolo però nel posto anteriore—e verso le due ripartono alla volta dell’ospedale di Bassano.

Le visite dei carabinieri e il verbale falso

Nishori è colui che subisce le conseguenze più serie di quella serata. Resta in ospedale per due settimane, fino al 5 agosto; i primi giorni è costretto a rimanere completamente immobile con un grosso collare, per non aggravare la frattura all’osso occipitale.

Quando le sue condizioni migliorano riceve una visita da parte di tre carabinieri in divisa, provenienti dalla centrale di Bassano del Grappa. “Sono stati gentili, non posso dire il contrario,” mi racconta. “Mi hanno detto che gli dispiaceva per quello che era successo e che erano amareggiati perché non sono cose normali.”

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Poi gli chiedono se abbia intenzione di sporgere querela. Lì per lì Nishori è un po’ spiazzato, e dice che ne avrebbe parlato con il suo avvocato. “All’epoca però non avevo nemmeno un avvocato,” specifica, “perché non ho mai avuto problemi, né tanto meno bisogno.”

Qualche giorno dopo le dimissioni, il ragazzo riceve un’altra visita—questa volta presso la sua abitazione: è il carabiniere che gli ha tirato un calcio in faccia. “Tra me e me,” ricorda, “mi sono detto che questo era venuto a casa mia e sapeva tutto di me, mentre io non sapevo nulla di lui, nemmeno il nome.”

Il militare chiede scusa, ma al contempo suggerisce di patteggiare e non fare causa visto che “per lui [l’agente] sarebbe stata una brutta situazione.” Alla fine di agosto, come risulta dalle carte giudiziarie, i due agenti coinvolti nella rissa denunciano Nishori per lesioni.

“Quel carabiniere mi ha quasi ucciso con un calcio e mi ha pure denunciato,” commenta amaramente Nishori. Che nell’ottobre del 2021—dopo aver consultato un secondo avvocato—deposita a sua volta una denuncia per lesioni contro gli agenti.

Le indagini coordinate dalla procura di Vicenza, intanto, vengono affidate ai carabinieri di Bassano del Grappa. Oltre a cercare di ricostruire la colluttazione—sentendo i protagonisti della vicenda, analizzando le chat di WhatsApp dai cellulari sequestrati e controllando i tabulati telefonici—gli investigatori scoprono l’esistenza di un verbale contraffatto compilato il 23 luglio del 2019 (ma retrodatato al 21), in cui sarebbero stati omessi diversi dettagli per cercare di alleggerire la posizione dei militari.

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Uno dei carabinieri indagati per il reato di falso in atto pubblico ha già patteggiato a dicembre del 2021; nei suoi confronti, riferisce il Corriere del Veneto dello scorso 12 gennaio, potrebbe aprirsi un procedimento disciplinare. Come ricordato all’inizio, anche Nishori ha patteggiato l’accusa di lesioni per “non complicare ulteriormente le indagini e facilitare il lavoro degli inquirenti.”

Per il resto, riporta sempre il Corriere del Veneto, la posizione di un altro carabiniere è stata archiviata; gli indagati rimasti sono pertanto quattro. Il legale del secondo carabiniere coinvolto nella rissa, che ho contattato al telefono, respinge in toto gli addebiti rivolti al suo assistito (lesioni) e dice che “ci riserveremo un’eventuale azione civile” per chiedere il risarcimento dei danni a Nishori.

In un’altra conversazione telefonica, anche l’avvocato del carabiniere che ha dato il calcio a Nishori “nega tutti gli addebiti.” Il legale di uno militari accusati di falso ha invece spiegato via mail che “al momento non ritengo opportuno rilasciare dichiarazioni.” Un ultimo avvocato è stato contattato via mail, ma al momento della pubblicazione dell’articolo non è arrivata la risposta [che verrà eventualmente aggiunta e opportunamente segnalata].

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La prima udienza preliminare, in cui si dovrà decidere (o meno) il rinvio a giudizio, si è tenuta il 21 gennaio ma per questioni tecniche è stata rinviata al prossimo maggio.

“Chi sbaglia deve pagare”

Al di là delle conseguenze fisiche e giudiziarie, Nishori ha dovuto affrontare anche quelle personali e psicologiche. “Non potevo più uscire per strada senza pensare che potesse succedermi qualcosa,” mi ha detto, “non ero più nella condizione di sentirmi un cittadino qualunque.”

In più, sulla vicenda è calata fin da subito una fitta cappa di silenzio. “A Enego tutti sapevano che era successo qualcosa,” racconta, “ma nessuno sapeva di preciso cosa. Non è uscito uno straccio di articolo, nemmeno sulla stampa locale.”

Nishori sostiene anche di aver provato a contattare diversi organi di stampa e trasmissioni televisive, senza però ottenere riscontri. “Sono stato invisibile,” afferma, “letteralmente ignorato da tutti.”

Le cose sono cambiate, almeno a livello mediatico, proprio grazie al post su Instagram di questi giorni. Pur non aspettandosi che diventasse virale, Nishori mi spiega che la sua storia “può essere d’esempio per altre persone” e spera che “possa in qualche modo attirare l’attenzione” su altri casi analoghi e “fare in modo che queste cose non succedano più.”

Al tempo stesso, non vuole “passare come un santo”—Nishori è netto nell’ammettere le proprie colpe—né lanciare “un messaggio sbagliato contro le forze dell’ordine.” Leggere alcuni commenti offensivi sotto al suo post, prosegue, “non mi fa per niente piacere, perché non è questo il modo corretto di affrontare un problema. Se mi trovo qui devo ringraziare i carabinieri che hanno indagato sui loro colleghi e mi hanno permesso di tirare fuori la verità.”

L’importante, conclude, è che “chi sbaglia in piccolo o in grande, che sia un poliziotto, un carabiniere o chicchessia, paghi e si assuma la proprie responsabilità.”  

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