Tutte le foto sono di Marco Fantoni.
Una volta mi è capitato di trovarmi in una conversazione con un tipo che cercava di spiegarmi candidamente perché “non gli piaceva la musica”. Quando ho sentito pronunciare questa frase—”non mi piace la musica”—ho provato a darmi delle spiegazioni, e ho concluso che un pensiero del genere può essere formulato solo da chi per educazione/cultura/scelta personale vive la musica come un’esperienza superflua e nel migliore dei casi di decoro, qualcosa che va ad addossarsi alla sua già complessa quotidianità, su cui perciò non vale la pena investire troppi neuroni. Questo ragionamento è una presa di posizione che, nostro malgrado, riguarda almeno la metà delle persone che ci circondano in metro la mattina, e l’estensione della stessa a un contesto di collettività urbana è il piatto su cui mangia l’intera industria della musica, e dell’intrattenimento ad essa legato. Questa industria si appoggia sull’indifferenza collettiva nei confronti del prodotto—in questo caso musicale—offerto e mercificato come bene materiale, e la possibilità di fruire di luoghi fisici in cui far avvenire questo scambio, che più delle volte sono proprio i luoghi della “vita notturna”.
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Senza stare a specificare le ovvie differenze di natura logistico-formale di concerti, serate, performance audiovisive, festival e quant’altro, il punto è che quale che sia la città a cui facciamo riferimento, in Italia, interessarsi di musica nella sua accezione più profonda e costruttiva, significa doversi interfacciare con tessuto sociale indottrinato ad apparire, che eleva più o meno inconsapevolmente la cultura dell’immagine a modello strutturante di vita. Questo escludendo la lobotomizzazione sempre più dilagante, per cui a molti, semplicemente, “non piace la musica”.
Nello specifico, quando si parla di eventi serali, cercare un contatto alchemico tra musica, ambiente e pubblico è priorità di pochi, e nel migliore dei casi ognuno tende a interiorizzare la propria esperienza e a farne giustamente tesoro. Sempre nell’idilliaca ipotesi in cui al dato evento non ci sia di mezzo Posermag.
Gli spazi che in città fanno da sfondo a ogni forma di esperienza musicale, a Milano come ovunque, variano da stadi a scantinati, da teatri a capannoni industriali, da ex macelli ad auditorium, e in generale lo spettro di mutabilità copre tutto ciò che sta tra la struttura di club classica, progettata secondo i canoni dell’architettura da intrattenimento, e ciò a cui è stata data la medesima forma e funzione solo in un secondo momento. Contenitori del genere, com’è facile intuire, hanno storie e passati ben più complessi degli ambienti che team di architetti hanno progettato appositamente per svolgere quella—e solo quella—funzione.
Questo è solo il primo di una serie di focus su determinati spazi in cui, in cinque anni di vita passati a Milano, ho individuato l’alchimia tra gli elementi che lo popolano di cui parlavo sopra, potenzialmente in grado di offrire esperienze che vadano oltre le miopi dinamiche di mercato. E la struttura con cui ho deciso di partire lo fa pure con uno spirito politico per cui l’espressione artistica è in sé una forma di lotta e autoaffermazione, fondando la sua stessa resistenza su principi di cooperazione orizzontale tra liberi cittadini. Siamo a Milano est, Viale Molise 68, poco sotto il passante Porta Vittoria: Macao.
STORIA
Il primo nucleo di persone aderenti all’iniziativa, ancora senza nome, era un laboratorio di arte e spettacolo, che per un anno intero si radunava al fine di stabilire posizioni e strategie di lotta, in un contesto in cui l’industria dell’arte produceva grossissime quantità di denaro, ma non restituiva quasi nulla ai lavoratori del settore. “La prima mossa è stata l’occupazione simbolica, per un giorno, del PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea, nel dicembre 2011,” mi spiega Ferdinando Mazzitelli, curatore di Macao e membro fin dal suo stato più embrionale. “Ci stavamo opponendo alla mostra della Pixar lì in quei giorni, da noi ritenuta completamente fuori luogo. Dopo questo episodio siamo cresciuti anche a livello di contenuti, quindi legando la questione delle lotte degli artisti a quella dei beni comuni. Per noi era interessante stabilire che nel disegno della città avremmo contato. La Torre Galfa è stata scelta dopo vari e lunghi ragionamenti. I posti che stavamo pensando di occupare erano due o tre, e l’abbiamo scelta principalmente perché rappresentava benissimo il nostro intento. La famiglia Ligresti usava la torre come garanzia bancaria, ci ottenevano cinquanta milioni di euro di credito, e da qui sono nati i problemi. Gli agganci che aveva questa famiglia all’interno delle forze politiche locali erano davvero forti, tanto che la Cancellieri, allora ministro degli interni, si è mossa personalmente per farci uscire di là. Il figlio della Cancellieri tra l’altro era amministratore delegato del gruppo che aveva in dotazione la Torre Galfa, per cui il cerchio era facile da chiudere. Se a questo ci unisci l’asservimento che ha la politica cittadina di fronte a questi poteri così forti, ti rendi conto perché la città è disegnata così.”
Uno dei piani occupati della Torre Galfa, foto via.
Così serviva una casa nuova, un posto abbastanza grande e articolato per sviluppare quei programmi che stavano iniziando a delinarsi in Torre Galfa. “Nel momento in cui abbiamo deciso che ci sarebbe servita una casa, abbiamo fatto ricerca e tenuto sott’occhio per un anno intero i potenziali posti dove saremmo potuti andare. A Milano ci sono centinaia di luoghi abbandonati, si trattava solo di sceglierne uno che avesse determinate caratteristiche che ci tornassero utili. Siamo arrivati qui, nel quartiere Molise-Calvairate, e questa struttura ci sembrava buona e accogliente. L’area è di proprietà Sogemi, che è la società dell’ortomercato ed ex macello che prima avevano sede qui, anche se ufficialmente è a partecipazione comunale, ovvero il comune ha il 45-46% delle azioni Sogemi. In pratica è un’area comunale ma gestita da una SPA. Un giro di scatole cinesi per recuperare e gestire fondi pubblici.” L’area, negli anni Ottanta, aveva risentito eccome della chiusura del complesso ortofrutticolo, e di tutte le strutture a funzione burocratica ad esso annesse, direttamente affaccianti su Viale Molise. Il caseggiato popolare era stato edificato appositamente per i lavoratori dell’area industriale retrostante, e “negare l’esistenza dell’ortomercato del quartiere Molise-Calvairate, significava negare l’identità stessa del quartiere,” per riprendere le parole di Ferdinando. Ciò vale naturalmente per la miriade di aree e carcasse di edifici abbandonati in tutto il tessuto urbano milanese.
ARCHITETTURA
L’attuale sede di Macao è quella che un tempo era la borsa del macello. L’architettura del complesso è liberty, e risale ancora a inizio Novecento. Ha una pianta centrale, con la grossa sala a tutta altezza un tempo adibita a sala delle aste, dove avvenivano scambi monetari tra venditori e compratori di grossi lotti di carne. Nel perimetro di questa sala c’è un colonnato, che sorregge il ballatoio del piano superiore.
Le abbondanti decorazioni floreali—benché abbia di recente notato che su ogni colonnina sono ancora presenti delle piccole ed evocative teste di mucca—su tutto il perimetro dei due piani che si affacciano sul salone centrale, assieme alla copertura, sono gli elementi più caratterizzanti dell’intera struttura. La copertura inizialmente era in vetro, ma il primissimo lavoro di ristrutturazione attuato dagli occupanti, nel 2012, è stata proprio la sostituzione col plexiglass, per ovvie questioni di sicurezza. Da ogni lato della sala sbucano corpi scala, bagni, e stanze in cui un tempo risiedevano gli uffici amministrativi delle ditte lì operanti. In particolare, al piano terra, la saletta adibita a cinema teatro, che oggi è utilizzata per eventi a numero ristretto, era la banca del complesso, ed è infatti ancora presente la scritta “Borsa delle Carni”.
Cinema teatro.
L’attuale bar era presente anche allora, ed era a solo utilizzo dei lavoratori. Tutti questi ambienti, all’arrivo di Macao, erano in evidente stato di abbandono, e il processo di pulizia, messa in sicurezza e generica riappropriazione fisica e metabolizzazione dello spazio è stato lento, ma proficuo. Come mi spiega Giovanni Bozzoli, 22 anni, altro curatore di Macao e attualmente membro del Tavolo Suono, “Su tutta quest’area negli ultimi quindici anni erano previsti lavori di riqualificazione. Si voleva riportare totalmente in auge quest’area enorme; si parlava della più grande biblioteca europea, un multisala… tutto ai fini di Expo. Alla fine ovviamente hanno cominciato i lavori quindici anni fa, e l’unica cosa che sono riusciti a costruire sono abitazioni di lusso.”
POLITICA
“Qui dentro dentro abbiamo fatto tantissime iniziative,” riprende Ferdinando, “dai seminari di approfondimento politico, a quelli economici, eventi culturali, che hanno a che fare con la musica, serate, etc. In particolare quello che ci interessa è legare le nostre esperienze di artisti agli ambiti di ricerca. Vogliamo trasmettere il messaggio che vede l’arte come strumento di lotta, se usato in maniera giusta per determinare relazioni e crescite (anche economiche) delle persone che lo usano. Non vogliamo che questo posto diventi la replica di quanto succede là fuori, quindi stiamo molto attenti a chi portiamo, ai partner che abbiamo. Ci interessa moltissimo il contenuto politico e le scelte che fanno le persone che ospitiamo e con cui collaboriamo.” La grossa differenza con i locali che offrono contenuti culturali standardizzati alle regole di mercato (locale, club, showroom, etc), infatti, risiede proprio nell’approccio politico all’arte e ad ogni sua manifestazione, ed è essenziale che tutti coloro che mettono piede a Macao ne siano ben consci. “Per dire, cerchiamo sempre di comunicare direttamente con gli artisti, più che con le booking o altri tipi di intermediari,” mi spiega Giovanni, “comunicando fin da subito cosa è Macao e quali sono i nostri intenti. È indispensabile che i musicisti vengano a Macao ben consapevoli di non star entrando in un club, ma in un posto occupato con certi valori e contenuti politico-culturali di cui tenere conto. Sono dinamiche che devono partire in primis da noi.“
Sonic Boom @ Macao. Via URSSSLa nascita di diverse esigenze, prospettive e progetti da parte della collettività occupante era inevitabile. Il nucleo originale del Macao di partenza si era ampliato numericamente, e serviva un piano che regolasse le iniziative di ogni fronte artistico, che spaziava dalla pittura, al cinema, alla musica, al teatro, etc. “C’era già l’idea” spiega Ferdinando, “di costruire una serie di specificità nelle quali la gente poteva incanalarsi e riconoscersi, da qui l’idea dei tavoli. Il tavolo teatro, architettura, arte, suono, e così via. Di questi tavoli qualcuno è rimasto, altri si sono trasformati. Col tempo si è dimostrato più fluido fare dei processi, più che delle divisioni. La gente viene coinvolta in dei progetti, per quanto non mi piaccia usare questo termine, che smonta l’idea del tavolo fisso in cui ci si concentra in una sola attività.” Da qui, lentamente gruppi di ragazzi iniziavano a mettere in pratica ogni tipo di sperimentazione, e quella che nello specifico interessa a noi è quella musicale. “Nella primissima fase, quando ancora non c’ero [Giovanni è entrato a far parte del comitato di Macao solo quando questo si era già stanziato in Viale Molise], la parte musicale di Macao era molto attaccata alla musica fatta dai musicisti. Parlo quindi di jazz, musica popolare o folk. Pian piano ci sono state le prime contaminazioni; la prima serata ad essersi distinta si chiamava Zaund, ed era a cadenza mensile, organizzata da un ragazzo che fa ancora parte del tavolo suono, in cui veniva fuori questo lato un po’ più sperimentale e di ricerca. Quindi era musica definibile ‘di nicchia’, però proposta in uno spazio diverso.” Il processo che ha portato Macao e diventare quello che è oggi, è iniziato proprio da questa contaminazione. L’intuito di assegnare alla sperimentazione musicale lo sfondo dell’affascinante palazzina liberty occupata, ha dato il la al processo di innovazione artistica che avrebbe conferito a Macao la sua attuale identità culturale, in città. Ed è bello capire che il fondamentale ruolo che riveste oggi Macao a Milano deriva anche dal genuino attaccamento territoriale di chi vi milita.
“Io e alcuni amici abbiamo iniziato a bazzicare in questo posto per motivi totalmente non artistici e non politici,” va avanti Giovanni. “Era il centro sociale del quartiere, per cui finivamo sempre qui, visto che abitiamo quasi tutti in zona. Mi sento molto legato a questo spazio proprio perché è comunque casa. Pian piano abbiamo deciso di creare questo nostro gruppo che si chiama Communion, e ci abbiamo messo sei mesi per farci accettare dall’assemblea generale, perché comunque eravamo una decina di ragazzini di vent’anni che cercavano di relazionarsi con un bel po’ di adulti che avevano tutt’altro per la testa. Però lentamente ci siamo riusciti. Il primo evento l’abbiamo fatto credo nel marzo 2014.”
A tal proposito Ferdinando aggiunge: “Tutto ciò che ha a che fare con la programmazione di eventi legati alla musica e all’intrattenimento notturno è affidato a quello che un tempo era il Tavolo Suono, ma che negli anni si è scisso in due anime. La prima è legata alla sperimentazione musicale, e quindi alle serate tematizzate e volte a un determinato tipo di ascolto. L’altra si occupa anch’essa di serate, ma è più legato al concetto di musica come creazione in sé di eventi e reti. Loro, ad esempio, sono interessati alla creazione di eventi e alla circolazione libera di artisti, mentre il gruppo di cui fa parte Gio con Communion è più interessato alla ricerca e sperimentazione musicale.” I primi hanno mantenuto il nome Tavolo Suono, e si sono a loro volta suddivisi in più gruppi di specifiche preferenze musicali, gli altri si chiamano CTRL.
CTRL E TAVOLO SUONO
“Il lavoro che fa CTRL è un lavoro politico,” va avanti Giovanni, “che cerca di creare un mondo alternativo fatto di rete di musicisti, gestori di locali, organizzatori di eventi, che si muova al di fuori dell’ambito SIAE. Un network diverso che dia possibilità di scelta, e non dover rimanere soggiogati alla sua volontà, perlomeno. Col Tavolo Suono invece cerchiamo di modificare l’offerta musicale attuale tendenzialmente della città di Milano, offrendo uno standard di eventi che possa accogliere pubblici disparati, che non abbia un unico indirizzo, e che al suo interno cerchi di dare valore aggiunto alla musica. Di primo acchitto può sembrare che offriamo eventi ad ascolto complesso, ma in realtà servono solo a smuovere gli animi cittadini un po’ addormentati, soprattutto nell’ambito del clubbing. È una cultura molto standardizzata, costosa, che non offre reale valore alla musica ma la mercifica in intrattenimento.” Esistono parallelismi, quindi, tra i fini di entrambe le anime che curano quindi la proposta musicale di Macao, ciò che cambia sono le modalità in cui vengono attuati. Se CTRLl ragiona in termini al di fuori dell’evento, perseguendo obiettivi che quest’ultimo ha solo il compito di finanziare, il Tavolo Suono si incentra quasi esclusivamente sul mezzo attraverso cui offrire quell’evento, e quindi sul dare un quid in più al contenuto artistico, cioè alla musica e al suo processo di fruizione.
Moondawn @ Macao. Credits Rocco Trevis Merlo
“Quello che offriamo noi all’apparenza può sembrare intrattenimento serale,” spiega Giovanni, “in realtà cerchiamo di dare un valore aggiunto a tutto. Siamo arrivati qua e abbiamo voluto iniziare a fare qualcosa di simile a quello che c’era fuori, ma organizzato e manifestato in modo diverso, proprio per contrastare quanto vissuto fino ad allora in città. Non nego di aver frequentato per determinati periodi locali in cui adesso non metterei più piede, e anzi, l’averli frequentati mi ha fatto nascere l’urgenza di creare qualcosa di nuovo. Ovviamente Macao è stata una visione. Nonostante la difficoltà che ho avuto a entrare nel processo, e capirne il senso generale o dettagliato, reputo la sua esistenza vitale, e penso che tutto il resto del Tavolo Suono sia d’accordo con me in questo.”
“Dopo aver fatto una o due serate, ci siamo uniti al progetto già esistente di Zaund,” va avanti, “poi a quello Neoma, e pian piano si sono avvicinati anche i ragazzi di Haunter Records, Vasopressin, etc. Quasi automaticamente, senza neanche rendercene conto, abbiamo ridato vita a un tavolo suono completamente diverso da quello che esisteva prima, perché di base prima si concentrava sulla produzione musicale più tradizionale. Ciò non vuol dire che fosse meno di valore, solo non ha retto come modello. Se un musicista che vuole suonare si mette insieme ad altri musicisti che vogliono suonare possono soltato fare quello. Se invece uniamo un’etichetta discografica, a due gruppi di sperimentazione, a tre musicisti e tecnici del suono, si crea un gruppo che funziona in modo più autosufficiente e più attivo. Siamo il tavolo più popolato di Macao, contiamo una ventina di persone più o meno attive, e più o meno giovani. Non esiste gerarchia nel gruppo, e l’orizzontalità delle scelte è palese.“
Flyer di serate Communion e Haunter.
La formula si è rivelata più che vincente, e con essa tutti i provvedimenti che il nuovo Tavolo Suono ha preso e applicato all’interno di Macao. Tuttavia il processo di accettazione è ancora in atto, e ciò vale sia per i restanti membri attivi—e anziani—di Macao, che, com’è altrettanto prevedibile, per il suo variegatissimo pubblico.
“PER CHI FREQUENTA I CENTRI SOCIALI MACAO È UN POSTO DA FIGHETTI, PER I FIGHETTI È UN CENTRO SOCIALE”
L’approccio che Macao si è imposto di avere con il suo pubblico è stato cristallino fin da subito: “Il primo anno credo non ci fosse neanche l’ingresso a offerta libera,” spiega Giovanni. “Era uno spazio a cui tutti potevano accedere, gli artisti suonavano gratis—uno dei più famosi ad aver supportato Macao è stato Vinicio Capossela—e il bar ha sempre avuto questi prezzi già imposti in partenza, che ci sono sembrati la giusta via di mezzo. Non birra a un euro, ma comunque prezzo popolare. L’offerta libera è stata introdotta dopo, perché altrimenti non saremmo andati avanti. Magari appena abbiamo iniziato a fare eventi la sera in modo più consistente, cioè un anno e mezzo fa, la gente era volenterosa di contribuire e quasi tutti lasciavano cinque euro. C’era anche chi lasciava di più, figurati. Adesso no. L’offerta libera è molto importante a livello di immagine, perché è una dichiarazione di intenti, la cultura deve essere accessibile. In un mondo in cui il denaro regna sovrano, creare un posto in cui puoi entrare con dieci centesimi, ma anche con niente, è una cosa molto positiva.”
Parte della scenografia del film Nirvana di Gabriele Salvatores, parzialmente girato nel seminterrato dell’ex macello.
Ciò che mi è sembrato evidente, dalla mia esperienza di spettatrice, è che spesso parte di quel pubblico lobotomizzato di cui parlavo all’inizio, di fronte ad esempio a una nuova declinazione di “clubbing” come quella offerta da Macao, sono gli stessi che, parlandone in pubblico, lo denominano “locale”. Visti i ragionamenti fatti fino ad ora, è pure imbarazzante dover spiegare perché non è assolutamente così. Eppure è un fenomeno che esiste e che, a detta di Giovanni, nasce in parte anche da errori comunicativi interni all’organizzazione. “Credo che sia in parte un po’ un problema nostro di comunicazione,” mi spiega, “del tavolo suono dico. Col fatto che al suo interno ci sono tanti gruppi che operano anche indipendentemente l’uno dall’altro, tutti cerchiamo di dare una mano a tutti, ma poi Haunter fa le sue serate, Communion pure, etc. Questo non dà un’idea di leggibilità molto semplice. Ogni tanto vedo le persone che entrano a Macao e alla cassa mi chiedono se possono pagara con la carta, o se abbiamo un guardaroba. Non voglio creare differenze di pubblico, né parlare male di parte di esso, perché come ti ripeto, ci tengo che l’affluenza sia svariata. A suo rischio e pericolo la gente sceglie cosa fare e come muoversi.”
Giardino di Macao. Credits Sara Bianca Scanderebech.
Il pubblico di Macao si autoseleziona proprio per reazione a questa tendenza, e se molte persone entrano a far parte del Tavolo dopo che hanno frequentato serate e visto i lati positivi della gestione artistica orizzontale, per quanto caotica, altre si ostinano a non voler prendere atto della voragine che separa Macao dal resto degli ingranaggi consumistici che la città offre in parallelo. “Banalizzo sempre dicendo che per persone che frequentano altri centri sociali a Milano è un posto da fighetti, e per i fighetti è un centro sociale,” conclude Giovanni.
PROPOSTA MUSICALE
“La proposta musicale di Macao in realtà è molto varia, e chi dice che quello che proponiamo è inascoltabile deve essere passato solo alle serate Haunter. Il nostro progetto come tavolo suono è portare qualcosa in più, sempre, quindi anche complicare l’ascolto delle persone, rendere controversa l’accettazione, sono visti come processi costruttivi. Magari tu non conosci bene Macao, entri e sei felice perché hai pagato poco e bevi a poco, poi però in qualche modo sei costretto ad ascoltare qualcosa in una modalità nuova, più conscia. Cerchiamo di spronare le persone in questo senso, a mettersi in gioco un attimo di più.”
Se devo essere sincera, ammetto di aver pensato che all’origine della proposta musicale fatta da Macao ci fosse, molto banalmente, il desiderio da parte di chi la proponeva di condividere i propri interessi e gusti, al fine di supportare quella che qualcuno—non io—chiamerebbe “scena”. Una semplice volontà di apportare in città un’offerta culturale che segue determinate preferenze artistiche, ma per pura fiducia nella sperimentazione in sé, e volontà di diffonderla. Invece, come giustamente sottolineato da Giovanni, l’atto del complicare l’ascolto è già di per sé un intento sociale propositivo, volto a migliorare l’esperienza dell’ascoltatore medio, e non solo a diffonderla tra chi già se ne interessa.
“Ci piace pensare che stiamo offrendo qualcosa che tu ti devi ascoltare, e non sentire e basta con le orecchie,” va avanti, “Di sicuro è uno dei tanti messaggi che facciamo trapassare, ma non è il preponderante, altrimenti diventerebbe quasi un’imposizione. ‘A Macao metto questa musica, e voi gente ignorante la dovete capire’, non è assolutamente così. Il messaggio è molto più come dici tu, altruista. Non proporre costantemente musica ‘ballabile’ o ‘orecchiabile’ per i più, serve a muovere l’animo delle persone in una direzione di maggiore profondità. Se tu in qualche modo riesci a distaccarti dalla necessità di avere qualcosa di bello e positivo dalla musica, inteso come suono, e ti apri la possibilità di trarne qualcosa di più profondo, ne puoi uscire anche molto soddisfatto.”
Questo non vuole certo dire che Macao sia l’unico posto a Milano in grado di supportare una causa del genere; la profondità di ascolto e l’apporto di complessità ai processi di recezione della musica, era già intento comune di locali/serate milanesi, ben prima dell’arrivo di Macao, ma, ancora una volta, il processo attraverso cui veniva diffusa era quello standardizzato dall’industria del clubbing. “Il problema è che, per quanto odi generalizzare,” spiega Giovanni, “a Milano, il pubblico degli eventi e della vita notturna è un pubblico complesso. La città oggi è molto più pronta di un tempo a proposte di questo tipo, e in parte secondo me, è anche merito di un gesto di rottura come il nostro, e il pubblico si sta lentamente abituando. Questo secondo me è positivo. Meno positivo è che l’incremento di movimento notturno derivi principalmente da Expo, ma è un altro discorso.”
“Una regola fondamentale per tutti i progetti è l’attraversabilità pubblica, cioè il momento di ritrovo è comunque aperto a qualsiasi persona proveniente dall’esterno che vuole parlare o collaborare. È il modo con cui maggiormente accogliamo progetti esterni, specie col tavolo suono. La metà degli eventi che facciamo sono proposte che ci vengono fatte dall’esterno e che poi organizziamo e gestiamo noi. Ad esempio, la serata di URSSS di qualche settimana fa con M.E.S.H è nata così. La line up l’ha organizzata tutta uno di noi, però la collaborazione è a nome URSSS perché sono loro ad avercela proposta. Loro sono anni che vengono qua a riprendere, anche da prima che esistesse l’attuale tavolo suono, e ci è sembrato giusto.” [Giovanni Bozzoli]“Siamo i primi ad andare al Dude ogni tanto, o alla Buka, e con Communion organizziamo anche eventi fuori, vedi il Saponificio. Saprai che tutti noi siamo comunque in contatto con tutti gli ambienti che ‘combattiamo’, nostro malgrado, e alla fine deriva tutto da quello. Se non avessi trovato questo spazio qua, magari non sarei in quel locale che disprezzo a prescindere, perché negli anni sono maturato, ma non avrei modo di dare alternative. Né la possibilità di riunire amici e conoscenti senza aver paura di pensare di star contribuendo a un’industria che tratta la musica ai fini di lucro.”
FUTURO
“Per il futuro abbiamo grandi speranze,” riprende, “ma non sappiamo come finiremo, anche a livello di proposta. Vedendola alla lunga ci si chiede anche in che modo trasformarsi nel tempo; ok, possiamo andare avanti altri dieci anni a fare questo tipo di eventi, ad apportare un elemento di sperimentazione in più, ma a un certo punto dovremo innovarci e alla luce di ciò, il nostro processo è in continua trasformazione. Di recente abbiamo iniziato a fare videomapping, che è una cosa che in Italia sta iniziando ad andare relativamente da poco tempo, ma che in uno spazio per serate a Milano non si era mai visto. Queste piccole cose magari danno un’idea generale delle nuove possibilità artistiche a cui guardiamo. Pure le conferenze. L’anno scorso abbiamo fatto due proiezioni di film, e la conferenza con Samorini. Ne stiamo preparando altre, insieme a workshop, per offrire anche qualcosa che non sia prettamente legato all’intrattenimento serale da clubbing.”
Il futuro di Macao è incerto, e sono tutti abbastanza concordi che in parte dipenderà anche dalle scelte della prossima giunta comunale. “Devo dire che con Pisapia ci è andata di lusso,” afferma Giovanni, “perché comunque un tot di funzionari del comune aperti alle nostre iniziative c’è sempre stato. E soprattutto ci è stato possibile interagirci. Non voglio davvero credere che la prossima giunta possa essere guidata da Salvini, ma se dovessero cambiare le cose potrebbe essere dura mantenere i rapporti che stiamo tentando di mantenere adesso.” Il tipo di interazione tra Comune e Macao è infatti finalizzata all’accettazione di una delibera, che istituzionalizzi la riappropriazione di spazi abbandonati ad opera dei cittadini, prendendo Macao come precedente positivo. L’obiettivo è rendere questo processo più semplice, agevolato, con il solo fine di aggregazione sociale. Non è la prima volta che in Italia si chiede e si attua un processo di questo tipo: il precedente preso a sua volta da esempio dal comitato di Macao è Bologna, con la prima forma di laboratorio sperimentale di arti. “I nostri intenti vanno oltre la semplice interazione con l’istituzione,” mi spiega Ferdinando, “la delibera prevede la disponibilità di una lista di tutti i luoghi abbandonati a Milano, e la possibilità di scelta da parte dei cittadini di riappropriarsi di quelli più ottimali. Sempre secondo criteri di abitabilità, igiene, stabilità, non devono essere ruderi, insomma.”
La delibera andrebbe quindi a introdurre due principali novità, rispetto al sistema attualmente in vigore. La prima consiste nel non avere alcuna figura giuridica riconosciuta a supervisionare l’operazione di insediamento, cioè ogni gruppo di liberi cittadini è potenzialmente in grado di occupare uno spazio, tramite un meccanismo di silenzio assenzo da parte del Comune. Se entro tot giorni non venisse contestata l’operazione, lo spazio diventerebbe legalmente fruibile in questi termini. “L’abbiamo scritta principalmente noi,” riprende Ferdinando, “quasi tutto l’articolato è frutto del lavoro interno di Macao. Non vogliamo essere alla pari delle istituzioni in questo senso, facendo però valere la nostra presenza e i principi in cui crediamo. Il fatto che cerchiamo contatti con le istituzioni non vuol dire che non siamo occupanti, ma è il fronte che abbiamo all’interno della città che speriamo dia la possibilità a tantissimi gruppi e associazioni singole di stabilizzarsi. Gli spazi fanno parte dei mezzi di produzione. Su questo filone stiamo lavorando molto adesso, e speriamo di ottenere risultati prima che cambi la giunta. Vorremmo anche creare strutture virtuali e reali per la creazione di una piattaforma operativa di scambio di mezzi, spazi, competenze e conoscenze. Il progetto l’avevamo presentato due anni fa, che prevedeva un premio di centomila euro, ma non abbiamo vinto. La piattaforma prevede la strutturazione di una rete in cui i soggetti si scambiano spazi e mezzi di produzione, ricavandone un valore economico di ritorno, non necessariamente monetario.”
Sala prove in allestimento
Un eventuale esito positivo della richiesta, porterebbe a maggiore stabilità anche per i tavoli e progetti artistici annessi alla politica di Macao, che si ritroverebbero così incentivati ad espandersi—anche fisicamente—e ad evolvere i propri standard operativi. Seguendo questa logica costruttiva, la città avrebbe finalmente la possibilità di riutilizzare a suo favore la lotta all’industria della cultura globalizzata e mercificata, non a suon di progetti urbanistici stantii e di facciata, ma di azioni. Come spiegato all’inizio, il piano regolatore della città indica che Milano è ricolma di ruderi, intere aree e lotti abbandonati che fanno comodo al tornaconto economico di istituzioni pubbliche e private, ma non al resto della cittadinanza. Fintanto che la loro fatiscenza continuerà a gravare sulla dignità di interi quartieri, gentrificandone case e strade, cancellandone l’identità, ben vengano gli utilizzi abusivi degli stessi e le riappropriazioni attive come quella di Macao.
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