Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personalein collaborazione con Hello bank!Perché come ci ha insegnato il rap, i soldi fanno girare tutto.
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Dando per scontato che con la musica in Italia non si guadagna abbastanza per arrivare a fine mese, qualche settimana fa ho deciso di indagare su quali fossero i veri lavori dei rapper italiani—quelle attività con cui finanziano la loro musica, che gli permettono di sopravvivere anche se la gente non compra più i cd e che in certi casi li ispirano e influenzano le cose che scrivono. Ne erano uscite diverse cose interessanti, tra cui una foto di Montenero in compagnia della sua frutta.
Alla luce del successo di quell’esperimento, ho deciso di completare la mia indagine estendendola ai rapper di Roma e Napoli—visto che fino ad ora avevo parlato solo con esponenti della scena milanese e lombarda. Così ho contattato una serie di rapper che hanno storie piuttosto diverse tra loro. In generale, la sensazione che ho avuto è che i rapper della nuova scuola preferiscano spendere tutte le loro energie nella musica senza mettere in pratica alcun piano alternativo, almeno per il momento.
MYSTIC ONE
Gabriele Clemente—che sul palco si fa chiamare Mystic One—è un rapper romano che circa un anno fa, nel suo tempo libero, ha messo insieme uno dei dischi più belli offerti dal rap italiano: Peso Specifico.
“Lavoro vicino a un viale gigante che ti porta fino al mare,” mi ha raccontato. “Mangio una cosa veloce, mi metto le cuffie e inizio a camminare avanti e indietro con sotto la base. Penso, ripeto, ma non scrivo. Quando torno dal lavoro metto tutto per iscritto su una chiavetta USB, ma non è che ho tanto tempo in generale”.
Mystic One ha iniziato a fare rap quando era ancora ragazzino e nella sua carriera conta dei featuring di un certo peso per chi ha seguito l’evolversi della scena rap di Roma negli ultimi dieci anni: è apparso infatti su Verano Zombie, Ministero Dell’Inferno, In The Panchine 2 e su un’altra manciata di dischi e mixtape legati a quella cosa irripetibile che è stata il Truceklan.
Mentre diventava un punto di riferimento della scena romana, Gabriele ha iniziato a lavorare come media planner, ovvero la persona che decide come ripartire i budget a disposizione di un cliente che ha deciso di comunicare qualcosa a qualcuno—in pratica, lavora nel campo della pubblicità. Nonostante la sua carriera come rapper sia iniziata prima di quella lavorativa, le due cose hanno cominciato a ingranare più o meno nello stesso periodo—per cui non ha mai dovuto scegliere davvero la sua strada, ma per lui la musica e il lavoro si sono sempre un po’ incrociati.
“Non ho mai pensato di vivere facendo rap, perché non ho mai sentito l’esigenza di monetizzare la mia musica,” mi ha spiegato. “E probabilmente il pubblico di riferimento non sarebbe stato nemmeno abbastanza ampio per farlo. In ogni caso, questo mi ha permesso anche di non doverla piegare ad esigenze economiche.”
Inoltre, ha sempre cercato di evitare conflitti tra la sua attività di rapper e i suoi doveri lavorativi: “Quando sei assente devi sempre pensare che stai lasciando i tuoi colleghi con un carico extra sulle spalle, quindi diciamo che cerco di andare in ufficio ogni volta che posso, magari facendo i concerti dopo il lavoro.”
Certo, la prospettiva di farsi una settimana di lavoro e poi due concerti di venerdì e sabato trasforma la domenica in una specie di incubo, perché le ore di riposo sono così poche che ancora prima di poter decidere cosa fare del proprio tempo libero è già ora di tornare in ufficio. “Alla fine ti viene da pensare di fare come Michael Douglas, alzarti, fermare la macchina e ammazzare qualcuno.”
IL TURCO
Il Turco, che nella vita di tutti i giorni si chiama Pietro Clemente, lavora come cuoco nella cucina di un ristorante. Ha iniziato a fare rap fin da piccolo e fa parte della scena romana sin dagli anni Novanta, quando ha partecipato a Rastafestagangsta con i Flaminio Maphia. Da allora ha fatto tre dischi da solista e diversi altri con il suo gruppo Gente de Borgata, che è appena uscito con il mixtape Benvenuti In Borgata 3.
“Ho iniziato a lavorare quando ero ancora molto giovane e non avevo idea di quello che volevo fare nella vita,” mi ha raccontato. “Per alcuni anni ho alternato la musica a lavori saltuari e occasionali, finché non ho iniziato a fare il cuoco: da quel momento non ho più cambiato.”
Col tempo, ha avuto sempre più difficoltà a far coesistere le due parti della sua vita, soprattutto perché lavorare nella cucina di un ristorante non è affatto facile—è un lavoro fisicamente massacrante. “In questo momento lavoro in un posto che è aperto sempre, tutti i giorni dell’anno,” mi ha spiegato. “Ma ho sempre cercato di trovare del tempo da dedicare al rap. Certo, bisogna fare i salti mortali e organizzarsi bene con i turni, ma con un po’ di impegno si riesce a trovare il tempo anche per fare i concerti.”
Anche se viene pagato per suonare, la musica per lui è una passione, una valvola di sfogo molto importante: “Quando sei affezionato a una cosa, in un modo o nell’altro il tempo per farla lo trovi. Per fortuna i miei colleghi sono stati molto comprensivi da questo punto di vista e mi hanno aiutato molto,” mi ha detto. Anche lo stesso rapporto con i colleghi a volte finisce per essere strano, perché le voci girano e le persone con cui lavori finiscono sempre per scoprire la tua seconda vita. “Una volta mi è capitato di lavorare con due ragazzi molto giovani che mettevano sullo stereo le mie canzoni. In realtà è una sensazione piacevole e ha un valore tutto suo, non credo che chi non lavora possa capire fino in fondo cosa si prova.”
Il Turco non considera il rap come un lavoro, per cui gli aspetti economici non gli interessano più di tanto: “Ho sempre avuto un tipo d’approccio poco imprenditoriale nei confronti della mia musica,” mi ha spiegato. “Nei periodi migliori arrotondo le spese della vita quotidiana, ma il guadagno più grande è sicuramente quello emotivo.”
LUCHÈ
La prima volta che ho sentito rappare Luchè è stato nei primi anni Duemila, in una traccia di Roccia Music Vol. 1, il primo mixtape di Marracash e uno dei dischi invecchiati meglio di quel periodo. All’epoca Luchè—che nella realtà si chiama Luca Imprudente—faceva ancora coppia con ‘Nto, con cui formava i Co’Sang.
Nonostante abbia avuto una carriera discografica di notevole successo, nel 2012 ha deciso di realizzare un progetto che aveva in mente da anni: aprire un ristorante a Londra. “Erano anni che mi informavo e studiavo i metodi di lavoro delle persone che conoscevo e che avevano intrapreso questa stessa strada. Alla fine io e Corrado, il mio socio, abbiamo messo insieme un budget e abbiamo deciso di gettarci in quest’impresa,” mi ha raccontato.
A suo dire, però, il lavoro non ha influito sulla sua creatività. “Sono sempre stato molto lento a scrivere, per cui da questo punto di vista non è cambiato tanto,” mi ha detto. “Quando abbiamo deciso di investire nel ristorante sapevamo già di dover fare i conti con la musica, che era e resta una priorità nelle nostre vite.” Perciò, tutto è stato impostato in funzione di questa esigenza, e per avere sempre tutto sotto controllo Luca si è costruito uno studio di registrazione accanto al ristorante.
“Subito dopo l’apertura sono stato molto presente, ma poi quando l’attività ha iniziato a procedere da sé ognuno di noi ha capito l’importanza del suo ruolo e io mi son potuto liberare di certe responsabilità. Ma nonostante questo, io e Corrado cerchiamo sempre di essere un punto di riferimento per i clienti,” mi ha spiegato.
In questo momento della sua carriera Luchè sta lavorando al suo nuovo album solista, di cui è uscito da poco “Per la mia città,” il primo singolo. Curiosamente, all’interno della canzone c’è un riferimento alla sua attività: “ho dieci famiglie che mantengo col mio lavoro”—perché effettivamente in soli tre anni l’attività è cresciuta molto.
Da come me ne ha parlato, Luca mi è sembrato una persona molto precisa, uno di quei ristoratori che passano la notte a leggere le recensioni al proprio locale su TripAdvisor. E in realtà probabilmente è davvero così: “Bisogna imparare a fidarsi delle persone prima di pensare al guadagno, perché quella è solo una conseguenza. Solo così si può costruire un’attività di successo,” mi ha spiegato.
Luchè è uno dei musicisti più famosi con cui ho parlato, eppure mi ha detto che per lui il ristorante è molto più redditizio della musica—il cui vero introito è rappresentato dai concerti. “Se tornassi a vivere in Italia, probabilmente riuscirei a vivere di musica, ma di certo non riuscirei a mantenere lo stile di vita che ho scelto,” mi ha spiegato. “E poi il ristorante per me è davvero importante, è un investimento nelle persone che ci lavorano e contiene tutta la cultura che mi sta a cuore—dalle foto di Biggie e di Troisi alle vedute del Vesuvio.”
LUCCI
Lucci fa parte della crew Brokenspeakers, nata a Roma nel 2007 e subito affermatasi nella scena della città. Poco più di un anno fa è uscito Brutto e stonato, che in un certo senso è il suo primo disco da solista dopo una carriera di oltre dieci anni.
In un’intervista di qualche tempo fa, ha espresso la sua opinione su chi comincia adesso a fare rap con una mentalità puramente imprenditoriale: adesso “iniziano non tanto per rappare, per stare su un palco nel senso più hardcore della parola, quanto perché vogliono fare quel lavoro.” In effetti la sua esperienza personale è piuttosto coerente con questa visione: “Se mi avessi chiesto che lavoro faccio qualche anno fa ti avrei detto che mi occupavo di allestimenti museali. Ma la vita è strana e ora ho aperto un bar, dopo aver gestito per qualche tempo un negozio di bombolette spray,” mi ha detto.
A gestire il locale sono tre soci. Raffaele, questo il suo nome nella vita vera, si occupa della sala e del bar durante l’afterhour. Dal punto di vista economico, la musica non è il suo introito principale, ma quando va bene—ad esempio nell’ultimo periodo di tour, subito dopo l’uscita del suo album—è praticamente un secondo stipendio. “Anche nei periodi di magra si riesce ad arrotondare bene con i live, mentre con il merchandising e i dischi si guadagna di meno,” mi ha detto.
Come molti altri rapper con cui ho parlato, anche Lucci non ha mai pensato di fare della sua musica un lavoro vero, anche se forse avrebbe potuto. “Negli ultimi sei anni sarei stato tranquillamente in grado di mantenermi, ma si sarebbe trattato di una situazione molto precaria,” mi ha spiegato. “Anche perché, ad essere sincero, penso che tra due o tre anni non mi cagherà più nessuno.”
Ora che ha una sua attività i limiti imposti dal lavoro alla sua creatività sono molto meno asfissianti, anche se comunque per lui il lavoro è sempre stato più una fonte d’ispirazione che un peso. “Quando mi occupavo di allestire mostre, una famosa storica dell’arte mi ha chiesto un autografo per il figlio, che era un mio grande fan,” mi ha raccontato. “Anche adesso mi capita spesso che i ragazzi vengano al locale per conoscermi o parlare di musica, e sono sempre un po’ straniti. Una volta un ragazzo mi ha chiesto, ‘Ma tu lavori?’ Eccerto zì, mi piace pure un sacco.”
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