Queste madri di jihadisti si sono unite per salvare i propri figli dallo Stato Islamico

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A dicembre 2014, Mohamed Amimour ha compiuto un viaggio di tre settimane verso la Siria per cercare di convincere suo figlio Samy – 27 anni ed ex conducente di autobus – ad abbandonare lo Stato Islamico e fare ritorno in Francia. 

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Il suo primo tentativo è fallito, e Amimour è tornato a Parigi senza il figlio. L’uomo, però, non aveva perso le speranze: in un’intervista rilasciata a Le Monde dichiarò che anche la madre di Samy era pronta a compiere lo stesso viaggio, per tentare ancora una volta di convincere il figlio a lasciare IS e la Siria.

Alla fine, Samy ha lasciato la Siria e fatto ritorno in terra francese — purtroppo, però, nelle vesti di uno degli attentatori che il 13 novembre scorso hanno ucciso 129 persone in una serie di attacchi coordinati nella città di Parigi.

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La madre di Samy Amimour non è l’unico esempio di donna e madre che fa il possibile per strappare i propri figli, mariti o fratelli dallo Stato Islamico. E sono proprio le madri un punto di collegamento potenzialmente importante – benché spesso ignorato – tra i jihadisti e i servizi segreti che gli danno la caccia. 

Sono madri di giovani e giovanissimi cresciuti in occidente, che decidono di aderire allo Stato Islamico per cercare di ritagliarsi un posto nel mondo combattendo contro gli “infedeli.” Quando non supportano o difendono le scelte dei loro figli, queste donne diventano una delle armi più efficaci nella lotta contro la radicalizzazione.

“Le donne sono prime a poter individuare gli eventuali fattori di rischio nei comportamenti dei figli.”

Sono quasi 4.000 i foreign fighter partiti dall’Europa per andare a ingrossare le fila di IS; secondo un rapporto dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICRS), ben 1.200 di questi giovani sono partiti dalla Francia. Seguono Regno Unito e Germania (500-600) e Belgio (440), mentre dall’Italia sarebbero partiti 80 combattenti.

Se cresce il numero dei ragazzi che vanno a combattere per IS, cresce però anche il numero delle madri che si alleano per cercare di riportare a casa i figli. 

Come la canadese Christianne Boudreau che, dopo aver perso nel 2014 il figlio Damian, 22 anni, ad Aleppo, ha fondato Mothers For Life, una rete di madri che su internet – lo stesso mezzo usato dai figli per cominciare la loro ‘nuova vita’  – lancia appelli per farli tornare a casa.

La fondatrice di Mothers for Life, Christianne Boudreau.

Un’altra di loro, Saida Munye, nata in Somalia e da vent’anni cittadina svedese, sta cercando di recuperare la figlia Fatima, studentessa di ingegneria che tuttora vive nel Califfato dopo aver sposato un reclutatore di IS.

Saida collabora con l’organizzazione Women Without Borders, che a sua volta ha creato Sisters Against Violent Extremism (SAVE), la prima piattaforma globale antiterrorismo basata sul coinvolgimento delle donne — in primo luogo, le madri.

La fondatrice, la sociologa austriaca Edit Schlaffer, ha spiegato a VICE News perché secondo lei sono proprio le madri a svolgere un ruolo fondamentale nella lotta alla radicalizzazione e al reclutamento fondamentalista.

“Queste donne sono le prime a poter individuare gli eventuali fattori di rischio, perché sanno chi sono gli amici dei figli e come si comportano i ragazzi a scuola o al lavoro,” ha spiegato Schlaffer.

Secondo la sociologa, le madri sono testimoni oculari delle frustrazioni dei loro figli: nell’aiutarli a ricercare la loro identità svolgono lo stesso ruolo che poi viene assunto da IS, e che costituisce in fondo la forza del gruppo.

“Molte madri di jihadisti sono convinte che avrebbero potuto fermare i figli, se solo avessero avuto più fiducia in loro stesse”

Lo Stato Islamico offre infatti autostima e senso d’appartenenza, due caratteristiche che fungono da forte attrattiva per le giovani reclute. Ai giovani che si sentono discriminati nei paesi occidentali viene fatto credere che uccidere in nome della religione sia un gesto eroico, un modo per esprimere la propria forza fisica e proteggere il proprio popolo dall’umiliazione e dal senso di inferiorità.

Un lavoro ancora diverso viene svolto invece per le ragazze: non solo vengono adescate con la promessa di un senso di appartenenza e di realizzazione secondo i valori di patria e religione ma anche, secondo Schlaffer, “sedotte da un illusorio senso di romanticismo, gli vengono promessi un matrimonio e dei figli come scorciatoia per diventare adulte e sottrarsi all’ambiente sorvegliato della famiglia d’origine.”

Un ruolo importante può essere svolto dalle madri nell’individuare i campanelli d’allarme che possono indicare la volontà di partire per la Siria e unirsi a IS. “Cambiano modo di vestirsi, iniziano a criticare la lunghezza delle gonne delle compagne di classe, rinunciano agli alcolici o a mangiare a casa se in tavola c’è il vino,” ha spiegato Schlaffer.

Dalla pagina Facebook di Women Without Borders.

I ragazzi “si allontanano dagli amici di sempre e dalla famiglia, tagliano ogni contatto con i non-credenti che si frappongono fra loro e il jihad, inclusi i genitori.” Da un giorno all’altro i giovani spariscono nel nulla, per lo più senza ricevere il consenso dei familiari.

Le donne che fanno parte della rete di Sisters Against Violent Extremism sono impegnate nella prevenzione e nella lotta alla radicalizzazione. Ma è un percorso tutto in salita: si sentono isolate e condannate al silenzio dall’ostilità del resto della società.

“Molte madri di jihadisti sono convinte che avrebbero potuto fermare i figli, se solo avessero avuto più fiducia in loro stesse, più conoscenze e più sostegno,” ha spiegato Schlaffer.

Proprio per questo, secondo la sociologa, è importante creare un network di sostengo che permetta alle madri di condividere la storia dei propri figli e lavorare per prevenirne la radicalizzazione. “La soluzione a questa minaccia sta nella capacità delle madri di reagire, al di là del senso di colpa per le drammatiche azioni compiute dai figli.”

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Foto di Gianni Dominici via Flickr sotto licenza Creative Commons