Sono passate quasi 48 ore e ancora non mi sono letteralmente ripreso da quell’emozione che da elettore di sinistra e interista ho vissuto poche volte: aver puntato sul cavallo giusto. Mahmood ha vinto Sanremo e per la prima volta, nella mia banalissima e parzialissima visione da ascoltatore, mi sembra che la rappresentazione massima della musica italiana sia riuscita a imboccare la modernità senza cliché e senza layer d’ironia accompagnati da gorilla.
Si potrebbero riempire inutili pagine con polemiche sul contorno della vittoria di Mahmood, dai commenti di Salvini e di Maio a quelli di Ultimo, eppure è così bello soffermarsi sui vincitori che sarebbe quasi denigratorio per chi da zero è finalmente riuscito a prendersi quello che sembra tutto. Mahmood era infatti il meno quotato per la vittoria secondo i bookmaker, pagato circa 50 a 1.
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Nell’unica occasione in cui ho avuto modo di parlare con Mahmood ci siamo confrontati sul luogo in cui entrambi viviamo, la Zona 5 di Milano. Io in questi anni di permanenza mi sono fatto amici nel quartiere e lui, invece, è cresciuto e ci ha fatto le scuole; entrambi viviamo in una città multiculturale, insomma, e l’origine della famiglia di una persona non è un punto su cui discutere. Non vedo quindi neanche il bisogno di sbeffeggiare Salvini con un articolo: chiunque non abbia la testa perennemente ficcata sotto un metro di sabbia può riconoscere quanto siano sterili le sue polemiche.
Ciò su cui vorrei invece soffermarmi, nel commentare il risultato di Sanremo, è l’ondata di innovazione musicale che si è infranta sull’Ariston sotto i nostri occhi, quasi senza che ce ne accorgessimo. Non me ne vorrà Mahmood, infatti, se dico che parte della sua vittoria è dovuta anche alla presenza dell’Eminenza Grigia del rap italiano: Charlie Charles, che si appresta a scardinare i canoni del pop italiano e ha co-prodotto il pezzo con Dardust.
È dal 2015 che tutti teniamo Charlie costantemente sott’occhio. Abbiamo dato per scontato il fatto che avessimo tra le mani un fuoriclasse, ma pensavamo fosse un fuoriclasse di genere. I suoi beat per Sfera e Ghali hanno rivoltato il rap mainstream come un calzino, e lui ne ha conquistando lentamente lo scettro, ma l’impressione era che se re fosse diventato, il suo regno avrebbe avuto i ristretti confini del rap. Nel game per il game. Vincere Sanremo, invece, spalanca porte che pensavamo non si potessero aprire mai.
In questo momento mi sento come un tifoso del Genoa nel 2010 mentre osserva Milito che mette a sedere la difesa del Bayern e consegna la Champions League all’Inter: tutti sapevamo quanto fosse forte El Principe, ma neanche nelle previsioni più rosee del mondo saremmo arrivati a pensare che l’argentino avrebbe riportato dopo 45 anni sul tetto d’Europa i nerazzurri.
Il percorso di Charlie verso il pop dichiarato era già iniziato con Album di Ghali. Il relativo problema, però, di chi si spinge nel pop partendo dal rap, è sempre quella morbosa voglia di dimostrare ai vecchi fan di saper ancora competere nel gioco. È successo con Emis, è successo con Fedez, e anche Ghali, al di là delle differenze musicali, non è da meno.
Mahmood, invece, è il prototipo di artista perfetto per questo tentativo di scalare il monte della musica pop italiana. Ha un’anima black ma non è un rapper, tanto che nelle interviste dice di voler fare soul e ora dice di fare “Marocco pop”. Ha un piede in ogni ambiente che oggi conta, da quello dei fan di Mengoni a quello sporco di Guè Pequeno. E soprattutto ha una storia da raccontare, il che non è scontato nel paese in cui i cantanti pop sono “sfigati, sempre innamorati / una tipa li ha sempre lasciati”. “Soldi” è quasi la parte due della canzone che ha portato Mahmood a vincere Sanremo Giovani, ovvero “Gioventù Bruciata“, titletrack dell’EP.
Come poi ha sottolineato Federico Pucci su Twitter, la vittoria di questo brano non è casuale ma è dovuta a una precisa struttura che coniuga i canoni classici con quella che amiamo definire innovazione – un “tocco speciale” che “consiste nella precipitosa dichiarazione del ritmo e della melodia fin da subito, come in certe produzioni firmate Swizz Beatz (da DMX a Drake), come in certe cose 90s (‘Ghetto Supastar’). Segno che l’operato di Charlie non è distruttivo, ma è un piano d’azione in pieno stile rap: prendere ciò che già esiste e funziona, distruggerlo, rimaneggiarlo e farne qualcosa di incredibilmente più adatto ai suoi tempi e funzionale.
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