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Mamma vita mia – Storie di vecchi carcerati napoletani e dei loro tatuaggi

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Qualche anno fa mi sono trovato a intervistare un ergastolano a cui è stata concessa la semilibertà a 60 e rotti anni. A un certo punto, durante l’intervista, ha tirato su la manica della felpa, lasciando sbucare un tatuaggio sbiadito: una scritta in stampatello che non sono riuscito a decifrare. Incuriosito, gli ho chiesto se se lo fosse fatto in carcere. Lui ha cambiato discorso facendomi capire che non ne voleva parlare.

In molti casi, avere un tatuaggio oggi è ben diverso da averne avuto uno 40 anni fa—per di più se quel tatuaggio te lo sei fatto fare in carcere. Ma com’erano i tatuaggi fatti nelle carceri italiane quando ancora i tatuaggi si facevano lì e in pochi altri luoghi, e quali i motivi e i messaggi che spingevano i detenuti a farseli fare?

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Giuseppe Di Vaio e Braian Anastasio, rispettivamente fotografo e tatuatore, hanno cercato di rispondere a queste domande tramite un’indagine durata due anni tra gli ex carcerati napoletani, per scoprire qualcosa in più sulla cultura e la simbologia del tatuaggio criminale in città. Il risultato è il docufilm Mamma vita mia, coprodotto con il Napoli Photo Project e presentato in anteprima alla London Tattoo Convention. Ho chiamato Giuseppe e Braian per parlare del loro lavoro.

VICE: Sono stato a Napoli una volta sola, ma una cosa che mi è rimasta impressa è la quantità di persone tatuate—persone di tutte le generazioni. C’è un legame forte tra Napoli e la cultura del tatuaggio?
Braian Anastasio: In verità il boom dei tatuaggi c’è stato dal 2007 in poi, e credo che come in tutte le città sia legato alla moda. Oggi a Napoli il 60, 70 percento delle persone sono tatuate.
Giuseppe Di Vaio: Io credo che oltre il fattore “moda” il numero così alto di persone tatuate a Napoli abbia a che fare con una situazione di difficoltà e di sofferenza. Molti si tatuano per avere un ricordo chiaro di un momento della propria vita, e Napoli è una città dove molti ragazzi che si tatuano hanno un vissuto forte alle spalle, magari differente da quelli di altre città. E questo per mille motivi facilmente intuibili.

Com’è nata l’idea di Mamma vita mia, che invece tratta dei tatuaggi criminali?
B.A.: Sono 12 anni che lavoro nel settore dei tatuaggi, e inizialmente quando vedevo i tatuaggi di queste persone non mi piacevano. Poi, quando ho cominciato a informarmi un po’, ho capito che non mi piacevano perché li osservavo da un punto di vista tecnico. Solo dopo ho capito che erano delle vere e proprie opere d’arte del tatuaggio.

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Tutti gli still dal documentario Mamma vita mia per gentile concessione degli intervistati.

Su chi avete deciso di concentrarvi, a livello di intervistati? È stato difficile mettersi in contatto con loro?
G.D.V.: Le persone che cercavamo dovevano essere state in carcere ed essersi fatte tatuare lì tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Se si fosse trattato di intervistare “giovani criminali” sarebbe stato più facile, sarebbero stati quasi contenti di apparire. Ma per persone che possono avere anche 80 anni non è così. Alcuni magari ci davano disponibilità all’inizio e poi si tiravano fuori.
B.A.: Non è stato facile neanche dopo averli convinti. All’inizio facevamo le interviste all’interno di uno studio di tatuaggi, poi però abbiamo capito che gli intervistati non si sentivano a proprio agio. Perciò abbiamo deciso di andare in ambienti più familiari, tipo le loro case o altri posti da loro frequentati.

Calcola che alcuni di questi sono criminali “leggendari”, persone che hanno commesso reati molto gravi. È come se, a un certo punto, si fossero accorti di avere l’occasione di raccontare la loro vita per come era andata secondo loro. Insomma, era come se noi gli stessimo dando una chance.

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Nel documentario i vari intervistati spiegano le ragioni per cui si sono tatuati. C’è chi dice di averlo fatto per noia, chi per imitazione, chi per appartenenza.
B.A.: Molti dei tatuaggi che vedi sono dei simboli, dei segnali da inviare agli altri. Quindi da un lato c’è sicuramente questo aspetto, dall’altro se devi passare molto tempo in carcere qualsiasi cosa “diversa” può essere attraente. Alcuni lo facevano per ammazzare il tempo: in quei casi il risultato sono tatuaggi più frivoli, ma comunque chi li portava poteva essere un criminale—semplicemente perché fuori non c’erano gli studi di tatuaggi. Se avevi un tatuaggio era probabile arrivassi dal carcere [o dal porto, N.d.R.].

Quali simboli andavano per la maggiore?
B.A.: I simboli erano molti. Per esempio il pesciolino con cui il carcerato faceva capire che di lui ci si poteva fidare perché, appunto, sarebbe rimasto con l’acqua in bocca. Poi c’erano altri tipi di tatuaggi più compromettenti, come l’asso di bastoni che si facevano i capi delle paranze.
G.D.V.: Ci sono molti tatuaggi dedicati alla madre, tatuaggi contro la polizia e i famosi punti della malavita: carcere, galera, tomba, trent’anni non mi fanno ombra. È un tatuaggio che comunicava che non avevano paura di fare la galera. Poi c’erano gli occhi sulla schiena o sul petto che simboleggiavano la “vigilanza costante” anche quando di spalle o addormentati. Uno degli intervistati poi si era tatuato “N.C.O.” e cioè “Nuova Camorra Organizzata”, ma lui era un caso particolare.

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In che senso?
G.D.V.: Nel senso che non c’è un vero e proprio legame tra il tatuaggio e la mafia. C’è con la criminalità, quello sì.
B.A.: Sì, pensa che comunque erano persone che facevano di tutto per non farsi prendere dalla polizia, quindi non è che si tatuavano il simbolo del loro clan.

Quali erano gli strumenti con cui venivano fatti i tatuaggi?
B.A.: Si prendeva l’estremità di legno di un pacchetto di fiammiferi e ci si attaccavano tre aghi in fila. Per l’inchiostro veniva usato il cosiddetto “nerofumo” che si otteneva scaldando il fondo di una pentola con un accendino fino a farlo diventare nero. Quel nero, poi, veniva raschiato via con una lametta, e la polvere che si otteneva si mischiava al sapone per renderla più densa. Una volta che avevi inchiostro e macchinetta il tatuaggio veniva fatto a mano. Per farne uno da dieci centimetri servivano anche quattro ore.

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Nel documentario raccontate storie forti. Qual è quella che vi ha colpito maggiormente?
G.D.V.: Pensa che abbiamo fatto in modo di alleggerirle. Personalmente, sono “affezionato” a tutte le storie, però quella che mi ha colpito di più è la prima. È stata una storia molto “divertente” perché avevamo a che fare con un personaggio estremamente schivo, famoso per il suo carattere scontroso. Braian non so come è riuscito a convincerlo e mi ha chiamato mezz’ora prima dell’intervista dicendomi, “Organizzati, altrimenti questo non lo troviamo più.” Siamo andati a casa sua, considera che lì dentro non entrava nessuno da cinque anni—vive veramente in esilio. L’abbiamo trovato in mutande. Quando abbiamo toccato altri argomenti più emotivi, ci ha parlato della moglie fino a commuoversi.
B.A.: Sì, calcola che per entrare abbiamo dovuto portare delle scatolette di cibo per il cane…

Cosa aveva fatto per finire in carcere?
G.D.V.: Considera che tempo dopo abbiamo incontrato delle persone che ci hanno chiesto come avessimo fatto a entrare da lui. A Rione Sanità tutti lo chiamano il “Baffone” e cinquant’anni fa era alto un metro e 90, con due spalle enormi e il coltello sempre a portata di mano. Il suo è un passato ricco di omicidi, di lavori ‘clandestini’, etc.

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Pensate che il documentario riesca a fornire uno spaccato sociale di quella che era la mentalità che esisteva in carcere in quegli anni?
G.D.V.: Credo che siamo riusciti a dare un’idea di quello che era il carcere, facendolo dire alle persone che ci sono state. Ci hanno raccontato il percorso, come si entrava, come si usciva e come si veniva trattati. Al contempo, non era quello il nostro scopo. Questo è un lavoro sulla cultura del tatuaggio, anche se strettamente legato al mondo criminale.

Un’ultima curiosità: perché non ci sono donne nel documentario?
B.A.: Perfetto, hai messo proprio il dito nella piaga. L’unica donna che avevamo trovato voleva dei soldi. Questa è una cosa che io e Giuseppe abbiamo fatto a spese nostre e budget zero, spinti dalla voglia di far conoscere questo mondo. Nonostante questo, alla fine questa donna l’abbiamo pagata, e pur pagandola non l’abbiamo più trovata.

In generale, comunque, è molto difficile trovare donne da intervistare, e soprattutto convincerle. Per gli uomini credo si sia trattato di un’occasione di riscatto, mentre per le donne c’è ancora una forte componente di “vergogna”.
G.D.V.: Sì, anche tra gli uomini molti hanno rinnegato certi tatuaggi, e hanno in seguito fatto di tutto per nasconderli. C’è chi al mare li copriva con l’accappatoio, chi invece cercava di toglierseli con sale e acqua bollente per consumare la pelle.

L’intervista è stata editata e condensata per chiarezza. Segui Leon su Twitter.

Guarda il nostro documentario sul padre del tatuaggio in Italia: