Maniac potrebbe essere l’ennesima serie ad alto budget marcata Netflix, con tutti i crismi dell’ottima fattura e di un cast solido composto di volti noti. Al di là di un certo citazionismo sempre apprezzabile — richiami agli spazi freddi e siderali dell’Alien di Scott, all’Odissea di Kubrick, al Brazil di Gilliam e così via — quello che lo rende meritevole è l’approccio che ha nei confronti della retromania e, nello specifico, degli anni ‘80. In un certo senso, sembra voler raccontare la nostra malattia culturale per il decennio di Reagan e la Thatcher con logiche postmoderniste e richiami alla nevrosi lacaniana.
La serie è ambientata in un futuro bizzarro: moda vintage come la sua tecnologia, fatta di monitor sfavillanti di bit grezzi, computer e automi imbarazzanti, dove la gente passeggia, fuma e si incontra nelle tavole calde come nelle vecchie commedie ambientate nella Grande Mela.
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Il futuro di Maniac è incoerente, cosa che lo rende, sotto certi aspetti, un futuro assente di futuribilità. L’immaginario distopico, alla Black Mirror, non è che una parodia del genere. Sono argomenti sfiorati nelle prime puntate, come quello del “Friend Proxy” o del simpatico “Ad Buddy”. Ma sono frivolezze, giochi di e su qualcosa già visto e letto. La prima cosa da capire su Maniac è che non è una serie distopica e che non parla di futuro. Semmai, parla della sua assenza.
Potremmo dire che in Maniac succede in senso opposto il movimento dei racconti di Philip Dick scritti negli anni ‘50. Nelle opere dello scrittore ci sono eventi anomali, piccoli dubbi, che mettono in crisi il presente storico per infilarlo in un contesto sci-fi: qui succede il contrario, dove sempre più elementi del presente e addirittura del passato incastrano la macchina del tempo.
Maniac comincia a girare come una trottola filosofica nel momento in cui i due protagonisti si affidano alle cure del dottor James Mantleray, interpretato da Justin Theroux, uno scienziato che vuole sorpassare la classica psicanalisi con un misto di farmacologia estrema, intelligenza artificiale e analisi dell’area cerebrale tramite macchinari che sembrano pezzi di hardware di un computer malamente assemblato.
Annie, Emma Stone, e Owen sono due persone con due disturbi mentali. Lui è uno schizofrenico ossessionato da frequenti allucinazioni, delle quali la più grave è l’apparizione di un fratello inesistente; Annie è una misantropa, incapace di affezionarsi a chi le sta vicino. Ma più che concentrarsi sulla condizione specifica della schizofrenia o di un disturbo di affettività, mettendo in scena un tipico percorso terapeutico basato su un tipico rapporto medico-paziente o di far affondare i due protagonisti nelle loro psicosi, il tema che più accomuna Owen e Annie è la depressione, più in generale la tristezza. O meglio, una tristezza condivisa.
La tristezza di Owen e la rabbia di Annie affondano nel passato, in una sorta di multiverso fatto di altri io, di vite altre vissute e dimenticate o mai ricordate. Ed è questa congettura filosofica ad aprire un senso nuovo alla malattia mentale dei due personaggi. La tristezza sembra essere un effetto derivante dall’incapacità di ricordarsi le relazioni avvenute nelle altre vite. Questo, sia chiaro, potrebbe essere una delle letture, in quanto Maniac è volutamente un’opera di difficile comprensione e sfumata, fisiologicamente aperta a diverse interpretazioni.
In modo simile, si potrebbero e considerare i sogni provocati dalle tre pillole somministrate dal dott. Mantleray come le terre di un inconscio collettivo, un tessuto mentale interconnesso nel quale le persone possono incontrarsi. D’altronde si parla di ammasso globulare di realtà arborizzate: gli inconsci dei singoli sono ammassati, come le stelle, attratti uno sopra l’altro, come se avessero massa e quindi forza gravitazionale.
La fantascienza di Maniac non è quella distopica à la Black Mirror e dei suoi derivati di stampo orwelliani (dei quali faremmo volentieri a meno), ma è la fantascienza letteraria messa in relazione con il romanzo storico. Quest’ultimo storicizza l’uomo, mentre la fantascienza lo libera dalla storia. Vi è un dissolvimento della storicità, che provoca quel senso di narcotico stallo delle esistenze. Ed è questo lo stallo che sembra provocare la malattia mentale dei due protagonisti, del dottore stesso e della sua collega e assistente Azumi Fujita.
Owen è a tutti gli effetti il malato dipinto da Lacan, quello che soffre del “postulato di esistenza”, ovvero, è un soggetto frammentato, vacuo, senza identità. Perché è malato? La risposta risiede nel suo tempo bloccato. La cura delle tre pillole, infatti, è data dalla possibilità di viaggiare con la mente e accedere agli immaginari che, per definizione lacaniana, mancano al soggetto schizofrenico.
Qualche anno fa Frederic Jameson scrisse a proposito di Tempo fuor di sesto, romanzo di Philip Dick pubblicato nel ‘59 che parla di un uomo che vive in un futuro inquieto, colpito da una guerra intergalattica, e che per fuggire dal proprio tempo decide di chiudersi in questa sorta di ambiente virtuale che sono gli anni ‘50.
Nelle parole del critico statunitense “il villaggio degli anni Cinquanta è anche in concreto l’esito di una regressione infantile da parte del protagonista, il quale in un certo senso ha scelto inconsciamente la propria illusione ed è sfuggito alle angosce della guerra civile per le comodità domestiche e rassicuranti della propria infanzia […] il romanzo rappresenta quindi l’appagamento di un desiderio collettivo, l’espressione di un’aspirazione inconscia a un sistema sociale più semplice e umano, un’utopia cittadina.” Allo stesso modo, la regressione è un elemento che il dottor Mantleray sfrutta per fini terapeutici, esperita tramite pillole farmacologiche, così che i suoi pazienti sprofondino nell’ammasso globulare.
Se il romanzo di Dick è una delle prime opere influenzate dalla prima forma malinconica di massa di una nazione, Maniac è una delle più recenti. Nel romanzo di Dick la regressione comunitaria è una fuga da un presente violento, ma rappresenta in una serie TV del 2018?
Innanzitutto, in Maniac ci sono due fughe. La prima è quella del tempo reale, rappresentata dal retrofuturo nel quale è ambientata la storia. La chiamo regressione urbana perché è come vedere un passato che incatena i futuri possibili, li imprigiona, o meglio li rallenta: il risultato è un futuro acefalo. Il retrofuturo della New York di Maniac è un’evidenza fisica, fatta di architettura e moda visibili, tangibili. Ma è un tempo che, per sua stessa definizione, blocca le esistenze di chi lo abita. O addirittura porta i suoi abitanti ad avere comportamenti distonici, come se soffrissero di disturbi del movimento: sguardi persi nel vuoto, tic nervosi, lunghe latenze nei dialoghi, comportamenti vaghi e difficili da giustificare.
Ma c’è anche altro. Maniac parla della retromania generazionale. In un certo senso è un meta-serie, una meta-fantascienza. Le depressioni dei suoi protagonisti sono le malinconie di chi è cresciuto da millennial: in un limbo provocato dalle rievocazioni industriali delle culture del passato, e diventato una doppia vita, quella virtuale sui social e quella prettamente fisica.
Diventa obbligatorio a questo punto citare Mark Fisher che nel suo Ghost of My Life parla di hauntology, oppure la retromania di Simon Reynolds — “anachronism is now taken for granted”, scrive il critico musicale. Questo sentore aleggia su tutta la serie. Un po’ come nel telefilm Sapphire and Steel, che Fisher prende come esempio cardine della stasi e dell’inerzia nella cultura popolare.
Nella vecchia serie britannica c’è un rimescolamento del tempo, un montaggio di epoche storiche e un dissolvimento del tempo stesso. Maniac invece sembra voler rispondere a questa inerzia con la reazione dei protagonisti che vediamo sul finale in cui, in un certo senso, i due riescono a superare la sparizione della storicità e a sorpassare, finalmente, la logica culturale del tardo capitalismo in cui siamo immersi.