La domanda che aleggiava nel dibattito pubblico di qualche mese fa era più o meno la stessa, e per un po’ è stata ripetuta in maniera incessante: “Perché l’Italia non scende in piazza?”
Per un periodo la stampa italiana si è mostrata piuttosto indaffarata nel raccontare le proteste dei manifestanti in Turchia e Brasile e la brutale repressione poliziesca del dissenso. Sull’Espresso, Roberto Saviano scriveva che “guardiamo a queste piazze in rivolta con un senso di nostalgia, come fossero rappresentazione di qualcosa che qui da noi non potrà più accadere.” Le ragioni per scendere nelle piazze italiane—continuava lo scrittore—non mancano di certo: “Crediamo di vivere in uno Stato di Diritto ma a ben guardare questo Stato agisce con comportamenti criminali verso gli immigrati e verso le minoranze.”
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Quando però immigrati, minoranze, movimenti per la casa e di varie lotte sui territori, sindacati di base, e molti altri soggetti sociali hanno indetto due giorni di mobilitazione in Italia (il 18 e il 19 ottobre 2013) contro austerità e precarietà, i toni condiscendenti dei media si sono tramutati in qualcosa di diverso: da un lato in sorda indifferenza; dall’altro in messaggi incontrollati di panico, delirio e caos. Per giorni e giorni, la manifestazione del 19 ottobre è stata presentata esclusivamente come un “corteo No Tav”, con il solito falso corredo di massacri urbani e città messe a ferro a fuoco. Il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, recentemente distintosi per la disastrosa gestione del mancato funerale di Priebke ad Albano Laziale, aveva lanciato l’allarme a mezzo stampa: “Il rischio di infiltrazioni di personaggi violenti durante la manifestazione del 19 ottobre esiste, ma spero che siano isolati.”
L’edizione di Roma del Corriere della Sera contribuiva a gettare benzina sull’incendio mediatico con un articolo intitolato “Roma blindata, zona rossa per i cortei della paura.” Il pezzo parlava di “un clima da guerriglia ancora prima di cominciare la protesta” e di possibili “occupazioni di edifici lungo il percorso fino a Porta Pia, alberghi compresi.” Il 18 ottobre agenzie e quotidiani riportavano che le forze dell’ordine avevano fermato ed espulso cinque cittadini francesi, definiti variamente “professionisti del disordine,” “black bloc con precedenti specifici di turbativa dell’ordine pubblico sia in Italia sia all’estero” o direttamente “terroristi” legati al gruppo Tarnac 9 di Julien Coupat. Altri controlli avevano fatto scoprire l’esistenza di un vero e proprio “arsenale” nascosto in un “furgone sospetto” in viale Regina Elena: “manganelli, biglie, un martello frangivetro e altro materiale, tutto sequestrato.”
Il vero capolavoro si è materializzato in una velina degli “analisti dell’intelligence” ripresa acriticamente dall’Huffington Post. Le previsioni dei servizi attestavano un “livello di pericolo 8 su 10,” mentre veniva dato per assodato che “all’interno del movimento e soprattutto nelle componenti che si muovono ai margini sarebbe ormai passata la linea dello scontro più duro.” L’articolo tratteggiava uno scenario a dir poco apocalittico: “Assalti ai bancomat, agli esercizi commerciali, carrelli dei supermercati da usare come arieti per rompere i blocchi delle forze di polizia, macchine idropulitrici per spruzzare di vernice le visiere dei caschi degli agenti e bombe carta di varia potenza in arrivo da Napoli, oltre a tutti gli strumenti di offesa e difesa che sono stati già sperimentati sul campo.”
Appena arrivo in piazza San Giovanni, il punto di partenza del corteo dove la sera precedente c’è stata una prima acampada, la pornografia della rivolta trasmessa dai media si rivela subito per quello che è realmente: una mistificazione.
L’atmosfera, infatti, è assolutamente pacifica. E di “macchine idropulitrici” e “carrelli dei supermercati” non ce n’è traccia; in compenso, però, è pieno di letali fischietti.
I vari spezzoni sopraggiungono lentamente e confluiscono nella piazza. La composizione è davvero eterogenea, e i giovani riuniti sotto le sigle più diverse sono veramente tantissimi.
I movimenti per il diritto alla casa, un problema particolarmente sentito in una metropoli come Roma (ma non solo), sono presenti in forza.
Aggirandomi per il corteo noto anche molti cittadini di etnia rom, con tanto di famiglia al seguito.
Moltissimi manifestanti puntano sul fattore sorpresa, indossando le maschere di Guy Fawkes.
Il corteo dei migranti è sicuramente uno dei più numerosi, combattivi e colorati. Le loro rivendicazioni, che hanno assunto un significato ancora più forte dopo il naufragio di Lampedusa, sono gridate a gran voce e accompagnate dal frastuono dei fischietti.
Anche i migranti hanno portato in piazza bambini e famiglia.
La testa del corteo comincia a muoversi verso le tre e mezza, in ritardo sulla tabella di marcia: molti pullman sono stati fermati ai caselli autostradali per controlli e perquisizioni. La prima tappa del percorso, via Merulana, è invasa pacificamente da uno sterminato fiume di persone guidato dal camion che spara musica dalle enormi casse.
Il colpo d’occhio sulla via regala, ancora una volta, un’immagine diametralmente opposta a quella cupa e fosca dei media nazionali.
La maggior parte dei negozi è chiusa. Qualcuno, che non si è lasciato intimorire dal clima d’allarme, ha comunque deciso di tenere alzare le saracinesche, e il gesto è stato abbondantemente ripagato dai manifestanti.
Il primo, estemporaneo momento di tensione si verifica quando il corteo lambisce via Farini e via Napoleone III, nei pressi della sede di Casa Pound. Qualche antagonista si stacca dal corteo, e i fascisti del terzo millennio, coperti da caschi e armati di mazze e bastoni, ne approfittano per lanciare bottiglie e oggetti a casaccio. Nel frattempo, due cordoni di polizia si frappongono tra una parte del corteo, i giornalisti e gli estremisti di destra. La provocazione di Casa Pound (che ha addirittura lamentato un inesistente “tentativo di assalto”) non sortisce alcun effetto, poiché il corteo scorre tranquillamente per via Cavour.
La situazione si fa decisamente più calda davanti al Ministero dell’Economia in via XX settembre, dove l’ingresso è presidiato da blindati e agenti della Guardia di Finanza.
Verso le 18, e dopo il passaggio della maggior parte del corteo (compresi migranti e bambini), un gruppo di manifestanti a volto coperto comincia a far piovere sul presidio petardi, bottiglie e fumogeni.
La polizia, appostata ai due lati della via, fa partire qualche carica di alleggerimento. Fortunatamente non vengono sparati lacrimogeni, altrimenti sarebbe stata una potenziale carneficina: quel tratto di percorso è molto stretto, e quasi tutte le vie di fuga sono bloccate dalle camionette.
Un blocco di manifestanti protegge lo spezzone del corteo in via Goito, mentre la testa è già arrivata da un pezzo a Castro Pretorio. Qualcuno dà fuoco a un cassonetto, e assisto alla scena pietosa di un nugolo di giornalisti che riprende e fotografa le fiamme per svariati minuti. Alla fine degli “scontri”, durati davvero pochissimo, vengono fermati circa 15 manifestanti; sei saranno gli arresti convalidati a fine giornata.
L’ultimo momento di tensione con la polizia si registra in piazza della Croce Rossa, sede di Ferrovie dello Stato, dove viene tirato qualche petardo e un poliziotto lancia un lacrimogeno (l’unico) sulla folla, che peraltro non sortisce alcun effetto. Dopo cinque ore, finalmente il corteo arriva alla sua destinazione finale: Porta Pia, a due passi dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.
I manifestanti, sempre accompagnati dall’imponente contingente delle forze dell’ordine, occupano la piazza e posano le prime tende.
Il tutto si svolge in un clima oltremodo disteso, che viene interrotto solo da un brevissimo lancio di bottiglie sulla polizia, subito bloccato dal servizio d’ordine del corteo (che ha funzionato benissimo per tutta la manifestazione).
Quello che si è visto in piazza, insomma, è una pacifica moltitudine di persone (circa 70mila, ma forse anche di più) che ha sfilato compatta per le strade della Capitale, con un atteggiamento maturo e rivendicazioni ben precise che criticano radicalmente le misure d’austerità portate avanti in maniera pressoché indisturbata da governi tecnici e di “pacificazione nazionale”, disposti a sacrificare qualsiasi cosa in nome di una fantomatica “stabilità”.
A livello di movimenti di protesta, l’Italia è molto indietro rispetto al resto d’Europa. Il 15 ottobre del 2011 ha scavato un solco profondo tra le varie componenti—solco che, forse, solo sabato ha cominciato a ricomporsi. È innegabile che i problemi e le rotture ci siano ancora, e che arrivare al 19 ottobre del 2013 sia stato tutt’altro che facile. L’obiettivo di questa manifestazione, comunque, andava ben al di là della mera protesta contingente. Come ha dichiarato Paolo di Vetta, attivista dei Blocchi Precari Metropolitani di Roma, “questa manifestazione può produrre quello scatto che numericamente può trasformarla in qualcosa di nuovo. È una scommessa per noi.”
A giudicare dalla partecipazione, la scommessa può dirsi vinta. Ma è solo un punto di partenza. In un certo senso, il 19 ottobre lascia intravedere la nascita di un soggetto sociale che, dopo cinque anni di crisi durissima, ha intenzione di porsi come un’alternativa alla melma politica delle larghe intese. L’acampada di Porta Pia, comunque, ha già raggiunto un primo risultato: un incontro con il ministro Lupi per martedì prossimo. “Il tavolo,” riportano le agenzie, “sarà incentrato sull’emergenza abitativa, e l’incontro è previsto per le 18, anche con i sindaci di diverse città.”
Ma sulla stampa post-manifestazione non c’è alcuna traccia di tutto ciò. La stragrande maggioranza si è focalizzata unicamente sui lievi disordini davanti al ministero dell’economia, ignorando completamente (e volutamente) il resto della giornata. Le prime pagine dei giornali, sia cartacei che online, regalano davvero la cronaca di un altro pianeta:
Dal Corriere.it.
Quasi tutti hanno parlato di “bombe carta” con all’interno proiettili calibro 12 e di “ordigni” più pericolosi di una “bomba a mano”. Diversi hanno evidenziato con sdegno l’imbrattamento dell’orribile statua di Giovanni Paolo II davanti alla stazione Termini; peccato che non sia semplicemente vero. Il Messaggero si è superato parlando di mappe del terrore (in realtà il volantino che girava durante la manifestazione conteneva il percorso del corteo) e fantomatiche “sniffate di gruppo” di cocaina prima dell’”assedio”. La Stampa si è avventurata nel tracciare l’identikit dei temibili “Black Bloc del futuro”, blaterando di “cattivi maestri” e definendo Anonymous come “nuova internazionale dell’antisistema”, una “nuova Spectre” con cui “dovremo fare i conti.”
Enzo Foschi, il capo segreteria del sindaco Ignazio Marino, ha scritto in uno status sul suo profilo Facebook che “i veri Bleck block [sic]” sono “tutti quei giornalisti infiltrati nel corteo,” che alla fine della giornata sono rimasti delusi dal fatto che non sia stato versato sangue sulle strade di Roma. La definizione è certamente forte e provocatoria; ma non è poi troppo lontana dalla realtà.
Per l’ennesima volta il giornalismo italiano ha clamorosamente deciso di non raccontare quello che aveva sotto gli occhi e ha preferito abbandonarsi al sensazionalismo. È lui, il grande sconfitto del 19 ottobre. Anche e soprattutto a livello psicologico: perché non è per nulla normale mettersi a riprendere un fumogeno in mezzo a una strada deserta, mentre a pochi metri di distanza ci sono migliaia di persone che reclamano diritti e provano a uscire da un presente che sembra non offrire alcuna via d’uscita.
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Altro sul perché la gente ha voglia di spaccare tutto: