La parola evento è tra le più antipatiche della contemporaneità, anche per via dell’abuso molto milanese che se ne fa. Detto questo, è difficile trovare un altro termine per parlare di un concerto dei Marginal Consort. Anche la parola concerto non è del tutto precisa: quello che fanno sta più dalle parti della performance che della musica in senso stretto. Ha un senso più ampio e non si può vivere se non facendosi coinvolgere anche dall’elemento spaziale oltre che da quello acustico.
Ma facciamo un passo indietro: i Marginal Consort nascono nel 1997 da un’idea di Kazuo Imai (già allievo di Masayuki Takayanagi, probabilmente il più grande chitarrista jazz e improvvisativo giapponese), che raggruppa intorno a sé un collettivo di musicisti che già si era incontrato vent’anni prima nel progetto East Bionic Symphonia, quando erano tutti allievi di Takehisa Kosugi—pioniere dell’improvvisazione cosmica con i mitici Taj-Mahal Travellers e autore anche da solista di una pietra miliare dell’elettronica sperimentale come Catch-Wave.
La sua idea è quella di una specie di supergruppo dedito all’improvvisazione radicale, che suoni soltanto live e soltanto una volta all’anno, in performance dalla durata decisamente impressionante (solitamente siamo sulle tre ore, ed è l’unico elemento predeterminato). Altre particolarità delle loro performance sono l’utilizzo di oggetti non musicali affiancati alla strumentazione più usuale, e la disposizione nello spazio dei musicisti, ognuno per conto suo in punti diversi della stanza, libero di muoversi, come anche il pubblico.
Oltre a Kazuo, i membri di questo collettivo sono Chie Mukai, che lascia dopo due anni, Yasushi Ozawa (anche bassista dei Fushitsusha di Keiji Haino), morto nel 2008, e Kei Shii, Masami Tada e Tomonao Koshikawa, tutti ancora in pista.
Inizialmente questi concerti incredibili si svolgevano solamente in Giappone e giungevano a noi soltanto in forma di cd su etichette mitologiche come la P.S.F. (che ha pubblicato il primo) o Improvised Music From Japan (un cofanetto quadruplo con le performance del 2003 e del 2004), ma negli ultimi anni i Marginal Consort hanno cominciato a visitare anche l’Europa suonando a Londra, Glasgow (la serata del 2008 è stata pubblicata in quadruplo LP da PAN) e Berlino. La notizia è che la loro performance annuale quest’anno si svolgerà a Milano, a Macao, lunedì 17 aprile (alle ore 19 puntuali) come anteprima del festival Saturnalia (che avrà luogo invece nel weekend del 16 e 17 giugno). In vista di questa serata davvero unica, abbiamo avuto la possibilità di fare alcune domande a Kazuo.
Credo che siamo tutti d’accordo sull’inutilità di definire le vostre performance come “musica” o meno. Sono cose che accadono, si crea qualcosa, qualcosa succede. Anche il fatto che sono coinvolti molti oggetti non musicali lo suggerisce. Ma ci sono anche momenti melodici, come si inseriscono questi nel contesto?
Al giorno d’oggi il senso della parola “musica” è equivoco e ha molti significati, e io, almeno nel contesto dei Marginal Consort, non mi curo molto del concetto di musica. Ci sono momenti in cui appaiono delle melodie, o dei ritmi, ma non voglio collocare quei momenti essenzialmente musicali in un dato contesto, solo presentarli come altre forme di suono, quelle specifiche di quel momento, di quegli istanti della serata.
Qual è il ruolo del pubblico nelle vostre performance? Deve in qualche modo connettersi con i musicisti? Ogni ascoltatore vive un’esperienza diversa: le vibrazioni sono ovunque, sempre diverse, e lo spazio è importantissimo nei vostri concerti.
Non penso che debba avere un ruolo specifico. Ma per esempio ognuno ha esperienze diverse a seconda della posizione in cui si mette. E da quelle esperienze possono trovare il loro suono personale. Quindi per qualcuno ci potrebbe essere un momento in cui “il suono” diventa “musica”. In altre parole, il pubblico dà forma al suono dei Marginal Consort.
L’attenzione è molto importante, ma pensi che riusciate a colpire anche l’ascoltatore occasionale?
Non sono sicuro di quale sia il tipo di connessione, ma credo che condividendo lo stesso momento e lo stesso spazio ci possa essere una connessione. La ricettività umana è qualcosa che si apre: una volta aperti, l’udito, la vista e il tatto sono tutti esposti a uno stimolo. Qualcuno potrà scegliere di evitarlo, ma poi potrebbe finire per avere comunque una reazione, trovandosi in quello spazio. Ecco, credo che questo possa essere un tipo di connessione.
Pensi che generare suoni sia un processo attivo o ti vedi più come una specie di ricevitore di qualcosa che arriva dall’esterno?
Per me l’atto di produrre suoni è un processo attivo. Credo che la sua origine sia l’impulso, può essere innato o la reazione a stimoli dalla società o dal mondo, ma sicuramente non c’è un messaggio misterioso che arriva dall’esterno.
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Hai una formazione da chitarrista (anche allievo di Masayuki Takayanagi), trovi più interessante usare altri strumenti o oggetti non musicali con i quali sei meno a tuo agio, o usare la chitarra in nuovi modi? Forse la chitarra per te è più prevedibile.
Incontrare Masayuki Takayanagi è stato molto importante per la mia formazione di musicista. Uso altri strumenti o oggetti non musicali per cercare timbri diversi e suoni unici, e così c’è sempre una scoperta tonale. La chitarra è uno strumento di cui ormai ho imparato varie tecniche, tecniche di controllo, diciamo. Con la chitarra le performance diventano l’atto di rendere concreto quello che immagino, i movimenti di suono che immagino. Però ci sono delle volte in cui anche con la chitarra trovo nuove interpretazioni delle forme del suono.
Che cosa hanno significato per te i Taj Mahal Travellers? Una nuova idea di musica? E chi altri ti ha ispirato?
I Taj Mahal Travellers sono stati ciò che mi ha dato l’occasione di pensare alla questione e all’importanza del suono all’interno dell’improvvisazione. Altre influenze fondamentali sono stati Takehisa Kosugi e John Cage.
Che effetti vorresti che avesse la tua musica sugli altri? Forse metterli in contatto con qualcosa? E questa è poi la ragione principale per cui suoni o lo fai più per te stesso, o per altri motivi ancora?
Suono per me stesso. E di conseguenza non ho mai pensato a nessun effetto che volessi creare per gli altri. Ciononostante, sarebbe bello se ogni persona nel pubblico trovasse qualcosa di nuovo o pensasse a qualcosa incontrando i miei suoni. Non parlo strettamente di musica, ma anche per esempio ricordare qualcosa di dimenticato e rifletterci su. Vorrei creare un ambiente sonoro in cui ci si possa concentrare, tale per cui possano accadere cose come questa.
Lo scopo dell’improvvisazione è quello di portare le cose sempre un po’ più al di là della comfort-zone, per voi e per gli ascoltatori?
Non c’è nessuna comfort-zone in quello che io considero improvvisazione, quindi non c’è modo di andarvici oltre. Ma per quanto riguarda gli ascoltatori non saprei.
Vi tenete ben distanti dal tipico approccio all’improvvisazione basato sul call and response, c’è però un qualche tipo di interplay nei vostri concerti, oppure le diverse parti di ogni musicista sono solo eventi che accadono nello stesso momento?
Penso che l’espressione davvero onesta venga dal concentrarsi soltanto sul proprio act. E che questo poi vada a inserirsi nella collettività. In questo senso non ignoro gli altri, ma li sento come suoni intorno a me. Può essere che reagisca a un suono, se lo considero bello. Però quella reazione non è che sia un vero accompagnamento, può essere qualcosa di completamente opposto, o qualcosa che sembra del tutto assurdo e non collegato.
Un altro tipo di improvvisazione dal quale vi tenete lontani è quello molto meditativo, molto minimale e trattenuto, in cui nessuno emerge sull’altro. Voi invece sembra che neanche vi interessiate a quello che fanno gli altri, e ognuno vada dritto per la sua strada: è un approccio molto hardcore.
È vero, a volte posso non interessarmi a quello che stanno facendo gli altri. Anche se va detto che non è tanto un non interessarsene, quanto una conseguenza del fatto che ciascuno agisce simultaneamente. Più che suonare insieme si tratta di compiere azioni che si svolgono nello stesso istante.
Però se anche uno volesse completamente distaccarsi dai suoni degli altri, anche se siete separati nello spazio e non c’è un vero interplay, sarebbe comunque impossibile non sentire gli altri del tutto. Quindi come funziona? È come se facessero parte dell’ambiente, come una caldaia rumorosa o un tubo che perde?
Alle volte gli altri diventano come caldaie rumorose. Per esempio, Cage potrebbe dire che è il suono della natura nella foresta, ma noi siamo gli animali nella foresta in cui le volpi corrono, gli scoiattoli vanno sugli alberi e gli uccellini cinguettano. O la gente che va e viene negli incroci delle città, dove suonano i clacson e la gente chiacchiera fuori dai negozi. Questo è la stessa cosa che facciamo noi, anche se la vogliamo fare in dei contesti precisi. Ma certo vogliamo avere un interplay tra di noi, anche se non suoniamo mai melodie insieme. La cosa più importante è che ci mettiamo in posti molto lontani tra noi, quindi alle volte non sappiamo che cosa gli altri stiano facendo. Mi è venuta l’idea di un set dove siamo tutti lontani di modo che ognuno possa concentrarsi su se stesso con minore influenza da parte degli altri.
I vostri setup sono fissi o cambiano? E gli altri membri sanno cosa porterà ciascuno di voi o lo scoprite di volta in volta?
Il mio setup è più o meno fisso, ma aggiungo o tolgo cose ogni volta. Non so bene cosa usino gli altri, vedo i loro setup solo quando siamo sul posto, ma siccome siamo così lontani non lo vedo neanche più di tanto, soprattutto le cose più piccole.
Il vostro approccio all’improvvisazione è anche legato a un’idea più generale riguardo l’identità e la collettività?
Sì, quando ho avuto l’idea di formare i Marginal Consort, ho pensato ai concetti di individuo e collettività. Nel senso di un’improvvisazione collettiva che dà forma a un collettivo mentre definisce le singole individualità.
Le “difficoltà comunicative” tra voi (distanza, assenza di interplay classico…) riflettono in qualche modo il nostro tempo? In un mondo così incasinato, questo caos ne è un buon ritratto.
Sì, può essere. Però credo che ci sia un qualche tipo di connessione, anche se non strettamente musicale. Perché comunque la nostra performance si muove, e muta a seconda di quello che fanno gli altri, lo percepisce. Quello che vorrei è mostrare un esempio di come individui separati possano creare una collettività grazie ad azioni che si svolgono simultaneamente.
Il pubblico come reagisce di solito? Avete notato differenze significative tra quello europeo e quello giapponese?
Non lo so perché non vedo il pubblico. Mi preoccupa che gli spettacoli possano essere troppo lunghi, ma sia in Europa che in Giappone alla fine di alcuni concerti mi hanno detto che non gli era sembrato troppo lungo.
E per quanto riguarda le location? Come le preferite? Essendo elementi così centrali immagino che siano importanti per il successo di una performance. E quando pensate che una performance sia stata un successo, sia stata appagante, riuscita?
Penso che il posto e lo spazio influiscano molto, l’ideale è se possiamo metterci lontani l’uno dall’altro e avere lo spazio perché sia ciascuno di noi che il pubblico si possa muovere liberamente. È molto raro che io ritenga una performance un successo, ma posso considerarla abbastanza ok quando riescono ad accadere nuove esperienze e nuove scoperte.
Quanto c’è di volontà e quanto di istinto nell’improvvisazione? Il terzo elemento, dopo il tempo e lo spazio, è il corpo, e il corpo è fallibile.
Esiste una volontà quando si compie un’azione. L’istinto è coinvolto quando si cerca un buon suono o un cambiamento. Quando il cambiamento persiste, i corpi si muovono inconsciamente. Questo tipo di circolarità dà poi linfa vitale all’improvvisazione.
Un’ultima domanda molto stupida: che cosa ci dobbiamo aspettare dal concerto di Macao?
Spero solo di poter vivere momenti produttivi in un posto così meraviglioso come Macao.
Federico improvvisa su Twitter: @justthatsome
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