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Perché un certo 'antisalvinismo' rischia solo di fare un favore a Salvini

Continuare a prendersela con il ‘personaggio Salvini’ ignorando il governo di cui fa parte è un errore che abbiamo già fatto in passato. Leggi: Berlusconi.
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Ieri Rolling Stone ha annunciato la copertina del prossimo numero: una bandiera arcobaleno con la scritta “noi non stiamo con Salvini” e sotto “da adesso chi tace è complice.” Il numero si presenta come una raccolta di testi (pubblici) di musicisti, attori e personalità del mondo della cultura che, appunto, si schierano contro Salvini.

Al di là delle intenzioni sicuramente lodevoli dell’iniziativa, delle polemiche che ha già suscitato e delle adesioni imbarazzanti che ha raccolto—come quella di Debora Serracchiani, che per chi non ricordasse l’anno scorso affermava che uno stupro è “ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese"—in quella copertina c’è un problema. Lo stesso problema che ho notato in alcuni degli ultimi casi intorno a cui si è coagulata l’opposizione a questo governo.

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L’ho notato quattro giorni fa, vedendo centinaia di persone condividere l’iconica foto delle atlete italiane che hanno vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4x400 ai Giochi del Mediterraneo, agitando la loro vittoria come “la risposta a Pontida” (con l’hashtag #primeleitaliane invece del salviniano #primagliitaliani). Tutto mentre una delle dirette interessate, Benedicta Chigbolu, si sfilava dicendo che “non ci dovrebbe essere tutta questa attenzione sul colore della pelle. Oggi, nel 2018, non dovrebbe neanche notarsi. Noi non avevamo nemmeno fatto caso di essere quattro nere.”

E l’ho notato anche sabato scorso partecipando a Milano al Pride sponsorizzato da alcune multinazionali, e sentendo il giorno dopo Salvini che dal palco di Pontida usava questa cosa per una tirata contro “le multinazionali come Coca-Cola che vanno a sponsorizzare le giornate dell’orgoglio solo per guadagnare qualche consumatore in più.”

Il problema, anche se in forme e in modi diversi, era sempre lì: il nostro modo di fare opposizione alla deriva a cui stiamo assistendo, soprattutto sui temi più sotto attacco come i diritti civili, non funziona per niente. Oppone gli argomenti sbagliati e non solo non contribuisce ad arginare la deriva, ma anzi rischia di far comodo e legittimare gli stessi che si vorrebbe attaccare.

In primo luogo, manca il bersaglio: non si può ridurre tutta la situazione che stiamo vivendo a un semplice “Salvini.” Salvini non è lo zar autocratico che governa questo paese per diritto divino, non esce dal nulla: è il ministro dell’interno di un governo che esprime la preferenza della maggior parte degli italiani.

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Al di là delle sparate che fa per stare sempre al centro dell’attenzione, le politiche a cui dobbiamo opporci non sono sue ma di tutto il governo. Di Maio non si è opposto alla linea di Salvini sui migranti, Toninelli—il Ministro delle Infrastrutture, quello che ha la competenza per chiudere i porti italiani—non ha smentito Salvini dopo la sparata né ha fatto attraccare in Italia la Aquarius, e alcuni parlamentari del M5S (come Elio Lannutti) hanno una posizione ancora più estrema di quella leghista.

Bisogna insomma prendere atto del fatto che il governo non è Salvini, per quanto lui stia facendo di tutto per convincere gli italiani del contrario.

L’altro motivo (parzialmente collegato al primo) riguarda meno la politica e più noi tutti della cosiddetta società civile, e il modo in cui reagiamo e celebriamo quelle che percepiamo come “piccole vittorie” della resistenza a questo clima. Gli esempi che facevo all’inizio e la copertina di Rolling Stone di ieri da cui sono partito.

In Netflix che sponsorizza il Pride e risponde alle orribili dichiarazioni del nuovo Ministro della Famiglia facendo una serie di poster nella metro di Milano con i personaggi gay delle sue serie e la scritta “loro esistono,” nella nuova copertina di Rolling Stone con scritto che da adesso "chi tace è complice," c’è una contraddizione di cui dobbiamo essere consapevoli. Ben venga che chi fa cultura si schieri, ovviamente, ma teniamo presente che i poster di Netflix sono in fondo una campagna abbonamenti, che la copertina di Rolling Stone è diretta anche a persone che si riconoscono nel messaggio e che non comprerebbero la rivista. Ben venga: ma le lotte sono altrove, l’opposizione non si costruisce solo così.

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Poco dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, diverse voci italiane hanno cercato di mettere in guardia gli americani sui modi giusti e sbagliati di fargli opposizione—il tutto sulla base di quel che si presume noi italiani abbiamo imparato dal ventennio berlusconiano.

Sul New York Times, Luigi Zingales spiegava che se Berlusconi è riuscito a governare il paese così a lungo è stato per l’incompetenza dell’opposizione. “Il suo segreto,” scriveva Zingales, “era la sua capacità di causare una reazione pavloviana nei suoi avversari di sinistra.” Che sbraitavano attacchi ad personam con l’unico risultato di procurare a Berlusconi ulteriori simpatie tra l’elettorato moderato. Mentre sempre nello stesso periodo su Jacobin Cinzia Arruza, professoressa di Filosofia alla New School for Social Research di New York, rincarava la dose: “L’anti-berlusconismo ha finito per consolidare e rafforzare il potere di Berlusconi invece che indebolirlo, perché ha evitato di affrontare le vere cause del suo successo e ha legittimato anni di austerità nel nome del prevenire a ogni costo il suo ritorno al potere.”

Suona familiare? Da persona che ha vissuto tutta l’adolescenza in pieno delirio anti-berlusconiano, con le canzoni dei La famiglia Rossi e i banner “I’m Italian and prime minister Silvio Berlusconi is not speaking in my name” sui blog, da quando si è formato questo governo e ho cominciato a seguire i vari timidi tentativi di opposizione, mi sembra di vivere in una scena de Il giorno della marmotta.

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Rivedo gli stessi atteggiamenti: l’identificazione personalizzata del nemico tralasciando tutta la struttura che gli sta intorno, in questo caso ancor più responsabile di lui; la mobilitazione sulla base di questa sola parola d’ordine, senza entrare nel merito delle questioni, nella totale assenza di idee e alternative; le sterili polemiche senza alcun impatto duraturo; le pose del mondo della cultura che ci tiene a farsi vedere anti-berlusconiano (come oggi anti-salviniano); la celebrazione giornaliera di questo o quel tizio moderatamente famoso che ha detto qualcosa di blandamente politico e che viene elevato a campione delle libertà civili.

Cosa sono le proteste indignate a ogni sparata di Salvini, i manifesti di Netflix che replicano a Fontana, la foto delle atlete nere come “risposta a Pontida” e la copertina di Rolling Stone, se non reazioni pavloviane? Che, ancor peggio, sostituiscono quella che dovrebbe essere la reazione politica a un esecutivo come quello che abbiamo oggi—cioè affrontare le cause per cui ce lo ritroviamo. Il governo Conte non è nato dal niente, ma anche a causa delle politiche di quelli che hanno governato per i sette anni precedenti, che forse non sono stati così brillanti come sembra.

Tutte queste iniziative, per quanto non particolarmente efficaci, nella nostra bolla possono persino sembrarci ammirevoli. In quella della maggior parte degli italiani invece passa invece il messaggio di Salvini che attacca la Coca-Cola, di Salvini che dà dei multimilionari radical chic con le megaville ai firmatari dell’appello di Rolling Stone, Salvini che si appropria delle atlete italiane di cui sopra scrivendo che vorrebbe abbracciarle e che “come tutti hanno capito” il problema sono gli immigrati clandestini, “non certo ragazze e ragazzi che, a prescindere dal colore della pelle, contribuiscono a far crescere il nostro Paese.”

Dovremmo riflettere su tutto ciò, se non vogliamo fare di nuovo lo stesso errore e il miglior regalo possibile a Salvini—uno che col 17 percento dei voti l’altro giorno a Pontida parlava di “governare per i prossimi 30 anni.”

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