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Com'è essere giovani e sentirsi dannatamente soli

"Ho chiesto un aumento dei turni nel bar in cui lavoro a Roma—non per guadagnare di più, ma per non stare da sola a casa."
Foto via Unsplash.

Quando pensiamo alle persone sole, gran parte delle volte pensiamo agli anziani. Magari a una signora rimasta vedova e che intasa le code in posta con la scusa di fare una ricarica, anche se poi è lì solo per scambiare due parole con qualcuno. Certo, è un’immagine triste, ma la verità è che esistono tantissime persone giovani che si sentono sole. Se prendiamo in esame l’Italia, stando ai dati dell’Eurostat del 2017, gli italiani sono gli europei che si sentono più soli e che hanno meno persone alle quali chiedere aiuto in caso di bisogno. Per approfondire la questione, qualche settimana fa ho postato su Twitter, Facebook e Instagram annunci rivolti a persone che in qualche modo si sentono sole, chiedendo se avessero voglia di parlarmene. Nel giro di poco tempo mi hanno contattato decine di persone, e queste sono le loro storie. Gran parte delle testimonianze non sono state riportate su richiesta di chi le ha fornite. Le seguenti, invece, sono state editate e accorciate per motivi di chiarezza. Alcuni nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy degli intervistati. Bernardo*, 27 anni, chimico Ho studiato per sei anni a Londra e un anno fa mi sono trasferito a Milano. Nonostante abbia un lavoro e dei colleghi con cui ogni tanto esco, non avrei mai pensato che conoscere persone qui potesse essere così difficile. Passo gran parte delle serate solo in casa a leggere trattati scientifici, gioco a diversi GDR e ho una cerchia di “amici” online, ma se sto male sento di non poter contare su nessuno—d’altronde i miei colleghi hanno le loro famiglie e le loro amicizie consolidate e i miei parenti vivono a sei ore di macchina in un piccolo paese di provincia. Là avevo molti amici, ma i più se ne sono andati nel corso degli anni. Così, anche quando torno a casa, passo i weekend con i miei genitori. Sia chiaro, è una cosa che adoro fare. Ma ecco, non ho modo di parlare di quello di cui si parla tra amici. Anzi, quando mi chiedono come me la passo, spesso mento. Sì, perché la solitudine non è solo una condizione annichilente. È anche un fattore di vergogna nella misura in cui ti fa sentire diverso e inutile. Per fartela breve, a volte mi sento come l'ingranaggio di un orologio a muro che si stacca e cade per terra nascondendosi sotto il frigorifero o un mobile. L’orologio continua ad andare e tu ti rendi conto di quanto sei superfluo quando paragoni l’orologio alla società e te stesso a quel piccolo ingranaggio dimenticato. Jacopo Finali, 20 anni, studente di filosofia Mi sento solo da quando avevo 11 anni. Mi ricordo che a scuola passavo la mezz'ora prima della campanella semplicemente a guardare le persone scendere dai pullman e a chiedermi cosa avessi di diverso.

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A essere onesto, mi sono reso conto di essere solo un po’ più tardi: più o meno quando giocare a Tekken con mio padre e a “faccio uno scarabocchio trasformalo in un disegno sensato” con mia madre era diventato un po’ ridicolo per tutti e tre. Ero molto bravo a scuola ma ero anche una testa di cazzo, e l'unica cosa che mi distingueva dagli altri era che se la professoressa manifestava favoritismi o comportamenti che ritenevo ingiusti, seppur con il dovuto rispetto, cercavo di farglielo presente. Questo mi ha allontanato dai miei compagni di classe, che a un certo punto—la professoressa aveva parlato coi genitori lamentando la mia "cattiva influenza"—hanno smesso di invitarmi. Ciononostante, a 14 anni tra Facebook e lo skateboard ero riuscito a crearmi una cerchia di amici e perfino a trovarmi una ragazza. Si chiamava Sara. Siamo stati insieme un anno e mezzo, ma comportandomi da perfetto zerbino ho bruciato tutto. Dopo aver rotto con lei ho passato un periodo terribile: i miei amici erano diventati suoi amici e io mi sono ritrovato solo di nuovo. Però stavolta era diverso. Ho iniziato a soffrire di depressione. Non mangiavo, non studiavo, non interagivo, passavo i pomeriggi a piangere rannicchiato sul letto. Oggi mi porto dietro ancora una grande diffidenza, gli strascichi della mia depressione e il mio non saper stare con le persone, ma ho cercato di ricostruire la mia rete di conoscenze. Eppure ora è sabato, sono le 00:25 e sono solo in macchina, nel parcheggio del McDonald's, a descrivere la mia solitudine e a condividerla con te.

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Ante Maric, 42 anni, fisioterapista

Sono nato in Croazia, ma quando avevo più o meno dieci anni sono venuto a vivere con i miei genitori e mia sorella in Veneto. Ovviamente puoi immaginare quanto sia difficile instaurare dei rapporti tra bambini quando non parli nemmeno una parola di italiano. Nel corso degli anni ho imparato bene la lingua, ma ho continuato a parlare poco—e questo non mi ha mai aiutato nel trovare degli amici. Poi, quando avevo 17 anni, mio padre è morto di tumore, e mi sono ritrovato a dovermi prender cura di mia sorella e di mia madre facendo svariati lavori. Avevo 25 anni quando mi sono reso conto di non aver mai avuto un amico. Era normale così e non mi pesava. O meglio, credevo che non mi pesasse finché non ho conosciuto Angela, che per 15 anni è stata prima la mia ragazza e poi mia moglie. Dopo esserci sposati abbiamo preso un cane di nome Dina.

Angela è morta in un incidente. Così mi sono ritrovato solo di nuovo, privato di tutto quello che mi ero costruito e di tutto quello in cui avevo posto le mie speranze e felicità. Da poco è morta anche Dina e forse ti sto scrivendo perché, a differenza di quello che penserai, per me è diventato normale. Anche l’abbandono e la solitudine diventano cose normali se non hai mai conosciuto altro. Oggi, la mia solitudine è una scelta pensata. Forse sono stato solo sfortunato, ma non sto male e non ho mai pensato di uccidermi: sono solo solo. Ho mille passioni, vado al cinema ogni settimana, faccio sport e quando ho tempo scrivo—e il motivo per cui sto parlando con te è che vorrei dire a tutte le persone che si sentono così che la solitudine spaventa, ma non deve uccidere.

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Antonia*, 26 anni, barista Mi sono trasferita a Roma con il mio ragazzo quattro anni fa. Lui aveva trovato un lavoro qua e mi aveva chiesto di seguirlo. Com’è facilmente intuibile ora non stiamo più insieme, e dopo essere stata tradita, sono stata pure costretta a cercarmi una nuova casa. Il tutto non sarebbe stato un problema, se solo avessi saputo che tutti quelli che credevo miei amici erano solo amici del mio ex: da un anno e mezzo non ho un'amica o un amico, qui, con cui passare il mio tempo libero. Certo, parlo su Skype con la mia migliore amica e sto pensando di andarmene da Roma, ma al momento sono tremendamente sola. Ho chiesto un aumento dei turni a lavoro, non per guadagnare di più ma per non stare da sola a casa o passare i pomeriggi a girare facendo finta di essere molto di fretta e stressata (ho come l’impressione che in questo modo la gente non si accorga di quanto sia sola). Il motivo per cui ti ho scritto è che credo di non essere l'unica a sentirmi sola e che il problema con le persone in questa condizione è che spesso non ne parlano. Appunto perché non hanno nessuno a cui dirlo. Cristo, adesso mi manca il mio ex.

Monica*, 36 anni, addetta alle vendite

Sette anni fa mi sono ritrovata a cambiare vita drasticamente. Sono sempre stata una persona piuttosto viziata e benestante—vivevo in ambienti ricchi, mio padre aveva un'attività molto redditizia e la mia vita era fatta di viaggi e svaghi.

A un certo punto mio padre è stato mandato via dall'azienda e ci siamo ritrovati con il culo per terra. Abbiamo perso tutto, tanto che siamo dovuti andare via da Torino per trasferirci in una casa offerta da un amico di famiglia, in campagna. A un’ora e mezzo da Torino.

Nel frattempo, come se non bastasse, avevo perso la vista da un occhio per una cataratta congenita ed ero arrivata a una condizione di -22 gradi sull’altro. Sto citando la malattia perché mi ha impedito di fare molte cose: non avevo la patente, non avevo persone con cui stare e l’unico mezzo per arrivare a Torino era un pullman che passava una volta al giorno. Dopo aver fatto mille lavori, essere stata cacciata da un call center perché non chiudevo abbastanza contratti e aver chiesto la categoria protetta ho finalmente trovato impiego nel negozio di occhiali dove tuttora lavoro.

Dov’è la solitudine in questo? Dall’inizio di tutto, credo. La mia prima vita era fatta di amicizie finte che si sono sfaldate quando abbiamo avuto problemi economici, e la mia seconda vita è stata un costante cercare di sopravvivere. Cerco di pensare di essere circondata da altre persone, ma poi è come se riuscissi a guardarmi dall’alto e l’unica cosa che vedo è il mio corpo inserito in un flusso di gente. Credo di vivere questa condizione perché da quando ho memoria, ho sempre dato e cercato di fare tutto il possibile per gli altri senza mai ricevere nulla indietro. Nessuno si preoccupa davvero per me, nessuno mi chiede come sto e nessuno ha timore di quanto possa essere stanca. Detto fra di noi, continuerò a correre per fare finta di niente. A proposito, devo andare a lavoro.