Musica

Quella volta che Manuel Agnelli provò a cambiare l’Italia

Dieci anni fa gli Afterhours volevano svegliarci con ‘Il Paese è reale’, un progetto coraggioso che oggi, però, mostra tutti i suoi limiti.
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Afterhours, foto promozionale

Nel 2009, ve l'ho raccontato, avevo 13 anni, ed ero la perfetta incarnazione del pubblico generalista di fine anni Zero: guardavo TRL su MTV, usavo la parola "rocker" per descrivere Ligabue e mi indignavo per Marco Carta che vinceva Sanremo in volata su un Povia non ancora sovranista in quello che forse è il punto più basso della storia del Festival. Appunto, il Festival. Era febbraio di dieci anni fa quando le mie orecchie di provincia incontrarono gli Afterhours, in gara con "Il paese è reale". E, per quanto fosse tutt'altro che il loro pezzo migliore, rimasi folgorato.

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Non era la prima volta che la musica "alternativa" andava all'Ariston, ma nelle occasioni precedenti ero troppo piccolo per metabolizzarla. E poi no, stavolta era diverso davvero: lo ripeteva anche Agnelli stesso, il loro era un progetto più ambizioso. In sintesi, il brano con cui concorrevano avrebbe fatto da alfiere-generalista di quel sottobosco—all'epoca andava di moda quel termine—di artisti affluenti all'alternative nostrano. O, in senso più stretto, all'indie italiano, cioè coloro che uscivano su etichette indipendenti, che erano tante, nel 2009, e quasi tutte minuscole. Gli After si proponevano insomma come rappresentanti del pensiero "altro", del "paese reale" di chitarroni e scantinati, ma anche sintetizzatori e circoli Arci, pressoché ignorato al di fuori di quei contesti minuscoli.

In questo senso Sanremo segnò l'inizio di una stagione proseguita con la raccolta Afterhours presentano: Il paese è reale (19 artisti per un paese migliore?), in cui al pezzo di Agnelli e soci si affiancavano inediti dei vari artisti del sottobosco, e conclusasi dieci anni fa, il 19 giugno 2009, con un concerto collettivo in Piazza Duca d'Aosta a Milano. Un progetto ambizioso, una "rassegna del meglio che l'Italia ha da offrire" lunga sei mesi. Ben pensata, ma con limiti strutturali, e che alla fine non è riuscita nei suoi piani.

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L'artwork della compilation Il Paese è Reale, cliccaci sopra per ascoltarla su YouTube.

Contestualizziamo: gli Afterhours avevano ideato il tutto dall'alto del loro "avercela fatta". Che poi "farcela", per un gruppo con quelle coordinate, fra la musica d'autore e l'alt-rock, all'epoca significava piazzare dischi appena usciti in Top Ten, oltre a girare per le feste de L'Unità con cachet più alti di quelli dei colleghi che rappresentavano. Tempi magri: l'indie italiano godeva ancora di una popolarità "di settore", disperso in progetti interessanti e dal forte senso identitario, ma minuscoli in primis per i mezzi a disposizione. Un roba un po' da "iniziati", con qualche estimatore, un appuntamento come il Mi Ami ancora in fasce, diversi detrattori e tanto silenzio intorno. Dopotutto, nel 2009 eravamo ancora nella fase in cui il web aveva fatto più male che bene alla musica: le vendite erano precipitate e senza passare in radio era difficile anche solo uscire dal proprio quartiere.

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Tanto bastava, comunque, per concedere ad Agnelli e soci questo ragionamento: andiamo a Sanremo, ci prendiamo l'attenzione del grande pubblico, usiamo il pezzo come esca, facciamo comprare a tutti la nostra compilation e dentro—SORPRESA—l'ascoltatore X di Ligabue, che nel frattempo è impazzito per "Il paese è reale", trova un pezzo degli Zu e uno de Il Teatro degli Orrori. Game, set, match.

Bello, ma utopistico. "Il paese è reale" non arriva neanche in finale, e non poteva essere altrimenti: come sono freak gli Afterhours, in quell'Ariston abbottonatissimo made in 2009, anche il loro brano sembra provenire da un altro pianeta, fra chitarre nevrotiche, un ritornello per niente radio-friendly e vocalizzi sporchi. Una cavalcata difficile, snobistica nei confronti del nazionalpopolare con cui si relaziona, figlia di un atteggiamento in stile "Mai come voi", per dirla à la Tre Allegri Ragazzi Morti. Come a delimitare i confini, a far di tutto per non piacere—e non è una bestemmia dire che un pezzo come "Non è per sempre" avrebbe funzionato di più. Così, in un Sanremo impresentabile, vincono il Premio della Critica Mia Martini, mentre il televoto non li comprende. Finiscono in fondo: troppo difficili e ostili per il pubblico generalista, troppo restii al compromesso.

A fine febbraio, poi, arriva la compilation. Dentro ci sono Zu e Il Teatro degli Orrori, Dente e i Calibro35, gli A Toys Orchestra, i Marta sui Tubi e gli Zen Circus. Un menu onnivoro, dal post-cantautorato al post-rock, che non prende davvero tutto (mancano, per dire, gli Offlaga Disco Pax), ma che ha un mood chiaro e identitario: essere "altro" al mainstream italiano, prenderne le distanze con quell'estetica di sguardi cupi, chitarroni e look seriosi. E prendersi, in ogni caso, puntualmente sul serio. Il culmine è il concerto del 19 giugno, un live in cui, oltre agli Afterhours, suonano anche Zu, Calibro35 e Mariposa. La registrazione di quella giornata uscirà su XL, l'inserto mensile di Repubblica dalle stesse ambizioni di Il paese è reale: promuovere un "sottobosco" che, senza compromessi, il grande pubblico non avrebbe comunque mai capito. Ma era bello così.

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Di più: non aver fatto un passo indietro resta un motivo d'orgoglio per gli artisti della compilation, pur segnando anche il limite del progetto, che rimarrà un raduno per "i soliti quattro"—e non un veicolo verso i grandi palchi. Quel concerto di dieci anni fa, insomma, fu un manifesto, un canto del cigno prima che tutto sarebbe cambiato. Un punto d'arrivo, insomma, ma non un concerto di svolta, né l'inizio di una nuova epoca.

Perché poi tutto sarebbe cambiato, sì, ma per mano di altri. Il seme dell'indie-pop darà vita all'itpop, un genere molto più vicino al pop generalista che al suo antesignano alternative. I cantautori (Brunori Sas, Le Luci della Centrale Elettrica), all'epoca nuovi, non cambieranno le carte in tavola. Le cambierà, piuttosto, Lo Stato Sociale: fare ironia senza rinunciare all'impegno politico, per quanto spiccio. E coloro che verranno dopo li prenderanno fin troppo alla lettera, abbracciando un disimpegno che oggi caratterizza proposte vincenti come Carl Brave, Giorgio Poi e Cosmo (uno dei pochi figli di quell'epoca).

Da Battisti a Carboni, da Dente a Calcutta, dai circoli ARCI agli stadi. Le band si moltiplicheranno, Agnelli e Levante finiranno a X Factor e il nuovo indie italiano—un po' per natura e un po' per opportunità—inizierà a guardarsi fuori e dentro con più leggerezza. Mettiamoci Spotify, la fine della dittatura della radio, l'intercettare (o meglio: il raccontare) le mode del momento e il gioco è fatto: il successo diventerà per la prima volta concreto, tangibile, redditizio.

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I Cani saranno un ponte, perché sdoganeranno i sintetizzatori. Poi Calcutta li spiegherà al grande pubblico e i TheGiornalisti ne faranno il credo del pop italiano. Gli altri seguiranno, e tutto diventerà più semplicistico: testi zeppi riferimenti quotidiani, arrangiamenti basilari, melodie cantabili. Non ci sarà più la voglia di essere alternativi, di avere una filosofia. Sarà la fine di un mood che, nel bene e nel male, istituiva confini e un senso identitario forte, che riusciva a passare da Vasco Brondi ai Fine Before You Came, anche se all'epoca era difficile ammetterlo. Non è una questione di meriti, è che sono diversi nelle fondamenta.

Il punto è questo: se oggi volessimo parlare di sottobosco "senza compromessi", sarebbero pochissimi i gruppi recenti da prendere in considerazione. Perché l'itpop ha rinunciato a quello spirito e si è inserito nella breccia aperta nel mainstream da—appunto—Calcutta, coi vari Gazzelle e Canova che poco o nulla hanno in comune con l'indie italiano, e che più che in una filosofia di vita (DIY o alternativismo che sia) hanno i loro riferimenti in Calcutta e nel britpop.

L'indie italiano c'è ancora, chiaro, ma non è l'itpop. Questo è nato dall'indie(-pop), ne ha preso qualche sonorità, ma lo ha abbandonato presto e si è dato a un'estetica sua. Ma chi prendere, allora, per un Il paese è reale 2.0? Fra i nuovi "sepolti", cantautori come Iosonouncane, Andrea Laszlo De Simone, forse Colapesce. E poi gli Any Other, Caso, Giovanni Truppi e la napoletanità "segreta" dei Nu Guinea, o i veterani Cosmetic e Sick Tamburo. Forse si ritroverebbe quel filo segreto, quasi inspiegabile ma evidente, che lega tutte queste proposte. E se a un loro eventuale concerto in piazza ci fossero le quattro facce fra il pubblico, mentre i passanti guardano perplessi senza capire, non sarebbe da stupirsi: quel pomeriggio di dieci anni fa, a Milano, la sensazione era la stessa. Questo è l'indie italiano, e va bene così.

Patrizio è su Instagram.

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