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Italia

È assurdo che i nostri nomi stranieri vengano percepiti come un problema

"Se sei nero e con un cognome 'strano' sei svantaggiato in partenza, rispetto a un Mario Rossi con le stesse competenze."
Juta
illustrazioni di Juta

Nel romanzo che gli è valso un Pulitzer, Radici, Alex Haley racconta la storia di Kunta Kinte, lo schiavo gambiano catturato, marchiato e venduto dagli schiavisti bianchi sull’altra sponda dell’Atlantico. Parte del processo di oggettificazione dello schiavo consisteva nello spogliarlo del proprio nome—e quindi della propria identità—per battezzarlo con un nome nuovo, più cristiano. “Penso che loro… che tutti avessero dei nomi nella loro lingua, ma non valeva lo sforzo di pronunciarli.” È così che Kunta Kinte diventa Toby.

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Sono stata Nadi per così tanto tempo che quando il mio ragazzo ha cominciato a presentarmi ai suoi amici con il nome per intero, Nadeesha mi sembrava un’altra persona. Avere un nome straniero è un fardello non indifferente, soprattutto quando di nomi ne hai quattro, e nemmeno nell’ordine originale (nella traslitterazione spesso si è preferito adottare il sistema nome-cognome dei colonizzatori inglesi piuttosto che il sistema indigeno, patronimico-nome-cognome).

Una volta ho letto da qualche parte che i nomi srilankesi sono così lunghi da mandare in tilt il sistema di gestione degli appuntamenti per il permesso di soggiorno. Il fatto è che in Sri Lanka si utilizza un alfabeto sillabico, composto da 56 lettere, di cui 13 vocali, e il mio nome in quell’alfabeto sarebbe නදීෂා—breve, di tre lettere. Ma nella traslitterazione si sacrifica la brevità a favore di una pronuncia che sia il più fedele possibile all’originale.

Rifiutarsi di imparare a pronunciare un nome straniero, però, non riguarda solo la complessità o la lunghezza. Riguarda soprattutto il rifiutarsi di riconoscere una parte fondamentale dell’identità di una persona e, in questo senso, la si potrebbe anche considerare una forma di microaggressione che va a ledere la dignità di chi quel nome porta. Succede infatti che le persone con nomi non convenzionali siano stigmatizzate a punto da finire per esserne imbarazzate, o da sentirsi in dovere di cambiarlo pur di essere accettate dall’ambiente in cui si trovano a vivere. Soprattutto, ed è il contesto di questo articolo, quando le persone in questione fanno parte di una minoranza.

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La scuola sembra essere la palestra in cui si allena questo comune senso di inadeguatezza che ci porta ad accettare una mezza identità, e nemmeno pronunciata correttamente. L’esperienza mi insegna che chi legge un nome straniero, 1) va in panico perché vede che nel registro degli appelli occupa una colonna in più degli altri, 2), non si sforza di continuare oltre le prime quattro lettere.

Per esempio Prasad, all’anagrafe Wisidagamage Don Prasad Nuwantha, per tutta una vita ha continuato a ripetere a tutti, insegnanti compresi, che "basta leggere così come è scritto. Sillaba dopo sillaba.” Nonostante il preambolo, il suo nome “è sempre stato sottoposto a storpiature e cattive pronunce.”

Yasanthi, laureanda in medicina, mi descrive un’esperienza simile: “Mi è capitato che alle elementari mi chiamassero Yaya perché il mio nome era considerato troppo difficile. Questo mi è rimasto addosso. In maniera sommessa, mi sono presentata per anni quasi scusandomi di chiamarmi Yasanthi: Ma tranquillo, puoi chiamarmi Yaya.” Allo stesso modo Benedicta diventata Benedetta, Madushani semplicemente Madu.

Per Prasad, “rimane lo sconcerto del dover ogni volta subire sguardi curiosi o risatine da parte dei presenti quando durante un appello, arrivati al mio cognome, chi legge mette subito le mani avanti Ah nono questo non so leggerlo! Chi è questo? Alzi la mano per favore.” Forse è questo il motivo per cui molti italiani di origine cinese adottano già da piccoli una variante italiana del proprio nome, come molti genitori immigrati preferiscono chiamare i propri figli con nomi occidentali, anche se a volte con uno spelling originale: è un lento processo di assorbimento (e dominazione) culturale in cui si sacrifica una fetta del proprio bagaglio di esperienze e tradizioni per la mancanza di inclusività della cultura dominante.

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Spesso il mondo del lavoro è la ragione che spinge gli immigrati di prima generazione a chiamare i propri figli Gaya, Riccardo o Francesca. Avere un nome straniero può essere uno svantaggio non indifferente: quando ti chiami Nadeesha, o Yasanthi, devi dimostrare di conoscere l’italiano, non così un Marco. Le competenze linguistiche sul CV—soprattutto la dicitura madrelingua—vengono accolte con un certo scetticismo, quasi fosse impossibile pensare che il figlio di un immigrato possa avere un accento milanese.

Una ricerca condotta nel Regno Unito dallo studio legale Slater and Gordon ha dimostrato che a un dipendente BAME (Black, Asian, Minority and Ethnic) su tre viene chiesto di adottare un nome più occidentale. Sono molte le ricerche britanniche, americane e francesi sull’argomento, il che ci dà l’idea di un fenomeno di portata transnazionale. Un’indagine dell’Università di Oxford, per esempio, evidenzia come i candidati con nomi che sembrano da bianchi hanno più probabilità di ottenere un colloquio dei colleghi BAME con la stessa esperienza lavorativa.

Anche se non gli è mai stato chiesto di usare un nome completamente diverso, Prasad di frequente è dovuto scendere a compromessi ed essere chiamato con parti del nome o del cognome. “Per esempio chiedevano di potermi chiamare Wisi o Don. Oppure, in contesti formali, più volte si è utilizzato il mio nome, Prasad, nonostante sarebbe stato più adeguato l'utilizzo del cognome.” Non si può scindere questa esperienza da una considerazione più generale sui formalismi: in Italia, ci si rivolge più facilmente con il tu a chi ha un nome straniero, indipendentemente dal contesto o dalla professione dell’interlocutore.

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Bellamy, fondatrice del blog AfroitalianSouls, ricorda che quando lavorava nelle risorse umane, occupandosi di ricerca e selezione del personale, una costante delle aziende alla ricerca di operai era quella di non volere persone di origine straniera. “Guardavano il nome o la foto, e non volevano averci niente a che fare,” commenta. Bellamy imputa il non essere stata oggetto di discriminazioni legate al nome, al fatto che il suo nome suoni americano—salvo poi una certa sorpresa dei datori di lavoro al momento del colloquio.

Questo atteggiamento ha portato nei paesi anglofoni—ma non è difficile credere che succeda anche da noi—alla cosiddetta “pratica dello sbiancamento del curriculum”, che consiste nel togliere ogni riferimento alla cultura nera, dal nome alle referenze, dall’università frequentata alle esperienze di volontariato.

La sensazione è che, a parità di competenze, un professionista con un nome straniero potrebbe avere più difficoltà ad affermarsi di un collega con un nome italiano. Saremo più propensi a scegliere un commercialista che si chiama Brambilla o uno che si chiama Uyangoda Vithanage? Secondo Prasad, che è medico, “queste considerazioni vanno fatte con attenzione nella scelta della carriera professionale, perché devi mettere in conto che se sei nero e con un cognome strano sei svantaggiato in partenza rispetto a un tuo coetaneo che ha la tue stesse competenze ma che si chiama Mario Rossi.”

Su indicazione di un astrologo, mio zio scelse il mio nome, che in sanscrito significa dea del fiume, in relazione a quello di mia madre, il fiume Yamuna: due nomi che fossero l’uno l’affluente dell’altro. Quando un genitore straniero trasmette al figlio il proprio cognome e lo battezza con un nome scelto seguendo tradizioni millenarie, veicola un bagaglio culturale e familiare destinato a seguirlo nella vita anche attraverso i continenti.

“Toby. Di’ il tuo nome, così impari che cosa sei.” Nella trasposizione cinematografica del libro, questo ordinavano a Kunta Kinte; ma nemmeno allora, mentre veniva frustrato, ha rinunciato al proprio nome. Nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a farlo.

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