Lo scorso 16 dicembre, qui su VICE avevo cercato di rispondere a qualche domanda sulla situazione di Aleppo est. Da allora le cose sono parzialmente cambiate: un corridoio umanitario vero e proprio non è stato predisposto, ma all’ONU si è riusciti ad approvare l’invio di osservatori internazionali e l’evacuazione è proseguita.
Le immagini che arrivano dai sostenitori regime sono però di tutt’altro tipo: alcune fotografie descrivono una celebrazione nella sala “al-Asad” dell’Università—quella stessa università che era stata uno dei centri della rivoluzione ad Aleppo, teatro di scontri cui assistettero proprio alcuni osservatori ONU e che in seguito fu pesantemente bombardata.
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Altre riguardano invece i festeggiamenti del Natale che, sommandosi ai servizi sui “cristiani [che] possono finalmente tornare a celebrare,” provano a rendere “reale” l’idea che la città sia stata “liberata” da forze oscure che la tenevano in scacco.
L’evacuazione da una parte e i festeggiamenti dall’altra sono effettivamente avvenuti, ma per riportare le notizie da Aleppo su un piano di realtà ci manca un tassello. Mai sentito parlare dei “crimini contro l’umanità”? Bene, Ben Toub del New Yorker ci ricorda che, secondo i parametri internazionalmente riconosciuti, l’evacuazione di Aleppo è un crimine contro l’umanità. L’articolo è molto lungo e dettagliato, ma vale la pena riportarne un piccolo brano:
Secondo lo Statuto di Roma, documento che fonda la Corte penale internazionale, una campagna di “sterminio” è un crimine contro l’umanità caratterizzato dalla “deprivazione dell’accesso a cibo e medicine, un deprivazione pensata allo scopo di distruggere parte della popolazione.”
E questo è ciò che ad Aleppo (e in altre città siriane) è effettivamente successo.
LA PROPAGANDA DI GUERRA
Oltre al pezzo del New Yorker, per chi volesse documentarsi sull’evacuazione ce ne sono almeno altri tre da leggere. Il primo, in francese, è apparso su Libération, e si intitola: “Aleppo: falso e uso del falso.” Il secondo, in italiano, è uscito su QCODEMAG col titolo “Siria, la guerra e la propaganda”, mentre il terzo, “I maestri della disinformazione“, è stato pubblicato in inglese su Qantara, un magazine tedesco.
Tutti e tre i pezzi descrivono bene la nebbia tossica generata dalla propaganda di guerra, puntando il dito su alcuni dei temi che hanno tenuto banco negli ultimi tempi, dalla negazione degli ospedali bombardati dai russi alla “guerra al terrore” di Asad e soci—che si risolve spesso nel fare di ogni oppositore, o di qualsiasi civile che abbia la sfortuna di trovarsi in aree di guerra, un terrorista—, dagli ultras di Asad—come la canadese Eva Bartlett—che si spacciano per “giornalisti indipendenti” fino alle uscite dell’ambasciatore ONU del regime, Bashar al-Jaafari, che spudoratamente spaccia foto scattate in Iraq per immagini di Aleppo.
In Italia, molte di queste posizioni sono riassunte da siti di “geopolitica” come L’Antidiplomatico o dalle opinioni di deputati come Manlio Di Stefano (M5S), che il 16 dicembre scorso ha pubblicato un post—dall’eloquente titolo “La liberazione di Aleppo“—in cui descrive la Siria come un paese “sotto attacco da bande di terroristi in una guerra per procura, foraggiata prevalentemente da Arabia Saudita, Qatar e Turchia.”
Ma non c’è bisogno di essere palesemente schierati dalla parte del regime siriano per avere determinate opinioni della situazione in Siria, e nei giorni in cui Aleppo è finita sulle bacheche di chiunque in molti vi si sono trovati faccia a faccia.
CONTRO LA RETORICA “ASSAD = MALE MINORE”
C’è infatti un’altra categoria di “commentatori”, quella di persone che vorrebbero essere “oggettive” e che adoperano concetti come la “riduzione del danno”. Sono quei “realpolitici” che applicano la retorica del “male minore”, il cui mantra recita: “Assad non è un santo, ma dall’altra parte c’è molto di peggio.” Così, dovendo scegliere, scelgono Assad, spesso finendo per accettare acriticamente tutta la sua propaganda.
Ecco, proviamo a smontare questo racconto. Non tanto per istinto polemico, ma guardando questa grafica sulle vittimi civili in Siria. Poi ognuno la penserà come vuole.
Dall’inizio della rivoluzione siriana (che, ricordiamolo, almeno nei primi sei mesi è stata assolutamente pacifica e unita nella richiesta di “libertà, dignità, cittadinanza”) fino al novembre scorso le vittime civili (centinaia di migliaia di persone) sarebbero state causate per l’89,7 percento dai gruppi armati che fanno riferimento al governo siriano di Bashar al-Asad.
Il resto delle vittime civili è redistribuito tra il governo russo di Vladimir Putin (3,6 percento), ISIS e Nusra, ossia il gruppo Stato Islamico e il gruppo qaedista di quella che si chiamava Jabhat al-Nusra e ora si chiama Jabhat Fath al-Sham (3 percento), i gruppi di opposizione—cioè la variegata galassia dei “ribelli” nella quale compaiono anche, come si diceva l’altra volta, diversi gruppi jihadisti, nessuno dei quali legato all’ISIS e alcuni dei quali legati alla Nusra—(2,3 percento), la coalizione internazionale, cioè la coalizione a guida americana (0,7 percento) e altri (0,7 percento).
Ora la domanda è: cos’è il male minore? Dal punto di vista—l’unico giusto—delle vittime reali di questo conflitto, i civili siriani, il male minore (se proprio vogliamo usare questo concetto insensato) non è Bashar al-Asad.
E questo può essere verificato anche attraverso il livello di distruzione della Siria e ciò che questa distruzione comporta. Per anni le forze di Bashar al-Asad e (a partire dal 2015) Vladimir Putin hanno bombardato molte città siriane con aerei ed elicotteri. A partire dal 2014 sui cieli siriani sono volati anche gli aerei della coalizione di cui sopra. Questi ultimi hanno, nella misura riportata sopra, causato vittime civili. Ma—e questo è un particolare da non dimenticare—non hanno bombardato (se non con qualche eccezione) le aree oggi rase al suolo, concentrandosi sui territori dominati dall’ISIS, e non hanno mai fatto ricorso a ordigni come i famigerati “barili bomba“. Insomma, non hanno mai deliberatamente condotto una campagna di massacro della popolazione civile e di distruzione delle infrastrutture “dall’alto”, crimini di cui invece si sono ripetutamente macchiati il regime siriano e i russi.
Ciò, su una popolazione di 21 milioni di persone, ha comportato—come riporta l’UNHCR—8,7 milioni di sfollati, cioè persone che hanno dovuto lasciare le loro case, e 4,8 milioni di rifugiati, cioè persone che, sfollate, hanno dovuto lasciare il paese.
Sfollamenti e fughe, ovviamente, si sono verificati anche nelle aree dove si trova l’ISIS, oltre che nel Rojava, ma anche qui i numeri non sono paragonabili. Come scrivono nell’articolo di QCODE citato prima Fouad Roueiha e Cecilia Dalla Negra:
Nell’ottobre scorso lo hanno fatto in Germania, il paese che ha accolto più siriani, ed il primo sondaggio svolto tra i rifugiati lascia poco spazio ai dubbi: il 70 percento scappa da Asad ed il 79 percento ritiene che la violenta repressione scatenata dal dittatore contro le manifestazioni pacifiche sia la causa della guerra in corso.
Insomma fate voi, “guardatevi dentro” e rispondete alla domanda: “Asad è il male minore?”
CONTRO LA RETORICA “PREFERISCI ASSAD O L’ISIS?”
Ma mentre fate questo ricordate che in rete, invece, questa domanda si traduce nella seguente: “Preferisci Assad o l’ISIS?” In questo caso la domanda è proprio sbagliata—per quanto ricorrente, come dimostra il titolo principale della pagina online di Repubblica.it sulla Siria, “Siria spaccata fra Assad e ISIS.”
Innanzitutto, il campo di battaglia siriano, oggi, non è diviso in due ma, almeno, in quattro parti. Combattono: 1. i lealisti, cioè l’esercito di Asad, le sue milizie irregolari, Hezbollah libanesi, milizie sciite irachene, iraniani, russi; 2. i ribelli, nelle cui fila militano anche gruppi jihadisti; 3. le Syrian Democratic Forces, a guida curdo-siriana delle YPG, col supporto americano limitato ai combattimenti contro l’ISIS; 4. il gruppo Stato Islamico.
Ognuna di queste parti in lizza ha un territorio che in diverse forme governa. I lealisti dominano nella cosiddetta “Siria utile”, cioè quella parte di Siria, occidentale, dove si trovano le città più importanti. I ribelli, dopo l’evacuazione di Aleppo, si trovano principalmente nella provincia di Idlib. Le SDF sono stanziate nel nord-est, soprattutto in aree a maggioranza curda, e in un “cantone” curdo, isolato dagli altri, più a ovest, quello di Ifrin. Il gruppo Stato Islamico, che in questi ultimi mesi ha perso terreno quasi ovunque ma non nell’area di Palmira, “riconquistata” recentemente, è stanziato nel resto del paese, soprattutto nella parte orientale.
Ma non si tratta solo di ricordare che le parti armate in gioco sono più di due. Domandarsi se si sta con Assad o con l’ISIS pone infatti un altro problema. Dobbiamo essere per forza per una delle fazioni in lizza? Chi come me viene da un lungo passato pacifista, e ritiene che il problema siano prima di tutto le armi, pensa che—perlomeno—si dovrebbe provare a far tacere il fucile, cercando di individuare tutti quegli attori che il fucile non l’hanno mai imbracciato. Su questo tema, però, torneremo più avanti. Perché nel frattempo c’è un altro elemento da chiarire.
O Al-NUSRA?
Parlare di “Assad o ISIS” nel caso di Aleppo fa emergere anche un altro errore: ad Aleppo l’ISIS non c’è. [Su tema dell’assenza dell’ISIS e della battaglia dei gruppi armati antiregime per espellere l’ISIS da tutto il nord-ovest della Siria sono stati fatti diversi studi. Uno dei più importanti è quello di Felix Lagrand per Arab Reform, risalente al 2014. Qui, invece, trovate un report della BBC sulla cattura del quartier generale dell’ISIS ad Aleppo da parte dei ribelli, avvenuta peraltro mentre gli aerei e gli elicotteri di Bashar al-Asad bombardavano].
Così, per chi sa che l’ISIS nelle aree di cui parliamo non c’è, il quesito diventa: “Preferisci Assad o la Nusra?”
Questa seconda domanda ci porta a dire altre due o tre cose importanti sulla Siria. Useremo qui un’analisi apparsa sull’Huffington Post qualche giorno fa a firma di Charles Lister—autore di The Syrian Jihad: Al-Qaeda, the Islamic State and the evolution of an insurgency, un libro del 2015 che fa 500 pagine tonde e racconta l’intera vicenda da un punto di vista estremamente informato: lo studioso ha infatti tra le sue fonti non solo combattenti sul campo, leader jihadisti e non di gruppi armati che si oppongono a Bashar al-Asad, ma anche persone “interne” all’amministrazione americana. È anche per questo, e nonostante le sue idee “politiche”, che ad oggi lo si può ritenere uno dei maggiori esperti mondiali della materia che stiamo trattando.
Nel suo articolo, Lister spiega che ad Aleppo Est—al di là del fatto, di nuovo, che l’ISIS proprio non c’era—la presenza qaedista, prima dell’avanzata lealista, era abbastanza ridotta in relazione al numero di combattenti. Le stime variano da un 10 percento (stime americane) a un 2 percento (stime francesi). Facciamo pure una tara, ma consideriamo che secondo Lister, Aleppo era a tutti gli effetti la capitale di quella che si definisce “l’opposizione armata moderata”, mentre la vera forza di al-Qaeda in Siria è nella regione di Idlib, luogo verso il quale attualmente vengono inviati gli evacuati di Aleppo.
Ecco: al-Qaeda, dopo la sconfitta di Aleppo, ha una posizione più forte all’interno della variegata compagine che si oppone militarmente a Bashar al-Asad. E ciò, guarda caso, è avvenuto anche grazie al non-intervento americano e alla “fuga” turca. Se tutti, a iniziare da al-Asad per finire agli americani, non fanno che favorire direttamente o indirettamente un’egemonia di al-Qaeda nel campo della ribellione anti-Asad—che è cosa ben diversa dall’ISIS—che cosa possiamo rispondere? Un sonoro vaffanculo?
In sostanza, chiedere se “preferisci al-Qaida ad Asad?” in riferimento ai fatti di Aleppo costituisce una sorta di nonsense.
E GLI STATI UNITI? E L’ARABIA SAUDITA? E IL QATAR? E LA TURCHIA?
Quando si cerca di capire la Siria, non sono però solo gli attori “interni” a essere tirati in ballo. Nell’articolo di Di Stefano, per esempio, si parla di “guerra per procura, foraggiata prevalentemente da Arabia Saudita, Qatar e Turchia.” Ecco: se non preferisci Assad o l’ISIS, preferirai per caso loro? Anche qui, è il caso di fare un po’ di chiarezza.
Nel sopracitato libro, Lister dà per certo—e questa è una cosa che chiunque, usando fonti aperte, può verificare—che gli americani abbiano foraggiato e appoggiato (e continuino a farlo) alcune fazioni armate. Così come disegna il tracciato degli aiuti in armi, denaro e logistica ad altre fazioni armate per lo più jihadiste da parte di sauditi, qatarini, turchi, emiratini. Ma poi, così come è giusto fare se si vuole portare a termine un lavoro ben fatto, Lister racconta anche la “storia” di questi aiuti e foraggiamenti, sottolineando un fatto che spesso nella vulgata giornalistica media non emerge: americani e paesi del Golfo non hanno sostenuto la “rivoluzione siriana,” bensì quelle fazioni armate che essi hanno ritenuto utili nel portare avanti i loro interessi in Siria.
Per fare un esempio: una delle fazioni armate finanziate dai sauditi, il Jaysh al-Islam, si è resa colpevole del rapimento e probabilmente dell’uccisione di uno dei simboli della rivoluzione—nonviolenta e tutta politica—siriana: Razan Zaitouneh.
Ora: Lister è uno di quei bersagli grossi individuati dai sostenitori di Assad, da qualsiasi parte essi arrivino (fascisti e rossobruni nostrani, presunti comunisti e/o antimperialisti “veri”, giornalisti allineati sulle posizioni del regime e molti altri), con la conseguenza che chiunque citi questa persona diventa un servo della CIA o qualcosa di simile. Eppure un altro importante distinguo che lui e tutte le persone ragionevoli fanno sulla Siria riguarda il carattere dell’opposizione: armata o politica.
Ovviamente fra opposizioni armate e opposizioni politiche in Siria troviamo diverse sovrapposizioni. Chi finanzia i gruppi armati poi vuole sedersi a un tavolo politico e ciò è quanto avviene oggi con la Turchia, ad esempio. Ma è anche vero che la sovrapposizione non è completa, anzi. Non è completa principalmente perché esiste—ed è il cuore della rivoluzione siriana che, giudicate voi, può essere o meno agonizzante—un’opposizione politica non-violenta le cui “armi” sono le opinioni, la ricerca delle già menzionate “libertà, dignità, cittadinanza”. Ed è a questa parte della questione siriana che mi riferivo alla fine del capitolo “Assad o ISIS”.
ALLORA, DA CHE PARTE STARE?
Quella di cui sto parlando è un’opposizione sistematicamente occultata da tutti gli attori in campo (è scomoda, chiede cose che nessuno davvero vuole dare) ma che continua, nonostante la feroce e sistematica repressione, a dare segnali di vita dentro e fuori la Siria.
In pochi sanno, ad esempio, che Aleppo est c’è un Comitato di coordinamento locale, un organismo civile elettivo, un qualcosa che, senza l’uso della forza, ha come scopo la gestione delle aree sfuggite al controllo governativo. Un organismo soggetto a pressioni fortissime da parte di attori esterni come la Turchia, che vuole egemonizzarlo, e interni come i diversi gruppi radicali, che pretendono di affiancarvi “Corti islamiche”.
In pochissimi conoscono la protesta dei cittadini di Ma’arrat al-Nu’man, nella provincia di Idlib, contro la presenza di al-Qaeda. Una protesta fatta coi cartelli e durata per settimane e settimane. Forse, qualcuno ricorderà anche che nei pochi giorni di tregua concessi dal regime, in primavera, giorni in cui i barili bomba non cadevano più sulle case, la “rivoluzione siriana”, quella di persone normali che rivendicano idiritti più elementari, è risorta dalle ceneri.
E questi sono solo esempi, e sono solo riferiti ai siriani che hanno la fortuna o la sfortuna di trovarsi ancora in quel paese martoriato, nelle aree che al-Asad e amici ritengono essere un “covo di terroristi”.
Fra i milioni che invece sono dovuti fuggire, gli attivisti si contano a decine di migliaia, molti dei quali si sono fermati perché hanno perso le speranze. Tanti altri sono morti scattando una fotografia, facendo un video, documentando ciò che succedeva, o semplicemente cercando di fornire aiuto alle popolazioni messe in ginocchio dalla guerra
E molti ancora sono morti nelle carceri di al-Asad o, in misura certo minore ma non trascurabile, in quelle di ISIS o di qualche gruppo jihadista o di qualche signore della guerra che non gradiva la loro presenza o la loro denuncia.
Aver preso Aleppo, per il regime siriano, significa quindi aver fatto un ulteriore passo avanti non tanto nell’ottica di una vittoria finale a breve, ma nell’eliminazione di tutto ciò che sta fra lui e l’ISIS. Perché è ciò che sta in mezzo il vero pericolo per al-Asad e per i suoi sodali, fra i quali oggi figura anche la Turchia. Per gli attivisti, per questa opposizione politica, tutto ciò significherà trovarsi ancora più stretti fra incudine e martello.
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Tornando alle domande e alle risposte e ai luoghi comuni, Razan Zaitouneh e i suoi colleghi, così come la maggior parte degli attivisti di cui ho fatto breve cenno, documentavano le violazioni dei diritti umani di tutte le parti in conflitto, chiedevano ciò che ognuno di noi, da questa parte del mondo, dà per scontato: i più elementari diritti.
Forse la prima cosa che dovremmo fare, prima di porre domande idiote sul “male minore”, prima di inneggiare alla vittoria di un genocida e dei partner che lo sostengono, prima dare per scontato che con la geopolitica si capisce tutto ma proprio tutto, prima di dare paternalistiche patenti di “anima bella” a chi invita tutti quanti a smettere di giocare a soldatini, è cercare queste persone, leggere cosa scrivono, dar loro supporto in quello che fanno.
A tal proposito ci sono altri due articoli da consigliare. Il primo, “Ode ai sognatori caduti: i giovani rivoluzionari siriani”, è la testimonianza della giovane attivista palestinese Budour Hassan sui destini di chi, ad Aleppo, provò a costruire un movimento di opposizione non-violento e ora assiste senza più poter far nulla alla catastrofe. ll secondo, “Aleppo: né con Assad, né con i jihadisti”, è la riflessione della militante del movimento delle donne curde Dilar Dirik sulla difficoltà di prendere “una parte” in una situazione sporca come quella siriana.
Visto che siamo sotto Natale, poi, chiudiamo col Natale. Un attivista siriano, Nader, ha postato su twitter in questi ultimi giorni tre video della rivoluzione siriana, due del 2011 e uno del 2012. In ognuno compariva Babbo Natale, che si appropriava delle manifestazioni che chiedevano, pacificamente, un cambiamento in Siria.
Il primo viene da Homs.
Il secondo da Dael (nel sud, vicino a Daraa),
Il terzo da Damasco.
Ho guardato questi video, poi ho riguardato i “festeggiamenti natalizi” nella Aleppo del regime, dopo la conquista della città, e ho colto la differenza che passa fra le due cose. Non so voi.