Avevo iniziato a scrivere questo articolo prima dell’emergenza Covid-19. Prima dell’8 marzo, prima che le nostre vite cambiassero, prima che il concetto stesso di “ristorante” diventasse un punto interrogativo.
C’è chi sostiene che il fine dining morirà e rimarranno solo le trattorie perché avremo meno soldi e più voglia di conforto. E c’è chi invece ritiene che il fine dining trionferà perché avremo voglia, e bisogno, di stimoli creativi ed evasione dalla realtà.
Videos by VICE
Io scrivo di cibo, ho sempre e solo scritto di cibo, e nonostante sia consapevole che i giornalisti abbiano argomenti più contingenti di cui occuparsi penso anche che, ora più che mai, sia importante continuare a parlare dei ristoranti e ristoratori. Soprattutto quando parlare di com’erano, e di come sono adesso, può offrire qualche spunto su come saranno e, ancora meglio, su come sarà la ristorazione in generale. E quindi oggi vi parlo di Al Cjasal, anche se lo faccio in modo completamente diverso da come mi sarei mai immaginata.
Al Cjasal mi ha fatto capire una cosa: il menu degustazione è sopravvalutato.
Dalla maggior parte degli chef viene giudicato il modo migliore per far conoscere la propria cucina ed esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Da cliente, invece, può essere divertente, entusiasmante, coinvolgente.
Ma spesso non si ha voglia di mangiare tutte quelle portate (minimo cinque). Spesso si vuole scegliere cosa mangiare. Spesso quello che nei ristoranti viene definito in diversi modi – “un viaggio”, “un percorso”, “un’immersione” – diventa più simile a un sequestro di persona. Lungo. Noioso. Un piatto no e un piatto sì, due piatti no e uno sì, eccetera. Scegli alla carta, allora!, vi sento protestare. Eh no. Anche quando è presente, la carta può essere inaccessibile: pochi piatti, e/o piatti troppo costosi. O si sceglie il menu degustazione o si esce.
Ho avuto la fortuna di fare l’esperienza di diversi menu degustazione straordinari, indimenticabili. Ma ne ho fatti altrettanti che, invece, mi hanno lasciato solo la sensazione di uno spreco di tempo e di denaro. Poi a inizio gennaio sono stata da Al Cjasal.
“Da Al Cjasal hanno dismesso la formula del menu degustazione: qui si può ordinare solo alla carta. Però quasi ogni piatto è disponibile in 3 dimensioni: porzione intera, mezza porzione, cicchetto”
Al Cjasal è un bel casolare a San Michele Al Tagliamento, al confine tra Veneto e Friuli, che la famiglia Manias gestisce dal 1999. All’inizio quello di Enzo e Rosellina Gobbato era una trattoria tradizionale, lui in cucina e lei in sala. Poi i loro figli sono cresciuti e hanno deciso di proseguire la strada della cucina, in ristoranti pluri-stellati: Stefano (classe 1987) è stato quattro anni secondi di Enrico Bartolini a Le Robinie; Mattia (classe 1990) sei anni capopartita a Le Calandre prima, e al Caffè Quadri di Venezia poi.
Hanno scelto di tornare entrambi in famiglia un paio di anni fa, e a loro si è unita la fidanzata di Mattia, Elena Falliero, per 4 anni responsabile della pasticceria degli Alajmo. Non amo dilungarmi a elencare il palmares degli chef. Non è garanzia di nulla: un cuoco può aver lavorato in dieci diverse cucine stellate e comunque non avere un minimo di originalità o di inventiva. Questa digressione mi serve per spiegare come tre ragazzi, appena trentenni, hanno scelto di puntare tutto su un’attività di famiglia creando un formato fresco, vivo.
Da Al Cjasal hanno dismesso la formula del menu degustazione: qui si può ordinare solo alla carta. Però quasi ogni piatto è disponibile in tre dimensioni: porzione intera, mezza porzione, cicchetto. Appena ho aperto il menu davanti a me si è spalancato un universo di combinazioni possibili. Potevamo ordinare tutto. TUTTO. Potevamo fermarci e ripartire. Potevamo soddisfare ogni volta e spegnere ogni curiosità.
Un format come quello di Al Cjasal potrebbe essere uno scenario futuro molto plausibile per i ristoranti di qualsiasi livello.
Provo a riassumervi brevemente una delle cene più divertenti della mia vita (ah!, quando ancora andavo al ristorante una media di 2-3 volte a settimana!). Siamo partiti con due loro classici che rimangono sempre in menu e disponibili solo in formato cicchetto: Cannolo veneziano con baccalà mantecato e Cjalda di mais, anguilla alla brace, crème fraiche e cipolla fritta. Poi abbiamo preso altri tre cicchetti per testare le porzioni e la nostra fame: un susseguirsi di bocconi pazzeschi, delle misure di un piatto da menu degustazione, sufficienti per permettere a entrambi di assaggiarli tutti. Le porzioni intere si attestano intorno ai 20 euro, le mezze ai 15 euro, i cicchetti a 7. A questo punto siamo passati alla pasta: una mezza porzione di Bottoni ripieni di cavolo fiolaro, acqua di mozzarella, pomodoro conciato e polpo alla brace. Vengono portati al tavolo direttamente in padella e sono strepitosi.
“Non abbiamo una delivery fissa, la gente si stufa e il budget delle famiglie si è ridotto. Abbiamo creato degli eventi virtuali, tipo la giornata del panzerotto, o della tartare”
A seguire: due porzioni di pesce. E poi beh, non vuoi finire con un cicchetto di pasta? E tre dolci? Non vuoi ordinarli tre dolci? Abbiamo concluso satolli e felici, dopo aver ordinato quasi l’intero menu e avere speso circa 70 euro a testa comprese due bottiglie di vino. Mi ero ripromessa di tornare questa primavera per godermi il bel dehors e assistere alle preparazioni sulle braci. Le cose, come sappiamo, sono andate un po’ diversamente.
Ultimamente ho ripensato spesso a quella cena. I ristoranti stanno sviluppando format molto diversi per salvare la ristorazione nel momento presente, e concependo idee molto diverse su come sarà la ristorazione nel futuro. C’è chi sostiene che il fine dining morirà e rimarranno solo le trattorie perché avremo meno soldi e più voglia di conforto. E c’è chi invece ritiene che il fine dining trionferà perché avremo voglia, e bisogno, di stimoli creativi. Ma soprattutto perché i ristoranti “stellati” potranno mantenere determinati standard igienici e di distanza rispetto a trattorie o altri locali.
Io trovo che un format come quello di Al Cjasal potrebbe essere uno scenario futuro molto plausibile per i ristoranti, di qualsiasi livello. È divertente, è economicamente modulabile, parla a una clientela molto ampia ed è un’esperienza di pancia, di cervello, di emozione.
Continuando a seguirli su Instagram, ho visto che in questo periodo non si sono fermati e propongono una delivery, anche questa diversa da quelle “convenzionali”. “Non abbiamo voluto proporre una delivery fissa, con lo stesso menu tutti i giorni, perché la gente si stufa,” mi spiega Stefano Manias. “E poi il budget delle famiglie si è ridotto. Abbiamo creato degli eventi virtuali, tipo la giornata del panzerotto, e a breve faremo una giornata della tartare.” Il fatto di avere fidelizzato una clientela molto locale e varia, dai gourmet alle famiglie, li ha ovviamente aiutati: consegnano in un raggio di 45-50 km.
Per Pasqua e Pasquetta non hanno (ovviamente) proposto un menu fisso, bensì tanti piatti tra cui scegliere, da una classica lasagna o grigliata al Tacchino al curry e latte di cocco con riso pilaf o ancora Asparagi salsa all’uovo uovo mimosa e liquirizia. I prezzi variano dai 10 ai 20 euro e per ogni piatto viene indicato il numero di persone per cui è consigliato. Insomma, anche la delivery è stata impostata secondo i cardini della loro filosofia: tailorizzazione in base a gusti e appetito individuali; range di prezzo abbordabili; nessuna formula fissa di qualsivoglia tipo. “Abbiamo un po’ rivisitato la cucina tradizionale di Pasqua. Pensiamo sia quello che la gente vuole questo momento.”
E non smettono di pensare al futuro. “Abbiamo trasformato casa di mio fratello Mattia in un laboratorio. Continuiamo a fare prove e test in previsione della riapertura e cerchiamo di tenere viva la curiosità del cliente. Io mi collego via Skype, e insieme progettiamo il nuovo menu. Non posso raggiungerlo con i gusti ma con la mente sì.”
Segui Giorgia su Instagram