Questo post è tratto da Broadly.
Abbiamo capito che c’era un problema quando mia sorella ha iniziato ad appendere lenzuola nere in camera sua.
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“È colpa degli elicotteri,” mi ha detto Amber, mia sorella. “È l’FBI. Mi stanno alle calcagna.”
Ci siamo resi conto di quanto grave fosse il problema quando ha chiamato la polizia di Los Angeles alle 2 del mattino, sostenendo che mia madre aveva un fucile e che minacciava di usarlo. I poliziotti sono arrivati e si sono fatti strada su per le scale buie della nostra casa, con le armi spianate, e quando sono uscita dalla mia stanza, assonnata e confusa, mi hanno urlato di tenere le mani bene in vista.
Nonostante non mi fossi mai trovata con un’arma puntata in faccia, non avevo paura. Ero invece molto scocciata di essere stata svegliata. Gli attacchi della malattia di mia sorella non mi hanno mai disturbato molto—soprattutto perché l’avevo sempre considerata una rivale. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza mi aveva offuscato con i suoi talenti, riceveva premi e una sfilza di A perché era dotata in matematica, scienze, letteratura, francese e storia—mentre io ho vivacchiato per tutta la scuola. Essendo alta, Amber era anche una campionessa di pallavolo e basket. Io ho provato entrambi gli sport, senza alcun successo.
Mi stava anche addosso, mi chiamava “Tutankhamon” perché i miei capelli naturalmente ricci e lunghi fino al mento stavano tutti rigidi nella forma di un copricapo da faraone. Per lei le mie cosce erano “grosse”, i miei disegni “stupidi”, e quando io impazzivo perché non la smetteva mai, mi diceva, “Calma, calma,” facendomi arrabbiare ancora di più. I mie genitori sapevano che era sempre lei “a cominciare,” e la mettevano in castigo perché non mi lasciava mai in pace, quando era tutto quello che le chiedevo.
Quando i poliziotti sono entrati in casa, non ero nella mia forma migliore—avevo 16 anni, non avevo un fidanzato e stavo entrando di testa in un disturbo da alimentazione incontrollata. A un certo punto prendevo due chili a settimana, poi mi deprimevo ancora di più ed ero sempre nervosa e arrabbiata.
Sfortunatamente, nel momento in cui i poliziotti mi hanno visto avevano già ammanettato mia madre, che stava a piedi nudi sul portico nella sua camicia da notte di flanella rosa confetto lunga fino al ginocchio. Doveva avere un gran freddo ai piedi dato che era la metà di gennaio, e negli Novanta la temperatura nella San Fernando Valley arrivava vicino allo zero quando il sole calava.
Mia madre non era arrabbiata, nonostante le manette. Stava lì come morta, scasciata, cercando tra i singhiozzi di spiegare cos’era successo. Ma non si capiva cosa stesse dicendo a causa dei singhiozzi. Mi si spezzava il cuore e ho sentito che mi colmavo d’ira—sembrava così impaurita, così indifesa.
Nonostante l’apparecchio che mi impediva di parlare, ho spiegato ai poliziotti qual era la situazione di mia sorella. “Mia sorella è pazza,” ho detto sputacchiando. “Si immagina le cose.”
Amber era in piedi dietro di me, in stato di allerta, con il terrore negli occhi. Ho scoperto solo in seguito che questa particolare idea le era venuta quando già mia madre dormiva: dal nulla, Amber si era convinta che nostra madre era in camera sua, che stava caricando un fucile per ucciderla, e quindi ha chiamato la polizia. Non ha detto nulla né a me né a mia mamma prima di telefonare.
“Mia madre non ha un fucile. Potete toglierle le manette?”
Grazie al cielo hanno obbedito.
E quando mia sorella ha ribattuto, “No, ce l’ha, ha una pistola! L’ho vista,” ho detto, “Ignoratela.”
Qualsiasi cosa passasse per la testa di Amber, pensavo, sarebbe sicuramente passata. Era la star, la numero uno del suo liceo, quella che era riuscita a farsi prendere a Berkeley. Era quella carina, alta e magra ma con le curve giuste. I suoi capelli erano spessi e lisci e di un bel castano, e arrivavano alle spalle con molta più grazia dei miei.
Solo in seguito abbiamo scoperto che la sua immaturità e tendenza alla persecuzione altrui era in linea con una predisposizione alla schizofrenia. Anche se Amber era una bambina dotata, non aveva autocoscienza emotiva. Quando non studiava e non faceva sport, aveva due personalità: scontrosa e cattiva o completamente avulsa. Si capisce anche dalle foto di noi da piccole. Io facevo le smorfie o i sorrisoni, lei sembrava distante, come in una nebbia, senza emozioni, vuota.
La malattia ha esordito quando il primo semestre a Berkeley non è andato bene, probabilmente perché fumava erba dalla mattina alla sera. Secondo tutti gli psichiatri con cui ha avuto a che fare, l’erba ha catalizzato la schizofrenia latente che era stata “domata” dal suo cervello fin dalla nascita. È un’ipotesi valida, dato che anche mio nonno paterno era schizofrenico. Come la calvizie, anche la schizofrenia spesso salta una generazione.
A casa stava sempre con lo stereo accesso, i Beatles o gli Who a tutto volume, cercando rifugio dalle voci nella sua testa.
“Sento degli scoppi nella mia testa,” diceva, spaventata. “Un rumore fisso di cose che scoppiano forte.”
Dopo circa sei mesi così, i miei genitori hanno cominciato a preoccuparsi seriamente. Io no.
“Non ti importa di tua sorella?” mi aveva chiesto mio padre mentre facevamo colazione vicino a casa sua a Orange County. Ma io ero così distaccata da Amber che non sapevo nemmeno cosa rispondere.
“Non so come puoi essere così fredda,” aveva aggiunto.
I raggi del sole accecante della California venivano rotti dalle lame delle palme tozze fuori dal ristorante. Tutto il panorama luccicava, e mi faceva sentire ancora più depressa dopo l’abbuffata di ciambelle della notte prima.
“Perché le passerà,” avevo detto infine, arrabbiata. “Andrà meglio. Perché vi preoccupate così tanto?”
Ma non le è passata. Anzi, ha cominciato a scalare le colline arse dietro casa sotto il sole da 40 gradi, a piedi nudi, per mettersi sulla cima ad aspettare che Dio la risucchiasse in paradiso perché gli angeli le avevano detto che l’apocalisse stava arrivando. Tornava a casa con le piaghe sotto i piedi e tra le dita per i marciapiedi bollenti, e con la faccia ustionata. Il giorno dopo la fronte e il mento e le guance erano tutte una vescica enorme.
Dopo 14 giorni in un’unità psichiatrica in cui le avevano dato psicofarmaci per gestire la paranoia, ho cominciato a considerare il fatto che Amber avesse una malattia reale.
La schizofrenia, ci hanno detto i dottori, causa deliri, allucinazioni e paranoia—ecco perché Amber pensava che mia madre avesse un fucile o che l’FBI la spiasse o che gli angeli le avessero profetizzato l’apocalisse. I dottori ci hanno detto che non sarebbe diventata aggressiva o violenta di proposito, ma che avrebbe potuto mettere gli altri o se stessa in pericolo nel tentativo di proteggersi. Ne abbiamo avuto conferma poco dopo, quando mia madre la stava portando dal dottore un pomeriggio, durante l’ora di punta. Amber ha aperto la portiera del passeggero mentre la macchina rallentava a un semaforo ed è balzata fuori, per poi correre via. Ancora una volta, aveva avuto paura che mia madre le facesse del male.
Secondo i dottori un buon regime farmacologico avrebbe alleviato questo tipo di sintomi psicotici. Prima le hanno fatto dell’Haldol, uno dei primi farmaci usati negli anni Cinquanta per la schizofrenia. Lei,ima a la paranoia ma la rendeva una larva, quando lo prendeva dormiva tutto il giorno. I miei genitori non lo sopportavano, perciò i medici le hanno prescritto il Clorazil, un antipsicotico di nuova generazione nonché l’unico che alleviava i sintomi senza renderla uno zombie.
Sfortunatamente il Clorazin dà anche fame incontrollata e sballa il metabolismo. Amber non ha fatto eccezione: in un paio di mesi ha messo su decine di chili. Questa reificazione della sua malattia ha fatto scattare un interruttore nel mio cervello. Per la prima volta potevo vedere la gravità della sua malattia, e il fatto che fosse ingrassata mi ha ammorbidito nei suoi confronti e ha come dire aperto degli spiragli nel mio cuore. Sempre di più.
Qualche mese dopo, ha cominciato a essere ossessionata da Gesù. Una volta, quando aveva finito le medicine, nel 2003, mi ha chiamato urlando, “Sono l’agnello di Dio e verrò crocifissa.”
Stavo guidando, era notte. Mi sono spaventata per l’esaltazione nella sua voce è ho cercato, senza successo, di riportarla alla realtà. “Amber, non ti crocifiggeranno, è tutto nella tua testa!”
“Menti,” mi ha risposto, poi ha appeso.
Dopo questo episodio è rimasta per mesi in un ospedale psichiatrico. Il tipo di posto in cui i pazienti hanno poco da fare, a parte perdere tempo in una zona all’aperto grande come un fazzoletto. Quando le ho portato un orso di pezza per rallegrarla ha pensato fosse la bestia di cui si parla nella Bibbia e si è rifiutato di tenerlo.
“È il male,” ha detto. “È il diavolo.”
Sono tornata a casa disperata. La mia negazione si era trasformata nella tristezza per una sorella con cui non ero mai riuscita a entrare in contatto, una sorella che sembrava sfuggirmi dalle mani.
Amber viveva con mia madre. Io mi sono chiusa ancora di più. Non sapevo come comportarmi con lei, perciò sono diventata passiva. La vedevo solo alle riunioni di famiglia: compleanni, Natale, Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà. Ogni tanto, la portavo fuori a pranzo o al cinema o a prendere il caffè, poi scappavo di nuovo. C’era come una parte di me che ancora si illudeva che sarebbe passato.
C’erano volta in cui ubriaca fradicia cominciavo a singhiozzare, sul punto di iperventilare. A volte prendevo a pugni il finestrino della macchina o lanciavo bottiglie di birra contro i muri di casa. Quando si frantumavano, per qualche motivo mi sentivo meglio. Avevo bisogno di arrabbiarmi contro quella che oensavo essere una terribile ingiustizia.
Mi ci sono voluti vent’anni per scendere a patti con la malattia di Amber, ma oggi mi sembra molto meno tragica di cinque anni fa. A questo punto so che non cambierà, e ho cambiato prospettiva, cerco di focalizzarmi sulle parti positive.
È al sicuro. Non vive per strada, né cerca di farlo. Vive in una struttura a North Hollywood perché mia madre sta invecchiando e non riesce a prendersi cura di lei. Le medicine le fanno bene, tengono a bada allucinazioni e paranoia. Ha una famiglia che la ama. Nonostante il peso e il diabete di tipo due, è abbastanza in salute. Anche se certo gli Stati Uniti potrebbero fare molto di più per chi è affetto da disturbi mentali, sta molto meglio qui che in un paese che non offre le stesse possibilità di cura. Ed è ambiziosa: va a lezione di pittura e amministrazione al college. Ha persino preso una laurea in teologia al King’s college.
Qualche giorno fa, l’ho portata fuori a pranzo per il suo 38esimo compleanno. Voleva mangiare messicano.
Tra un morso di burrito e l’altro mi ha detto che aveva iniziato a tenere un corso sulla Bibbia al centro. “E le persone vengono,” mi ha detto con gli occhi sgranati. “Tom viene, Susan viene, e anche quella donna simpatica, Diane, viene.”
Dopo pranzo, ci siamo sedute sul suo grande letto nella stanza che condivide con una donna anziana e abbiamo continuato a parlare. Sopra il letto c’erano due croci che le avevo regalato—una di mosaico rosso giallo e argento, che avevo comprato a Barcellona, e l’altra di perline colorate, che avevo comprato in Messico.
“Posso leggerti la Bibbia?” mi ha chiesto poco dopo che ci eravamo sedute.
“Certo,” ho risposto. Anche se non sono cristiana, so che le piace leggere i salmi alle persone, è una delle sue cose preferite.
Ha preso una piccola Bibbia rilegata in pelle blu dal tavolino di legno e ha abbassato la testa sul libro con riverenza, i capelli castani lunghi fino al mento che le ricadevano sugli occhi. Aveva qualche ruga in più, e mi sono resa conto che stiamo entrambe invecchiando e che dobbiamo passare insieme più tempo possibile. Ha spinto i capelli dietro le orecchie e ha cominciato a leggere dalle beatitudini del Vangelo secondo Matteo: “Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno dei Cieli. Beati quelli che soffrono, perché saranno confortati.”
Mentre leggeva, si è calmata. La voce si è fatta più ferma e sicura. Ascoltavo. Anche se non sono credente, la serenità nel suo tono e le sue parole mi hanno commosso.
“Beati gli umili, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché verrà loro usata misericordi? Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.”
In quel momento sembrava stare così bene, così a suo agio, come se non fosse malata. Più leggeva più ascoltando mi sentivo in connessione con le parole, in connessione con lei, pronta e desiderosa di accettarla e amarla così com’è.
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