Per indicare una situazione caotica e confusa, in Italia si usa ancora una parola: “ambaradan.” Sono in pochi, però, a conoscere la sua origine—e si tratta di un’origine tutt’altro che nobile, poiché deriva da uno dei più spaventosi massacri commessi dall’Italia nel corso della sua storia.
Amba Aradan, infatti, è il nome dell’altopiano montuoso in Etiopia dove nel febbraio del 1936 l’esercito italiano sterminò circa ventimila persone—tra soldati e civili—nel corso della guerra d’aggressione voluta dal regime fascista. Per piegare definitivamente la resistenza degli abitanti, i militari sganciarono 60 tonnellate di iprite sulle colonne in ritirata, violando platealmente la Convenzione di Ginevra del 1928 che proibisce l’uso di armi chimiche.
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L’Italia ha ammesso le proprie responsabilità solo nel 1996, quando l’allora ministro della difesa Domenico Corcione desecretò i documenti d’archivio—il cui contenuto era stato rivelato negli anni precedenti dallo storico e studioso Angelo Del Boca, che per anni ha condotto inchieste in solitaria sul tema.
Da allora, su quella vicenda è calato di nuovo un oblio pressoché totale. E l’uso corrente del termine “ambaradan”, in questo caso, testimonia quanto sia generalizzata e perdurante l’amnesia sul colonialismo italiano, che è durato per quasi otto decenni (dalla fine dell’Ottocento fino al 1960, l’anno dell’indipendenza della Somalia).
La mancata elaborazione di quel periodo da un lato continua a incidere sul nostro presente, specialmente in relazione all’immigrazione e al razzismo; dall’altro ha fatto sopravvivere molte leggende e stereotipi fuorvianti, un po’ com’è avvenuto con il fascismo e altri lati oscuri del nostro passato.
Fortunatamente, negli ultimi tempi la percezione sul colonialismo italiano sta parzialmente cambiando grazie a romanzi, documentari, progetti di sensibilizzazione e saggi storiografici. Uno dei più recenti è Noi però gli abbiamo fatto le strade, scritto da Francesco Filippi, già autore di Mussolini ha fatto anche cose buone.
Per lo storico, “a sessant’anni dall’ultimo ammaina-bandiera oltremare, una buona parte della coscienza collettiva del paese non ha ancora abbandonato le proprie colonie.” Questo “paradossale meccanismo di cancellazione,” come lo definisce lui, è reso possibile anche da una serie di miti che infestano il dibattito pubblico sul tema. Basandomi sul libro, ho raccolto e smontato i cinque più comuni.
Mito numero 1: Erano “terre di nessuno”
Rispetto ad altre potenze europee, l’Italia è arrivata per ultima nella cosiddetta “corsa all’Africa” (scramble for Africa). Di conseguenza, già nella seconda metà dell’Ottocento, era molto diffusa la convinzione che si stessero andando a occupare territori “liberi”—in sostanza, delle “terre di nessuno.”
Pur non essendoci dominazioni coloniali di altri paesi, sottolinea Filippi nel testo, questo non voleva assolutamente dire che in quei luoghi “non vi fossero delle forme di governo, anche strutturate, precedenti all’invasione.”
Significativamente, l’esperienza del colonialismo italiano parte dal contratto di compravendita della baia di Assab (in Eritrea) stipulato il 15 novembre del 1869 tra il sultano di Raheita e l’esploratore Giuseppe Sapeto, per conto della società di navigazione Rubattino e del governo. Diversi anni dopo, quell’atto di proprietà venne trasformato dallo stato italiano in una cessione di sovranità—in spregio alla legge del sultanato e anche a quella italiana, ricorda Filippi—e diede ufficialmente vita alla prima colonia italiana in Africa.
La vicenda della baia di Assab (e praticamente tutte quelle successive) dimostra pertanto che non si trattava affatto di “terre incognite,” ma di entità con proprie norme e forme amministrative diverse da quelle europee.
Tuttavia, l’ottica coloniale faceva sì che il “dominio dei bianchi” fosse l’unico governo concepibile. E per questo motivo, la propaganda dell’epoca—e quella successiva, del fascismo—non parlava di sradicamento (anche violento) di una civiltà: ripeteva che si stava portando la civiltà.
Mito numero 2: Il dono della civiltà
Alla fine dell’Ottocento, l’Italia è assolutamente impreparata a interfacciarsi con i paesi occupati.
“La quasi totalità dei funzionari pubblici demandati alla gestione della colonia,” scrive Filippi, “non ha la minima idea di qualità peculiarità abbiano questi luoghi.” Gli italiani che arrivano in colonia si trovano di fronte a una realtà molto diversa da quella immaginata, a partire dalla geografia per arrivare alla composizione sociale e politica delle popolazioni.
Per tentare di spiegare le incomprensioni, le crisi, gli scontri e le disfatte (su tutte quella di Adua del 1896) che si susseguono ininterrottamente, si ricorre dunque a tutto l’armamentario razzista e si rovescia la responsabilità della violenza coloniale sugli stessi colonizzati.
Questi ultimi vengono continuamente accusati di voler rimanere fermi “all’età della pietra” o di essere “biologicamente refrattari al progresso”; in un perverso circolo vizioso, annota lo storico, “l’inferiorità percepita dei colonizzati giustifica la violenza bestiale nei loro confronti.”
Le uniche notizie positive che filtrano dalle colonie, ricorda Filippi, “riguardano quel che di buono stanno facendo gli italiani sul posto.” Non si parla mai dell’accaparramento di materie prime o dello spossessamento di terre: nell’immaginario collettivo, l’Italia è lì solo ed esclusivamente per “portare la civiltà”—e se non ci riesce è solo per colpa dei “selvaggi.”
Questo mito, tra l’altro, riacquista forza ogni volta che si parla dell’Africa come di un monolite indistinto e di un continente senza speranza, dove si pensa solo a farsi la guerra gli uni con gli altri. Così facendo, sottolinea Filippi, “l’immagine del passato coloniale ne esce rafforzata, perché dimostra ex post che i colonizzati avevano bisogno dell’uomo bianco.”
Mito numero 3: “In Africa è un’altra cosa”
Gran parte di quello che si conosce delle colonie è di seconda mano, come detto, ed è frutto di resoconti parziali e pessima letteratura che tende alla disumanizzazione delle popolazioni invase.
Questo ingenera nei colonizzatori la convinzione che “in Africa” sia permessa qualsiasi cosa, perché lì le cose sono “diverse”—specialmente sul piano della sessualità. La pubblicistica dell’epoca indugia molto su questo aspetto, ricorda Filippi, e gioca “sull’ambiguità del contesto sessuale per fare della colonia un luogo di approdo desiderabile.”
Tutti i maschi che partono per le terre conquistate, insomma, prendono per vero l’assunto che “le donne di colonia sono facili”—uno stereotipo sessista e razzista che sopravvive ancora adesso. La vicenda più nota è senza dubbio quella che ha riguardato Indro Montanelli, che “sposò” (cioè violentò) un’adolescente di dodici anni quando era un ufficiale durante l’invasione dell’Etiopia.
Nella famigerata intervista del 1969 alla trasmissione L’ora della verità, il giornalista si vantava di aver “scelto bene” questa “bellissima ragazza di dodici anni,” dicendo che “in Africa è un’altra cosa.” La giornalista Elvira Banotti aveva contestato con forza quell’affermazione, evidenziando come quello fosse il “rapporto violento del colonialista che si impossessava” di una minorenne.
Il mito della “diversità” delle colonie, dunque, serviva solo ed esclusivamente a giustificare la violenza e la sopraffazione dei colonizzatori.
Mito numero 4: I meno peggio
A proposito di violenza: in qualsiasi discussione sul colonialismo italiano, è pressoché matematico che a un certo punto qualcuno dica che “alla fine siamo stati meglio degli altri.” Certo, magari non siamo stati irreprensibili; ma nulla a che vedere con gli inglesi, i francesi o i belgi.
In realtà, scrive Filippi, “l’efferatezza che gli italiani impiegano per costruire [il loro impero coloniale] non è seconda a nessuno.” Tutta l’epopea coloniale è intrisa di sangue, e il fascismo non fa altro che ereditare e completare l’opera avviata dai governi liberali.
In Eritrea, Libia, Etiopia, Somalia e altrove l’Italia ha compiuto eccidi, terrorizzato le popolazioni, allestito campi di concentramento, instaurato un apartheid di fatto e commesso svariati crimini di guerra. “I numeri enormi dei massacri vengono edulcorati dal fatto che si tratta di non bianchi,” puntualizza lo storico, “e vi è una pressoché totale indifferenza nei confronti delle stragi compiute in colonia.”
Come ho ricordato all’inizio, anche nell’Italia repubblicana e “post-coloniale” ci sono voluti decenni per ammettere di aver utilizzato armi chimiche. Quella tardiva ammissione, tra l’altro, non è stata accompagnata da alcun atto concreto. Anzi: in Italia ci sono un sacco di vie e monumenti che celebrano criminali di guerra, su tutti l’orrido mausoleo dedicato al gerarca fascista Rodolfo Graziani (soprannominato “il macellaio del Fezzan” per i suoi metodi spietati).
Quindi, no: non siamo stati “meglio degli altri”. Abbiamo fatto le loro stesse cose, e continuare a raccontarci favole autoassolutorie non cambierà la storia.
Mito numero 5: Costruire le strade
Quello delle strade è il topos coloniale per eccellenza, paragonabile al tormentone dei treni in orario di Mussolini. Come quest’ultimo, è però fondamentalmente falso.
Sebbene lo sforzo infrastrutturale nelle colonie sia stato enorme, sostiene Filippi, le sue esigenze erano in larghissima parte di carattere militare: “costruire le strade significa spostare velocemente truppe nelle varie zone delle colonie per poterle controllare”.
Le strade servono pertanto ai colonizzatori, non ai colonizzati. Nonostante ciò, la rete viaria nelle colonie è precaria, inefficiente, funestata dalle ruberie e destinata più alla propaganda che altro.
Di essa si lamentano anche pezzi grossi del regime come Roberto Farinacci, che in una nota rivolta a Mussolini dice che “le migliaia e migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario.”
La più sbandierata opera di “civilizzazione,” insomma, è un clamoroso fallimento. Che tuttavia è rimasta impressa nella memoria collettiva come un grande successo, e ha paradossalmente “contribuito a formare il giudizio dell’intera esperienza imperialista” dell’Italia. Siccome “gli abbiamo fatto le strade,” in fondo non eravamo così come male come colonizzatori.
Peccato che una strada, chiosa Filippi, non potrà mai e poi mai compensare “i massacri, la cancellazione di intere culture e la perdita di indipendenza di milioni di persone.”