Cultura

Perché cresciamo col ‘mito’ della polizia, e come condiziona le nostre vite

polizia di stato

A quasi cinque anni, mio figlio Bruno è presissimo dalla polizia e dalle sue macchinette con la sirena. Il copione dei suoi giochi ha solitamente a che fare con un furto, una rapina o altri crimini, ma la conclusione è immancabilmente la stessa: i criminali verranno presi e sbattuti in prigione.

In fondo anche io sono cresciuto così. A Carnevale amavo vestirmi da poliziotto, andavo orgogliosissimo delle mie manette giocattolo e possedevo un set Playmobil di una squadra antisommossa.

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Essere circondato da giochi e prodotti culturali a tema poliziesco non mi ha di certo impedito di sviluppare da adulto una visione molto più complessa della questione. Eppure l’immagine della polizia romantica e ingenua con cui tantissimi di noi sono cresciuti è un tema che vale la pena indagare.

Visto che si parla da decenni dell’elemento diseducativo di molti giocattoli, perché non possiamo dire altrettanto di una narrazione che rende così affascinante arrestare, punire e reprimere?

Non sarà che attraverso questi giochi impariamo a guardare la società in modo quasi deterministico, per cui certe persone sono geneticamente portate a delinquere o hanno deciso volontariamente di stare dalla parte sbagliata—come se le disparità sociali, le disuguaglianze e le politiche neoliberiste o di austerity non avessero nessuna incidenza sulle vite e le scelte delle persone?

“Chi detiene il potere indirizza le nostre società a una visione decisamente fuorviante e limitata della criminalità,” mi spiega il ricercatore dell’Università di Bologna Simone Tuzza, criminologo specializzato nello studio della polizia.

Per lui la criminalità è un “prodotto orizzontale e si manifesta in tutte le classi, solo che alcuni tipi di crimini sono meno stigmatizzati—quelli economici o ambientali magari fanno più danni ma sono più accettati, anche perché a commetterli sono spesso persone socialmente ben inserite, e pertanto le loro azioni risentono meno dello stigma che invece accompagna chi delinque su uno sfondo di disagio sociale ed emarginazione.”

Tuzza aggiunge che, come qualsiasi organizzazione, anche le forze dell’ordine vogliono presentarsi nel modo migliore davanti al loro pubblico, che in questo caso è la società nel suo complesso. Ma quest’immagine impeccabile del proprio operato, ripulita di tutto ciò che potrebbe essere controverso, a mio parere contribuisce enormemente a una narrazione semplicistica da lotta del bene contro i cattivi, che nell’industria culturale è diventata ormai pervasiva.

Alyssa Rosenberg sul Washington Post qualche anno fa ha raccontato la nascita della storia d’amore tra Hollywood e la polizia, essenziale per la trasformazione della nostra psiche collettiva. Agli albori del cinema gli agenti erano spesso rappresentati come inefficienti e oppressori dei deboli—gli esempi di Charlie Chaplin e Buster Keaton sono tra i più celebri.

Nel secondo dopoguerra tutto cambia: l’industria cinematografica sigla quel patto faustiano ancora oggi sotto gli occhi di tutti. In cambio di vantaggi come autorizzazioni, permessi, l’accesso a mezzi originali o agenti come comparse, Hollywood permette ai dipartimenti di polizia di intervenire sulle sceneggiature.

Ciò che avrebbe dovuto garantire maggiore autenticità, nella pratica, ha reso universalmente popolare un racconto di comodo e reazionario. “Il risultato è l’assuefazione da storie in cui i commissariati appaiono più efficienti di quanto siano veramente, i crimini più frequenti che nella realtà e l’uso della forza continuamente giustificato,” ha scritto Rosenberg la scorsa estate in un altro articolo che criticava il supporto ipocrita a Black Lives Matter da parte della stessa industria culturale che ha reso popolare e affascinante la condotta tossica delle forze dell’ordine.

Non c’è bisogno di guardare la realtà statunitense per interrogarsi sui danni creati da queste narrazioni: dall’inquietante caso della caserma di Piacenza agli omicidi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e altri ancora, anche in Italia è difficile parlare dei problemi strutturali e sistemici delle nostre forze dell’ordine senza una levata di scudi.

Ogniqualvolta vicende simili finiscono sui giornali la parola d’ordine è minimizzare e ricorrere alla retorica delle mele marce,  mentre un’ampia porzione della società che si riconosce nelle reazioni di Matteo Salvini si affida a una narrazione che sembra presa da un film dell’ispettore Callaghan: gli agenti di polizia fanno un lavoro difficile e rischiano la vita ogni giorno, solo un sistema troppo liberal e soft coi delinquenti si sognerebbe di chiedere atto ai nostri eroi in divisa delle loro azioni. Se usano le maniere forti, lo fanno per il bene della società.

Secondo Tuzza, “gli stessi poliziotti sanno benissimo che per la maggior parte del tempo il loro è un lavoro d’ufficio anche abbastanza noioso. Ciò non significa che le forze di polizia non facciano un lavoro delicato e a volte pericoloso, ma bisogna stare nella realtà delle cose. Difendersi dalle accuse dipingendo il proprio impiego come rischiosissimo non favorisce un dibattito costruttivo.”

Un dibattito a cui le forze dell’ordine non sembrano granché interessate. “Non è detto che i problemi sistemici della polizia appaiano tali anche per chi lavora dentro queste organizzazioni,” dice il ricercatore. “Queste istituzioni sono storicamente restie a riforme strutturali e sono molto gelose dei loro meccanismi interni, ogni proposta di modifica o critica può essere interpretata come un attentato al loro funzionamento e le reazioni possono essere dure.”

Recentemente sto provando a prendere il discorso con mio figlio Bruno e decostruire alcuni miti sulla polizia. Secondo Tuzza è bene che i più piccoli imparino ad avere spirito critico anche su questioni così delicate: “si può benissimo insegnare che la polizia è utile per farci sentire al sicuro, senza dimenticare però che ogni organizzazione non è perfetta e ha i suoi limiti.”

Ho poche certezze al momento; e se mi chiedete dove sta il sottile confine tra far giocare i bambini in santa pace e aiutarli a capire le sfumature, non ho la risposta. Sono convinto però che quando evitiamo conversazioni scomode come queste, anche tra adulti, diventiamo parte del problema e favoriamo un clima culturale che rende alcune categorie di cittadini vulnerabili ad abusi quotidiani e discriminazioni da parte delle forze dell’ordine.