Música

Impara a crescere con i Mount Kimbie

È una di quelle mattinate d’agosto che ti fanno sperare in un pomeriggio di sole ustionante e Dom Maker—metà dei Mount Kimbie—è tranquillamente seduto in un’anonima zona industriale. Ma questa descrizione fa sembrare la situazione molto più seria e austera di quanto sia. Ve lo potreste immaginare da solo, su una sedia, in una stanza senza finestre, con lo sguardo perso in lontananza, circondato da pareti di cemento; ma in realtà mi sta semplicemente aspettando dentro uno dei tanti studi di registrazione e sale prove che si trovano in questo reticolo di magazzini a nord di Londra. Scendi dall’overground a Seven Sisters, sorpassa i minimarket con le tende parasole ricoperte di grigiume da smog e ti ritroverai su una strada evidentemente fatta più per il traffico su ruote che per i pedoni. La carreggiata va ampliandosi mentre il marciapiede si restringe, grossi camion sfrecciano barcollando sull’asfalto pieno di buche e la stazza degli edifici qua attorno—una ditta di smaltimento rifiuti, una falegnameria, un ingrosso di tappeti più avanti—appare immediatamente maggiore. Dico un’ovvietà: è facile sbagliarsi, e nessuno penserebbe mai “ah, certo, qui sarà pieno di creativi che fanno grande musica”.

Eppure ci sono due caffetterie dall’aria lussuosa a pochi passi, dall’altra parte della strada, con tanto di lampioncini, cartelli della metropolitana finti e piante da vaso. E suggeriscono l’esistenza di anfratti pensati non solo per ospitare il ronzio di enormi macchinari. “Questo posto è assurdo”, mi dice Dom, appena entrati nello studio che lui e il suo compagno di band Kai Campos hanno da poco cominciato a usare. “Ci sono circa cinquanta studi qua, dietro di noi, e continuiamo a incontrare gente a caso. L’altro giorno abbiamo visto Big Narstie, e poi uno dei membri dei JLS [una boy band britannica, ndt]“. Ride. “Sono persone che non c’entrano nulla le une con le altre! E poi ci sono i ragazzi di PC Music, c’è Gold Panda, c’è Julio Bashmore. Non sono mai stato qua di sabato, ma a quanto mi dicono è incredibile: c’è un club, un bar, e ci sono tutti gli studi. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Tutto in questa vietta a cui non daresti due soldi”. Adesso mi sento meno solo con i miei pensieri.

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È qua che i Mount Kimbie hanno creato la maggior parte di Love What Survives, il loro nuovo album, in un altro studio dietro l’angolo. E ce l’hanno fatta nonostante vivessero, e vivono tuttora, dai lati opposti dell’oceano. Nei quattro anni passati dall’uscita del loro secondo album, Cold Spring Fault Less Youth, infatti, Dom si è trasferito a Los Angeles per vivere con la sua ragazza mentre Kai è rimasto a Londra. Ma non è stato un grande problema, dato che siamo nel 2017 ed esiste internet. “Penso sia una di quelle cose che vengono messe nei comunicati stampa perché sembrano un bel particolare da raccontare”, mi dice Kai, “ma per noi non è stato poi quel grande salto. Però ne vogliono parlare tutti”, aggiunge, con una risata. A parte essere un’esca per giornalisti, la loro collaborazione transatlantica è stata per entrambi un’opportunità per lasciarsi andare. Dom e Kai hanno lavorato a vari pezzi in maniera autonoma, mandandosi parti, sample e bozze, e hanno poi cucito assieme il tutto nei momenti in cui potevano incontrarsi di persona.

Quella che è venuta fuori è la musica più “organica” che i Mount Kimbie hanno mai composto—a renderla tale, soprattutto, sono la batteria suonata live da Marc Pell di Michachu and the Shapes e il pianoforte traballante di “How We Get By”. Se i loro primi due album erano un pre-serata e una serata, Love What Survives è un after rilassante, tiepido e confuso. A cantarci sopra, e quindi a metterci le emozioni, sono Mica Levi, James Blake, Archy Marshall—aka King Krule—e il loro collaboratore Andrea Balnency. Le loro voci prendono il posto dei sample tagliati e incollati che i Mount Kimbie avevano tanto usato in passato, e il risultato è qualcosa di profondamente intimo: a differenza di Cold Spring o Crooks & Lovers, Love What Survives ti sussurra, o ti ruggisce, direttamente nelle orecchie.

Molta di questa energia nasce dalle collaborazioni dell’album. L’esempio migliore è il loro pezzo con King Krule, “Blue Train Lines”: Dom mi racconta che è nato nel mezzo della notte. “C’erano diverse versioni dell’idea dietro a quel pezzo. Nel momento in cui è nata quella definitiva, la principale era un loop di un minuto. Kai si è trovato con Archy, gli ha fatto sentire un po’ della roba a cui stavamo lavorando e lui ha scelto quella per provare a cantarci qualcosa. Una notte, verso le quattro, le cinque del mattino, a Kai è arrivata una nota vocale da Archy, ed era lui che gridava con il pezzo in sottofondo. Grida pure. Ovviamente il primo pensiero che abbiamo avuto è stato “…ok, quando puoi venire in studio?” Dom esplode in una risata. “Quando possiamo registrarla? L’impressione che ci ha fatto è quella di un tizio che entra in una stanza, tira fuori una montagna di cose che gli pesano addosso e ne esce un po’ più leggero”.

Fotografia di Frank Lebon

Kai ha ancora quella nota vocale. “Eravamo andati a bere una cosa dopo essere stati in studio quando mi è arrivata. Sembrava un po’ incoerente, sul momento, ma quando l’ho riascoltata mi sono reso conto che aveva la stessa potenza del pezzo che alla fine ci è uscito”. Non è difficile immaginare Archy gridare alcune barre del testo—” Avrei potuto annegarla / Mi sono segnato il suo numero di targa / E sì, potrei avere visto ogni cosa“—nel microfono di un telefono mentre torna a casa, bagnato dalla pioggia. Archy aveva già registrato un pezzo con i Mount Kimbie per il loro ultimo album, ma l’atmosfera che permea questo nuovo disco è molto più calda e soffice. La voce di Mica su “Marilyn” è particolarmente luminosa, e si rifrange tra i synth e i piatti che si scontrano in “Delta”. Ci sono momenti più downtempo, ma sono più simili a divani sonori su cui ti viene voglia di adagiarti più che suggerimenti di tensione. È un album che, a mio avviso, suona ottimista, riflessivo e maturo.

Per raggiungere questo suono, i Mount Kimbie—dice Don—hanno eliminato tutto ciò che suonava superfluo. Sottolinea “la semplicità di un beat che potrebbe andare avanti per sempre”, e spiega che lui e Kai non hanno fatto altro che “riempire lo spazio che lo circondava.” “Volevamo creare dei beat semplici”, dice, “e poi vedere quello che saremmo riusciti a crearci attorno. Il che ti obbliga a credere davvero alla tua idea di melodia, e ti impedisce di ricoprire tutto di riverbero, giocare con i delay e usare i trucchi del mestiere. È stato tutto piuttosto diretto: ‘crediamo in questa musica, e vogliamo farla esattamente come ce l’abbiamo in mente’.” Dom è il primo ad ammettere di non essere sempre stato così sicuro delle sue stesse idee. Quando era più giovane la musica gli sembrava solo un hobby: i suoi genitori sono entrambi professori e la sua famiglia è “molto fissata con il mondo accademico”, mi dice. “Tutto è iniziato perché Kai voleva che cantassi su alcuni dei suoi pezzi. Quando ci siamo incontrati per la prima volta avevo 19, 20 anni. Anche lui non credeva poi tanto in quello che stava facendo, anche se produceva da anni. Penso sia per questo che siamo finiti a fare musica assieme—nessuno di noi era abbastanza sicuro di sé da farlo da solo. Ci facevamo troppi dubbi su come e se fare quel passo in più verso il pubblico.”

Dom e Kai, però, si resero conto che le loro capacità erano complementari. Dom non è un musicista particolarmente tecnico, ma usa il suo orecchio per capire a tentoni come gestire le canzoni. Kai, invece, ha studiato musica fin da piccolo; suo padre, inoltre, suona il sassofono e la chitarra. “Ho sempre avuto la musica nelle orecchie”, mi dice. “Scrivevo anche da bambino, facevo delle canzoncine con la chitarra. È una cosa che mi porto dietro da sempre”. Kai viveva in Cornovaglia, in un piccolo paesino in campagna, dove aveva un insegnante di strumento che vedeva regolarmente e degli amici con cui suonava in un gruppo.

“Il mio insegnante mi ha insegnato come fare a registrare in analogico con un multitraccia”, ricorda. “Quando mi fece vedere che si poteva riavvolgere il nastro e registrarci sopra un altro strumento mi presi subito bene. Più che suonare, mi piace l’idea di creare qualcosa di fisico che puoi riascoltare. Non appena me ne sono reso conto ho cominciato a far sul serio. Ho smesso di interessarmi allo strumento e mi sono concentrato su tutto il resto.” Ed è da qua che viene il gusto dei Mount Kimbie per i sample e i field recording, gli elementi alla base delle loro melodie.

Da soli, Dom e Kai potrebbero non avere mai raggiunto il loro livello di fama: vanno in tour con regolarità, hanno dei fan fedeli e un suono che possono chiamare “loro”. Insieme, invece, è venuto tutto in modo naturale. I Mount Kimbie sono usciti da una scena che, attorno al 2009, veniva chiamata “post-dubstep” e ora si è trasformata in qualcosa di interamente diverso. Dom pensa ci sia un parallelo tra ciò che fa il suo duo e il modo in cui si è evoluto il pensiero di James Blake, anche lui inserito dai media nella stessa scena in quegli anni: “James pensa in modo simile a noi, ha cominciato a lasciarsi dietro l’ansia tipica della gioventù e ora sta celebrando la libertà mentale che ha scoperto di avere.”


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Ed è questa la chiave di lettura dell’album. A differenza di Cold Fault, che per Dom “suona davvero incompiuto”, Love What Survives è un album che vuole scendere a patti con l’identità dei suoi creatori, e raccontare le relazioni e le transizioni che li hanno resi le persone che sono oggi. È il suono del cambiamento che molti passano tra i tardi vent’anni e i primi trenta, quando cominci a mettere da parte gli eccessi e trasformarli in una quotidianità meno frenetica, ma non per questo meno gioiosa. Lo suggeriso a Dom, e lui ci pensa mentre si gratta la barba. “Sì, penso che sia esattamente il punto in cui siamo nelle nostre vite”. Si prende una lunga pausa. “L’età comincia lentamente a farsi sentire; ci vogliono tre giorni per riprendersi da una sbronza invece che uno”, dice, con una risata di pancia. “Posso solo parlare dalla nostra prospettiva, ma penso che invecchiando abbiamo trovato un certo senso di pace. Probabilmente si sente nella musica che facciamo. Non so, quando sei giovane—almeno per me—provi a essere la persona che vorresti essere. E per un bel po’ i Mount Kimbie sono stati esattamente questa cosa, per noi. Invecchiando accetti la persona che sei. Puoi quasi definire tutti i nostri album in base agli anni che avevamo quando sono stati scritti”.

La vera versione di te stesso si palesa quando ti lasci dietro qualsiasi pretenziosità, quando abbandoni le parti della tua personalità che avevi creato per soddisfare le aspettative altrui. Se ogni tanto ripensate al modo in cui venivate trattati dai vostri amici da ragazzini, alle idee che avevate da adolescenti, ai confini che avete lasciato oltrepassare alle persone che avete conosciuto, vi riconoscerete in Love What Survives—un album che vuole zittire il rumore per liberare quei suoni da cui puoi trarre nutrimento. Parlo a Dom di una cosa che mi disse una volta mia zia, quando avevo da poco compiuto vent’anni: “Vivi la tua vita per te stesso, e alla fine riuscirai a volerti bene. Quello che può sembrare egoismo può essere il motivo della tua salvezza”. “È esattamente quello che volevamo dire con il titolo del disco”, mi risponde Dom. “Lungo la strada perdi un sacco di cose—un sacco di parti di te—e alla fine ti innamori di ciò che rimane. Ti innamori di ciò che sopravvive”.

Love What Survives è fuori ora su Warp Records.

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