“Non c’è un pianeta B / Apri gli occhi, renditene conto”
– King Gizzard & The Lizard Wizard
Uno dei cartelli più in voga alle manifestazioni per il cambiamento climatico va dritto al punto e recita “There is no planet B”. Non c’è dubbio che “Siamo in 7 miliardi e siamo in Massimo Pericolo” sia più accattivante, ma a volte per colpire la mente e la pancia di chi legge è meglio dire una cosa semplice e vera: abbiamo solo questa Terra, e se continuiamo a rovinarla alla lunga moriremo tutti una terribile, terribile morte. O almeno, chi non è estremamente ricco.
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Nessuno sarà del tutto al sicuro quando, come dicono in inglese, la merda colpirà il ventilatore; ma i poveri saranno quelli che soffriranno prima e di più. Poi magari chi avrà un sacco di soldi potrà prendere una navicella spaziale e fondare una colonia su Marte mentre la Terra brucia, no? Perché è proprio di questo che parla il nuovo disco di un gruppo di australiani pazzi che si chiama King Gizzard & The Lizard Wizard, una delle poche band che sanno ancora usare le chitarre per fare cose fighe e innovative per un pubblico ampio.
“Marte è per i privilegiati, la Terra è per i poveri / Marte, lentamente, si terraforma / La Terra è stata deformata”
Tutto il disco, che si chiama Infest The Rats’ Nest, è attraversato da un senso di disperazione ambientale. Un ragazzo senza un soldo resta sulla Terra inquinata a ingrassarsi di birra mentre, in cielo, i ricchi si costruiscono un nuovo pianeta. Allevamenti intensivi generano orde di mucche deformi mentre “l’arrogante essere umano strappa arti dal mondo”. Nel sozzume del bestiame gonfio di medicine i virus imparano a resistere agli antibiotici, così da finirci tutti una volta per tutte. E questo solo nel lato A del disco; nel secondo, un gruppo di ribelli viene scacciato dal pianeta e cerca di salvarsi colonizzando Venere. Non finisce bene.
“Passo un sacco di tempo a pensare al futuro dell’umanità e a quello del Pianeta Terra. Naturalmente questi pensieri entrano nei testi”, ha dichiarato il loro frontman Stu MacKenzie parlando del disco, che è la cosa più violenta e pesante che i King Gizzard hanno mai fatto. Hanno sempre parlato della fine del mondo, ma attraverso il filtro della fantascienza. E l’ambiente era già entrata nei loro testi recenti, nello specifico dalla prospettiva degli animali—“Fishing For Fishies” parlava di quanto fosse un peccato pescare, “Acarine” era cantata dalla prospettiva di un’ape malata. È la prima volta, però, che la crisi climatica diventa il tema portante di un loro disco.
Che poi, “loro”—un po’ di chiunque. Perché la crisi climatica è una di quelle cose davvero difficili da concepire e accettare. È vera, sappiamo da decenni che c’è, ma solo ora che il tempo si fa sempre meno e figure come Greta Thunberg è entrata con prepotenza nelle nostre coscienze e nella discussione pubblica. Abbiamo incominciato a renderci conto tutti dell’impatto che tutto ha sul nostro pianeta, dal modo in cui ci spostiamo ai vestiti che mettiamo alle cose che mangiamo. E anche internet stesso, e quindi—per restare in tema—quello che ascoltiamo in streaming, i video che guardiamo su YouTube, questo articolo che state leggendo.
Essendo una cosa enorme ma complessissima, divisiva e invisibile, il cambiamento climatico sfugge all’immediatezza del testo di una canzone di protesta. È qualcosa di più inaccessibile della guerra in Vietnam nel 1968, dell’apartheid in Sud Africa, della mafia in Sud Italia—ma paradossalmente è vicinissimo a tutti noi, anche se solo in prospettiva. In guerra magari non ci andrai mai né tu né i tuoi figli, ma con la crisi climatica a un certo punto dovrai averci a che fare. E quindi è più difficile parlarne e scriverne: dalle tragedie si tirano fuori i capolavori, certo, ma è molto più difficile chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e fuggire dai problemi.
Dalle tragedie si tirano fuori i capolavori, certo, ma è molto più difficile chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e fuggire dai problemi.
Escludendo le canzoni vagamente ambientaliste residue del folk dei decenni passati e le operazioni di beneficienza, c’è una grande penuria di musica che cerca di trovare un modo per riflettere la realtà della crisi climatica. Il rischio è di fare cose come “Domani” degli Artisti Uniti per l’Abruzzo: cose che fanno bene al mondo ma davvero, davvero cringe. Ci è cascato da poco il rapper e comico Lil Dicky, che ha fatto un pezzo per salvare la Terra che si chiama “Earth” ed è roba da film della Disney, se nei film della Disney ci fosse Justin Bieber che si paragona a un babbuino dicendo di essere “come un uomo, ma con il buco del culo più largo”. È davvero brutto.
Non sono brutti invece i pezzi dei King Gizzard, come quelli di altri artisti di prim’ordine che negli ultimi anni hanno provato a parlare del mondo invece che d’amore, baci, del sole, del mare e del vento fresco dell’estate. Una è ANOHNI, già Antony Hegarty, che in HOPELESSNESS è riuscita a rendere capolavori di pop elettronico d’avanguardia cose molto complesse come l’ottusità di chi minimizza l’impatto del riscaldamento globale sulle nostre vite, la brutale divisione tra esperienza umana contemporanea e natura, il senso di colpa e di impotenza di chi si sente responsabile del degrado del mondo—donna malata di cancro, nel testo della conclusiva “Marrow”.
Come hanno notato i nostri colleghi americani in un pezzo simile a questo ma che non, Björk sta parlando della crisi climatica senza parlare della crisi climatica almeno da un paio di album, Biophilia (“Amore per la vita”) e Utopia. I suoi testi vanno un po’ in tutte le direzioni ed è difficile trovare al loro interno un messaggio chiaro, ma l’amore per il pianeta e la natura è una calda luce che pervade tutta la sua opera—e diventa palese in “Náttúra”, pezzo cantato in islandese con Thom Yorke come ospite, altro musicista che scrive testi che c’entrano con l’ambiente senza dirlo esplicitamente da anni. Andate a rileggervi i testi di “Idioteque”, “2+2=5” e “Bloom“, se non ve ne siete mai accorti.
Un conto però è fare canzoni che parlano dell’ambiente, un conto è farle sulla crisi climatica. C’è una lunga lista su Wikipedia di canzoni il cui messaggio è “salviamo la Terra” o “la Terra sta andando in vacca”, ma la stragrande maggioranza è stata scritta in un tempo diverso dal nostro. Non c’è un momento preciso in cui il clima si è palesato in tutta la sua incomprensibile immensità, ma sicuramente è ora. Già nel 1991, per dire, i Megadeth facevano un conto alla rovescia per l’estinzione; già nel 1984 gli Iron Maiden scrivevano dell’orologio che segna l’apocalisse. Ma oggi “estinzione” e “apocalisse” hanno un significato diverso, più vicino e inquietante. E quindi scriverne è più difficile, fastidioso.
Oggi “estinzione” e “apocalisse” hanno un significato diverso, più vicino e inquietante. E quindi scriverne è più difficile, fastidioso.
La soluzione? Ce ne sono tre, principalmente. Dimenticarsi dei problemi e scrivere di cazzate è una, la più semplice. Prendersi male e cantare il proprio intimo in mezzo al mondo che brucia è un’altra, ed è sicuramente potente per il suo potenziale evocativo e distruttivo—”Siamo sette miliardi, frega un cazzo degli altri”, insomma. L’ultima, la più difficile ma per questo la più bella, è trasformare la crisi climatica nel sangue della scrittura, buttare su una pagina e in una canzone le paranoie e le preoccupazioni che tutti, in un modo o nell’altro, proviamo per provare a trovarci un senso, sentirci meno soli.
Ah, oppure possiamo fare la versione metal del discorso di Greta Thunberg alle Nazioni Unite e devolvere i proventi in beneficienza. Non sarà una gran cosa a livello artistico, ma almeno un minimo di bene lo fa.
I King Gizzard & The Lizard Wizard suoneranno dal vivo il 15 ottobre all’Alcatraz di Milano.
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