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Cosa resta dello sgombero di Ponte Mammolo

A dieci giorni dallo sgombero di uno dei più grandi insediamenti abusivi di Roma siamo tornati nella zona per parlare con i volontari e con chi è rimasto lì, senza casa, senz'acqua e senza sapere cosa succederà.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Foto di Pierluigi Amato e Paolo Cenciarelli/D.O.O.R.

Dei ragazzi giocano a pallone in uno spiazzo, circondati dalle aiuole e dai palazzi della periferia a nordest di Roma. Altri uomini giocano a carte sotto un gazebo improvvisato. Le macchine passano al lato del parcheggio, ci entrano ed escono; a qualche centinaio di metri di distanza, invece, c'è la stazione della Metro B di Ponte Mammolo. Sembrerebbe un pomeriggio qualsiasi in una zona della capitale lontana dal centro—se non fosse che, in realtà, la situazione è tutt'altro che ordinaria.

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Basta guardarsi attorno per rendersene conto. Di fronte al parcheggio, in via delle Messi d'Oro, c'è un grosso cumulo di macerie perimetrato da transenne e cartelli che recitano: "Vietato l'ingresso ai non addetti ai lavori." La distesa di lamiere è ciò che resta di uno dei più grandi insediamenti abusivi della Capitale, formatosi spontaneamente più di dieci anni fa e sgomberato con la forza l'11 maggio 2015.

È in quella mattina che la polizia municipale e le forze dell'ordine si sono presentate all'ingresso della baraccopoli—a sorpresa. Come infatti ha riportato Repubblica, alle 9 ancora "c'era chi faceva la doccia in bagni improvvisati e chi si faceva stirare i capelli dal parrucchiere, segno che non tutti sapevano dell'imminente sgombero."

A riprova della mancata notifica da parte delle autorità, in un comunicato dell'associazione Medici per i diritti umani (MEDU)—che insieme ad altre associazioni seguiva la situazione da tempo—vengono citate le parole di una signora ucraina: "Un po' di giorni fa, alcune persone del Comune ci hanno solo detto che prossimamente avrebbero smantellato la baraccopoli e che tutti saremmo stati inseriti in percorsi abitativi concordati. Sui tempi però sono stati vaghi dicendoci che ancora non c'erano certezze. Ora mi sembra di essere una profuga di guerra!"

Sempre secondo le cronache, inoltre, un gruppo di migranti ha cercato di bloccare la strada per impedire alle ruspe di passare sopra alle abitazioni. Gli agenti in assetto antisommossa hanno caricato e fermato uno dei ragazzi che protestava. Durante l'"operazione di bonifica," una vigilessa ha riportato "un taglio profondo ad una gamba a causa di un coccio di bottiglia" e si è fatta poi medicare all'ospedale Pertini.

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Questa resistenza improvvisata non ha però sortito alcun effetto, e le ruspe hanno demolito le baracche e quello che c'era dentro. Nell'insediamento di Ponte Mammolo, visitato lo scorso febbraio da Papa Francesco, al momento dello sgombero si trovavano circa 400 persone tra eritrei, sudamericani, ucraini, rom e migranti di diverse nazionalità. Molti di loro non hanno avuto il tempo di portare via documenti ed effetti personali.

Per quanto la situazione nel "campo" fosse già estremamente critica prima dello sgombero, le modalità di quest'ultimo non hanno fatto altro che aggravare la situazione. Dopo lo sgombero, 174 persone sono state "sistemate" nel centro policulturale Baobab di via Cupa—lo stesso, per intendersi, in cui si tenne la famigerata cena con Alemanno, Buzzi, Poletti e Casamonica. Altri rifugiati e richiedenti asilo si sono spostati in giro per la città. Un centinaio di persone, invece, è rimasta a dormire nel parcheggio in via delle Messi d'Oro: inizialmente sull'asfalto, in seguito in tende recuperate da associazioni e regalate da Decathlon.

A più di dieci giorni dallo sgombero, per strada ci sono tra le cinquanta e le ottanta persone, assistite da diverse associazioni di volontariato, centri sociali e strutture della Chiesa. Anche gli abitanti del quartiere hanno dato una mano, ma hanno fatto notare che—nel caso in cui la permanenza nel parcheggio dovesse prolungarsi—la pazienza potrebbe esaurirsi.

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Una parte di chi è rimasto lì, comunque, è formata dagli stanziali del campo, tutti titolari di protezione internazionale; un'altra dai transitanti, che non vogliono andare in un centro per il rischio di essere identificati. Non è vero, stando a quanto dichiarato dal ministro Maria Elena Boschi, che "l'occupazione della piazza antistante […] non ha alcun collegamento con lo sgombero." Come mi dice Federica Nunzi di Prime Italia, associazione impegnata da tempo nell'assistenza dei rifugiati e richiedenti asilo di Ponte Mammolo, "loro abitavano tutti nel campo, e sotto quelle macerie c'è la loro vita."

La stessa volontaria definisce la situazione, dallo sgombero a oggi, come drammatica. "Manca tutto. Mancano i servizi basilari, in primis i bagni: ci sono quattro bagni dell'Atac ma non c'è l'acqua, e comunque non sono accessibili. Sono stati chiesti dei bagni chimici ma non ci è stato accordato il permesso per evitare situazioni di stallo. Questo è un problema grave sia a livello igienico che psicologico. Com'è facile intuire, dopo lo sgombero le persone psicologicamente sono a pezzi, e anche dover rinunciare alla propria intimità non è una cosa da sottovalutare."

La decisione di sgomberare, mi spiega sempre Nunzi, ha "interrotto qualsiasi percorso di inserimento, e in più ha ulteriormente demotivato le persone, perché oltre a tutti i drammi personali che hanno passato e la condizione in cui vivevano, si sono visti portare via quello che avevano senza rispetto per le loro vite e per tutto quello che rappresentava questo posto."

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Tra chi si ritrova provvisoriamente a vivere in questo parcheggio, la stanchezza—anche per l'esposizione mediatica—è palpabile. Riesco a parlare solamente con Kibrom, un rifugiato eritreo in Italia dal 2005 che viveva nell'insediamento. Negli anni scorsi ha fatto un po' di tutto, dal lavorare nello smaltimento rifiuti, al mediatore culturale fino all'assistenza infermieristica privata, senza mai trovare un'occupazione stabile.

Questi giorni, mi racconta, "non sono stati semplici, al sole, al vento e tutto quanto. Vivere in questa maniera non è tollerabile: prima di sgomberare bisognava avere delle soluzioni. Non eravamo contenti di stare lì, ma almeno c'era qualcosa." Ora, continua Kibrom, non resta che sperare: "In un cambiamento, in un inserimento lavorativo, in un'iniziativa di integrazione."

Dopo aver parlato con Kibrom mi avvicino al camper di Medu, dove i medici stanno assistendo i migranti. Nel frattempo, arrivano macchine e furgoncini che portano la cena nel centro del piazzale, dove viene allestita una specie di mensa mobile.

La dottoressa Gemma Ciccone ha appena finito una visita, e io le chiedo di spiegarmi la situazione sanitaria degli sfollati rimasti a dormire per strada. "Alcune condizioni sono peggiorate perché c'è solo una fonte d'acqua, non esiste una doccia e c'è solamente un bagno, anche se è mantenuto pulito dalle persone che stanno qui. Per cui i casi di scabbia stentano a passare, perché oltre a essere curata con le medicine servono cambi di vestiti e igiene personale, che qui è molto difficile." Nonostante tutto, le persone "stanno bene" e non ci sono "malattie gravi."

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La posizione della dottoressa—e più in generale di MEDU—sullo sgombero è estremamente critica. "Questo posto, pur nelle carenti condizioni igieniche in cui vivevano, dava una dignità alle persone che vivevano da oltre dieci anni e a quelle che venivano accolte. Ora vivono sicuramente peggio di quanto vivevano nella loro baracca."

A questo proposito, c'è ancora parecchia incertezza sulle soluzioni prospettate dal Comune. Il 20 maggio, l'Assessorato di Roma alle politiche sociali, guidato da Francesca Danese, ha fatto sapere che le persone che si trovano ancora nel parcheggio "verranno trasferite in strutture abitative di semiautonomia, invece che in centri di accoglienza." Lo spostamento dovrebbe essere attuato entro questa domenica.

A livello politico, tuttavia, a tenere banco è il rimpallo di responsabilità tra l'assessore Danese e il nuovo prefetto di Roma, Franco Gabrielli. Il 16 maggio, la prima ha spiegato che lo sgombero era previsto da tempo perché "la situazione igienico-sanitaria del campo era diventata insostenibile." Tuttavia, l'ordine non è partito da lei: "Non avrei potuto farlo, c'è un comitato per la sicurezza, presieduto dalla prefettura e dentro ci sono diversi attori, certamente io non posso ordinare le ruspe."

Tre giorni dopo queste dichiarazioni, il prefetto di Roma ha detto che lo sgombero "è stato preparato per tempo dall'assessore Danese, solo che invece di 80 persone censite ne sono state trovate molte di più e 184 sono state poi assistite." Gabrielli ha anche aggiunto che "è una mistificazione dire che lo sgombero ha solo spostato il problema."

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Insomma, nessuno vuole prendersi la responsabilità. E quello che è successo a Ponte Mammolo, del resto, ripropone con forza un interrogativo che già mi ero posto dopo un'altra serie di sgomberi effettuati qualche mese fa: chi governa davvero la città di Roma? Il comune o la prefettura? Il Campidoglio o la questura?

La sensazione è che la questione degli spazi pubblici a Roma—tra cui ci possono essere occupazioni a vario titolo, insediamenti abitativi e informali di migranti, e quant'altro—venga gestita seguendo esclusivamente una logica di ordine pubblico. Non è un caso, infatti, che l'amministrazione comunale caschi dalle nuvole, o non possa far altro che manifestare la propria impotenza di fronte a decisioni già prese in altre sedi.

Proprio nei giorni scorsi, l'associazione 21 Luglio ha affermato che da quando è stato annunciato il Giubileo straordinario, a Roma si è passati da "due sgomberi al mese a uno ogni due giorni," e che 30 delle 84 operazioni portate a termine sotto la giunta Marino sono state effettuate negli ultimi due mesi.

Dal canto suo, il Dipartimento delle politiche sociali ha negato un "effetto Giubileo" sugli sgomberi, ma ha sostanzialmente ammesso che a Roma la confusione istituzionale è all'apice: "Ciascuna di queste operazioni risponde a logiche diverse ma convergenti di restituzione della dignità e di ripristino della legalità. […] Alcune sono state decise dalla Prefettura, altre stabilite dai municipi e, di conseguenza, hanno richiesto l'intervento […] dell'assessorato e del Dipartimento delle Politiche sociali."

Nel caso di Ponte Mammolo, il problema della governabilità della città si unisce ai problemi di un sistema d'accoglienza cittadino che è stato fortemente provato sia dalle varie proteste in stile Tor Sapienza—che continuano ad accendersi in periferia e nei comuni limitrofi—sia soprattutto dallo scandalo di Mafia Capitale, che ha comportato commissariamenti e la perdita di ogni credibilità.

Il risultato è sotto agli occhi di tutti: decine e decine di persone si sono viste abbattere la propria abitazione per poi essere costrette a dormire per strada, senza potersi lavare e senza avere la più pallida idea di quale potrà essere il loro destino.

Ponte Mammolo, alla fine, è davvero una colossale sommatoria di disfunzionalità—il prodotto di una situazione in cui le istituzioni sono evanescenti, le ruspe anticipano le soluzioni sociali e politiche, l'assistenza è su base volontaria e l'Europa è semplicemente un simbolo sbiadito sulle targhe delle automobili parcheggiate.

Segui Leonardo su Twitter: @captblicero