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Ho scoperto di essere superdotato a 23 anni

"Penso che lei sia plusdotato." Un anno fa mi sono sentito rivolgere queste esatte parole. Avevo deciso di iniziare le sedute nella speranza di risolvere i miei problemi di ansia cronica, ma non mi ero preparato a questa ipotesi.
Tutte le immagini via Wikimedia Commons.

"Penso che lei sia plusdotato." Un anno fa, durante una seduta dallo psicologo, mi sono sentito rivolgere queste esatte parole. Avevo deciso di iniziare le sedute quattro mesi prima, nella speranza di risolvere i miei problemi di ansia cronica e i disturbi del sonno che ne derivavano. Ma non mi ero preparato a questa ipotesi.

La mia sola reazione fu di evitare il problema. Sapevo che la persona che avevo davanti non avrebbe mai pronunciato questa frase a caso, con l'unico intento di osservare la mia reazione. Tuttavia, non riuscivo a crederci. "Non è possibile," risposti lasciandomi sfuggire una risatina stupida. Per avvalorare la mia ipotesi, presi ad esempio il mio percorso scolastico: anche se non era stato una via crucis, era ben lontano da testimoniare una qualche forma di genialità. Per me, i dotati erano i primi della classe, quelli che anno dopo anno continuavano a riempire i banchi della Normale o di Sciences Po.

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La psicologa non tardò ad affossare questo cliché. No, una persona con un "alto potenziale intellettivo" non è un essere onnisciente che ha una risposta per tutto. Non parliamo nemmeno di una persona "più intelligente", ma il cui funzionamento è "qualitativamente diverso". In psicologia, mi dicevano gli opuscoli che consultai all'epoca, il termine designa una persona "ipersensibile", "iperemotiva", che si interroga continuamente ed è spesso soggetta a disturbi d'ansia dovuti a una significativa attività cerebrale. Lungi dall'essere i primi della classe, più di un terzo dei bambini plusdotati si trova in situazioni di dispersione scolastica a causa di un funzionamento poco conforme alle aspettative della pubblica istruzione.

Come mi confessò in seguito la psicologa, la mia empatia, il mio cercare costantemente la parola giusta per esprimere il miei pensieri—questo approccio quasi amorevole con l'assurdo—erano alcuni dei segni che l'avevano indirizzata verso la diagnosi. Anche il fatto di aver imparato a leggere in età precoce aveva avuto una sua rilevanza. Alquanto scettico, uscito dalla seduta passai dalla biblioteca per prendere in prestito Trop intelligent pour etre heureux? di Jeanne-Siaud Facchin, considerata l'opera francese di riferimento nell'analisi delle nevrosi collegate a un alto potenziale intellettivo.

Nonostante il titolo altisonante, sfogliai con attenzione le pagine del libro nel tentativo di fare un confronto tra le descrizioni offerte e la mia personalità. In particolare, scoprii che ciò che chiamiamo "plusdotazione" interesserebbe circa il due percento della popolazione francese. L'argomento non era, come pensavo, un capriccio degli specialisti di psicologia bisognosi di temi di forte impatto: le neuroscienze avevano permesso di individuare a livello neurologico una serie di caratteristiche proprie dei superdotati.

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Da un punto di vista cognitivo, l'elaborazione delle informazioni sarebbe più veloce, permettendo ai plusdotati di prendere in considerazione un elevato numero di informazioni in uno stesso momento per arrivare alla soluzione di un problema. Lo chiamano "pensiero arborescente". Il guaio è che talvolta questo particolare funzionamento complica il processo di scelta e di prioritizzazione delle informazioni, portando in alcuni casi a una sensazione di estrema confusione. Aggiungeteci un'emotività esasperata e otterrete una formula propizia allo sviluppo di un'ansia diffusa ma tenace.

Di fatto, le teorie di Jeanne Siaud Facchin mi offrirono una nuova prospettiva e io iniziai a prendere molto sul serio l'ipotesi suggerita dalla psicologa. La speranza di poter finalmente dare dei nomi concreti alle mie difficoltà, di poter spiegare ai miei familiari le ragioni per cui a volte mi comportavo in maniera strana—erano queste cose a spingermi a voler fare chiarezza. Ma se la lettura di un opuscolo può portare a formulare delle ipotesi, la conferma può arrivare solo attraverso un test del quoziente intellettivo in grado di verificare, o meno, la "plusdotazione".

Ci sono due modi per fare questo test: o rivolgendosi direttamente a un professionista qualificato, oppure attraverso un ente come il MENSA, un'organizzazione internazionale che riunisce le persone dotate. Fare questo passo ha un costo variabile e non è rimborsato dall'assicurazione. In altre parole, è meglio essere sicuri del proprio movente prima di farlo. Esistono svariati test d'intelligenza, su internet e nelle riviste, ma non hanno alcun valore a livello scientifico. Si tratta solo di passatempi alla stregua dei test per scoprire "quale principessa Disney sei".

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A maggio mi misi in contatto con un altro psicologo abilitato al WAIS-IV. Il Wechsler Adult Intelligence Scale è stato sviluppato dall'americano David Wechsler nel 1955, permette di misurare il QI negli adulti ed è l'unico test riconosciuto a livello mondiale. Nel corso dei decenni ci sono stati vari aggiornamenti, e dal 2011 in Francia si utilizza la quarta versione.

Il test è preceduto da un primo colloquio per permettere al professionista che lo esegue di constatare se ne valga effettivamente la pena. Il WAIS-IV è un esame piuttosto grosso, perciò l'idea del colloquio preliminare non mi dispiaceva affatto. Il test in sé dura circa due ore e si compone di quattro parti corrispondenti alle quattro scale utilizzate per calcolare il QI totale: l'indice di Comprensione Verbale (ICV), l'indice di Ragionamento Visuo-Percettivo (IRP), l'indice di Memoria di Lavoro (IML) e l'indice di Velocità di Elaborazione (IVE). A ognuna di queste scale corrispondono dei "sottotest" che sono di fatto degli esercizi che assegnano un punteggio. Una persona viene considerata dotata di un alto potenziale intellettivo a partire da un QI pari o superiore a 130. Per farvi un'idea, si stima che in Francia il QI medio sia di circa 100.

Tra tutti gli esercizi, quelli che mi colpirono di più furono l'esercizio dei cubi e quello della memorizzazione dei numeri. Nel primo bisogna riprodurre una costruzione a partire da un modello stampato su carta utilizzando dei cubi bicolore. Nel secondo, ti viene data una serie casuale di numeri a voce e il compito consiste nel ripeterla in ordine crescente o decrescente, a voce alta. Naturalmente gli esercizi vengono cronometrati e il punteggio dipende non solo dalla capacità di riuscire nell'esercizio, ma anche nel riuscire nel più breve tempo possibile.

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Di fatto, tutti questi esercizi sono mentalmente molto faticosi a causa del livello di concentrazione e di sforzo richiesto. Al termine del test mi fu dato un feedback: nel complesso le prove erano andate bene, e anche se bisognava aspettare i risultati definitivi potevano già affermare che rientravo nella categoria degli adulti plusdotati.

Tre settimane più tardi tornai nello studio per discutere i risultati. Nel complesso avevo superato le prove, ma non tutte allo stesso livello. Da lì l'interesse a dividere il test in quattro parti principali, permettendo di scoprire con maggiore precisione le singole capacità. Nel mio caso, la prestazione sull'indice di comprensione verbale aveva messo "in evidenza un ottimo livello di comprensione, di concettualizzazione e di espressione verbale" con "un livello nettamente superiore alla media rispetto alle persone della mia età," cioè 20-25 anni. Per contro, i punteggi relativi alla memoria di lavoro e alla velocità di elaborazione erano nella media. Alla fine mi venne consegnata una relazione scritta dettagliata.

Avevo avuto la mia diagnosi, e mentirei se dicessi che quei risultati non hanno solleticato il mio ego. Ora non passo certo il mio tempo a definire tutto quello che faccio o a interpretarlo attraverso questa prospettiva, ma riesco quantomeno a comprendere le mie difficoltà, le mie qualità, e me ne servo per progredire nel miglior modo possibile. Qualche mese più tardi completai la terapia con la sensazione di essermi occupato di tutte le mie questioni irrisolte.

Una volta fatto il test decisi di parlarne anche con i miei amici più stretti e la mia famiglia. Avevo paura di ricevere battute sarcastiche—o, nel migliore dei casi, di essere trattato con un senso di pena mista a imbarazzo—ma andò diversamente. In generale però sto sempre attento e non ne parlo spesso.

Se l'"alto potenziale intellettivo" affascina sempre di più i professionisti della salute, continua anche a essere poco riconosciuto. Molti vanno avanti con la propria vita senza mai saperlo. Alcuni non sperimentano alcuna difficoltà e non sentono il bisogno di consultare uno specialista, mentre altri si emarginano e magari decidono di cercare aiuto. Al di là di una ricerca egocentrica, per queste persone comprendere e accettare la propria particolarità costituisce l'unica via per ritrovare fiducia in sé stessi e negli altri.

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