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Abbiamo chiesto a un esperto se gli italiani nel Regno Unito rischiano di dover tornare a casa

Dopo il panico scatenato dalla stampa italiana sul tema delle "frontiere britanniche chiuse anche agli europei," abbiamo contattato un esperto per capire quanto tutto ciò sia possibile e cosa significherebbe.

Illustrazione di Sam Taylor

L'insofferenza britannica nei confronti dell'Unione Europea è nota da tempo, tanto che l'attuale primo ministro David Cameron ha indetto un referendum per il 2017, in cui agli inglesi verrà chiesta la volontà di continuare a far parte dell'Unione Europea.

Nel frattempo, però, sembra che il Regno Unito voglia portarsi avanti su alcuni aspetti––uno su tutti, la gestione dell'immigrazione. In un editoriale del Sunday Times dello scorso 30 agosto, il ministro dell'interno Theresa May annunciava la volontà di ridurre i flussi migratori perché "i numeri sono troppo alti" e il "tasso di migrazione è semplicemente insostenibile."

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Nella stessa lettera, il ministro criticava il trattato di Schengen, responsabile di aver inasprito le condizioni dei migranti e "di gravare su coloro che sono maggiormente a rischio di sfruttamento." A finire nel mirino della May non erano stati solo i migranti irregolari ma anche i molti migranti europei, e seppure non si facesse menzione esplicita degli italiani, tanto è bastato per scatenare il panico.

La posizione britannica nei confronti dei migranti europei ci riguarda del resto direttamente, dato che gli italiani sono la seconda categoria di stranieri nel paese dopo i polacchi. Nel 2015 infatti, si è segnato il record di cittadini italiani nel Regno Unito: sono oltre 600.000, con un incremento del 37 percento dal marzo 2014 al marzo 2015.

Per fare chiarezza sulla situazione, capire quanto la stretta sulla migrazione sia un'eventualità possibile, e quali sarebbero le conseguenze per le migliaia di italiani che vivono a Londra, abbiamo intervistato il professor Massimo Fragola, esperto di diritto dell'Unione Europea.

Foto via Twitter/@isntdave

VICE: Il Regno Unito formalmente non aderisce al Trattato di Schengen, ma fa parte della Comunità Europea. Questo crea dei vincoli in tema di leggi anti-immigrazione?
Massimo Fragola: La storia affonda le radici molti anni addietro. Il Regno Unito, insieme all'Irlanda, non ha aderito a Schengen né nel 1985, quando è nato quest'accordo al di fuori dei trattati dell'allora Comunità Economica Europea, né successivamente. Questo perché ha dei sistemi di protezione ritenuti più permissivi rispetto alle regole europee comuni, quindi ha avuto quella che viene definita poi la cosiddetta clausola di opting-out.

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Le scelte europee spesso sono prese in momenti particolari, tenendo conto dello stato attuale della politica, delle sopravvenenti elezioni, e quella fu ed è una scelta politica.

Nonostante questo, il Regno Unito ––facendo parte della Comunità Europea––accetta e deve rispettare tutte le altre regole dell'Unione Europea. Il mercato di libera circolazione delle merci e delle persone non è solo Schengen, che ha dato un'accelerazione alla libera circolazione delle persone, ma è anche la libera circolazione delle merci, dei beni dei capitali, dei servizi. Pur essendo fuori da Schengen, dunque, ci sono dei vincoli, tra i quali quelli sulle leggi che riguardano l'immigrazione.

Quanto è reale la prospettiva che il Regno Unito chiuda le porte ai migranti?
Il Regno Unito è in una fase politica molto particolare. È doveroso ricordare che non vi è solo l'opting-out su questa speciale clausola di libera circolazione delle persone, ma che la Gran Bretagna ha ottenuto l'opting-out anche per l'Euro. È un tipico atteggiamento britannico: far parte dell'Unione Europea è una necessità, però si cercano di ottenerne più benefici che costi.

Va però detto, a compensazione, che quando la Gran Bretagna accetta tutto il resto del diritto dell'Unione lo fa in modo molto corretto. L'Italia, che quantomeno sulla carta è un paese europeista sempre e comunque, ha molte più procedure d'infrazione del Regno Unito. Proprio in materia di libera circolazione delle persone e di politica ambientale, tutela dei consumatori o dei diritti, l'Italia è molto meno adempiente del Regno Unito.

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[Quello del Regno Unito] è un atteggiamento che dà fastidio, perché è un'adesione legata ai benefici e non anche ai costi—come dovrebbe essere ed è per tutti gli altri stati. Ne è un'emblema la Thatcher, il cui governo è stato molto duro nei confronti dell'allora Comunità Economica ed oggi Unione, con la sua frase storica "I want my money back," voglio indietro i miei soldi: noi contribuiamo, ma vogliamo indietro fino all'ultimo penny. Appunto per questo, per quest'analisi di costi e benefici che caratterizza i britannici, si tratta di un'eventualità inverosimile.

Quali sarebbero le conseguenze per tutti gli italiani che attualmente vivono nel Regno Unito?
Realisticamente, ciò che potrebbe accadere è un inasprimento della burocrazia, quindi un controllo più stringente di passaporti e richiesta di permessi. Però attenzione, perché i permessi di soggiorno devono tener sempre conto della normativa comunitaria, quindi se si tratta di cittadini dell'Unione, come gli italiani, sicuramente rimarrebbe un trattamento diverso rispetto ai cittadini terzi.

Non vedo dunque per i cittadini italiani che non abbiano commesso reati o violato le regole––per esempio quella di non gravare sul trattamento pensionistico britannico, cioè poter soggiornare nel territorio britannico non a spese del governo––conseguenze reali.

Penso che chi già si trova nel territorio britannico, e ha in effetti acquisito dal punto di vista giuridico determinati diritti, avrebbe sicuramente la possibilità di rimanere. Chi dovesse entrare per la prima volta potrebbe trovare un iter burocratico un po' più contorto, alla fine del quale si arriverebbe comunque alla concessione del permesso di soggiorno o dei classici tre mesi. La richiesta di visti––come quella che adesso vige per l'ingresso negli Stati Uniti, per fare un esempio––mi sembra una prospettiva impossibile.

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Un migrante a Calais. Foto di Jake Lewis

Ci sarebbero delle conseguenze economiche per l'Italia?
Il fatto che il Regno Unito non faccia parte di Schengen non vuol dire che possa rinunciare alla libera circolazione. Realisticamente parlando si parlerebbe di una misura politica, burocratica, quindi non vedo costi economici per i nostri concittadini.

Lo stesso discorso vale anche per il Regno Unito: non si penserebbe a decisioni che––in termine di forza lavoro derivante dall'Italia––avrebbero delle conseguenze per l'economia nazionale?
No. Si tratta di scelte politiche europee, che riguardano lo stato della politica interna. Sono le classiche misure prese per il proprio elettorato, per rassicurarlo.

Il Regno Unito ha anche in mente, e lo dice da anni, di non aderire più neanche al Consiglio d'Europa, che è quell'organizzazione che a Strasburgo riunisce 47 Stati e si occupa soprattutto di tutele e protezione dei diritti umani. Il Regno Unito, poiché viene condannato spesso per varie violazioni dei diritti umani, è insofferente a tali sentenze di questa corte.

Ecco, se dovessero prendere una decisione di rottura in tal senso sarebbe più facile recedere dal Consiglio d'Europa e perdere questo controllo, che uscire dal processo di integrazione europea. Ripeto, si tratterebbe semplicemente di un inasprimento burocratico, non credo che andrebbe a toccare in modo tangibile l'economia del paese.

È pensabile, ad oggi, per uno stato chiudere ai migranti extracomunitari ma non agli europei?
Sì e no. L'Unione Europea ha le stesse regole della convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, come peraltro sul diritto di asilo, uno dei capitoli importanti dei nuovi trattati sull'Unione Europea dopo Lisbona.

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Si tratta però di due capitoli diversi. Uno è un capitolo costituzionale dell'integrazione europea, la libera circolazione dei cittadini nell'Unione Europea. L'altro, invece, è l'accoglienza e il diritto di protezione ai cittadini di paesi terzi che richiedono asilo. Io ricordo sempre agli studenti che si tratta pur sempre di persone, d'individui, quindi per uno stato moderno che oggi accetta l'idea di Europa, chiudere alle persone è impensabile senza gravi conseguenze.

Per quanto riguarda il referendum annunciato da Cameron per il 2017, in base alla sua esperienza, quanto dobbiamo preoccuparci?
In tutta sincerità, penso che prima o poi questo benedetto referendum saranno costretti a farlo per un discorso di credibilità interna––sono anni che lo sbandierano. Questo a meno che non cambi l'attuale governo e il nuovo se ne lavi le mani, dicendo che non era stato lui a proporlo.

Ma se il governo Cameron dovesse rimanere, allora il referendum va fatto. A quel punto il governo dovrà fare una scelta importante e capire se vuole uscire dall'integrazione europea, buttare quarant'anni di storia, e ritornare a un'alleanza con l'America. Credo comunque che non gli convenga.

Quindi, anche se il referendum si dovesse fare, è probabile che il governo in carica farà di tutto per far sì che alla fine, con un'analisi costi-benefici, il Regno Unito rimanga nell'Unione.

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