Música

Mykki Blanco stava per lasciare la musica, e invece ha tirato fuori il suo primo album


Tutte le foto sono di Julia Burlingham

Fino a poco tempo fa, Mykki Blanco non si considerava un musicista. “Non ero il tipico ragazzino che voleva fare il rapper”, ammette senza vergogna, sorseggiando un Bloody Mary nel bar del Roxy Hotel di Manhattan. “Ero un freak, uno strambo, un artistoide noise—sono diventato un rapper più o meno per caso”. Per essere un rapper accidentale, Mykki Blanco ha avuto un successo considerevole negli ultimi cinque anni: Cosmic Angel: The Illuminati Prince/ss più che un mixtape era un parafulmine che attirava a sé i generi più disparati, e Gay Dog Food, uscito due anni più tardi, nel 2014, vedeva Mykki sfoggiare con sempre maggior orgoglio le proprie credenziali punk e noise, collaborando con animi affini quali Kathleen Hanna e Cities Aviv.

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Insieme all’ondata di interesse mediatico che investì Mykki, arrivò l’interesse delle etichette: ci furono incontri con XL e Capitol, entrambi infruttuosi. Inoltre, nonostante un regime regolare di tour, le risorse economiche—perlomeno quelle che servirebbero per registrare un primo album convincente—languivano. “Cominciai a perdere fiducia”, racconta. “Tutta questa attenzione su di me cominciava a fottermi il cervello. Mi sentivo in trappola”.

Con il passare del tempo gli interessi di Mykki cominciarono a vacillare; nel comunicato sulla sua condizione di sieropositività postato nel giugno dell’anno scorso, parlava di voler interrompere la carriera di musicista e dedicarsi da quel momento in poi al lavoro di giornalista e attivista. Poi la venerabile etichetta elettronica !K7—che pubblicò Adrian Thaws di Tricky nel 2014 contenente contributi di Mykki—si fece avanti. “Ero in un abisso di depressione e mi dissero: ‘Vorremmo aiutarti con il tuo album’”, ricorda, sorridendo estatico.

Il risultato di questa collaborazione è Mykki, un album complesso e affascinante che è anche la manifestazione artistica più audace della carriera di Mykki Blanco. Gli scenari sonori alieni e le atmosfere da party non sono del tutto svaniti, ma sono affiancati da composizioni sfacciatamente lussuriose e, a volte, proprio orchestrali—una nuova componente per cui bisogna ringraziare l’inedita collaborazione con il cantautore e regista di videoclip Woodkid (Lana Del Rey, Katy Perry).

“Quando dissi che avrei smesso di fare musica, una delle poche persone che mi scrissero fu Woodkid”, esclama Mykki. “Mi mandò una breve email che diceva: ‘So che non ci conosciamo bene, ma penso che tu abbia troppo talento per abbandonare la musica. Se vuoi venire a Parigi a registrare con me, possiamo vedere come va’. Dato che è un musicista gay, è in grado di empatizzare con i miei sentimenti riguardo all’omofobia. Durante le session, pensavo: ‘Sai cosa? Mi ero dimenticato di quanto fosse divertente la musica’. Per la prima volta da un po’ di tempo, avevo la libertà di smettere di guardarmi le spalle e lasciarmi andare”.

Mykki è un disco contemporaneamente difficile e coinvolgente, un’opera costruita seguendo il puro istinto musicale dell’autore, ignorando aspettative e reputazione. E naturalmente Mykki Blanco non sarebbe riuscito a lavorare in nessun altro modo. “Alla gente piace Mykki Blanco perché pensa che sia un personaggio divertente a cui piace fare festa”, spiega pazientemente. “Ma non c’è personaggio qui. La gente non sa chi cazzo sono davvero”.

Ascolta “Loner”, tratta dal primo album di Mykki Blanco di prossima uscita

Noisey: La droga gioca un ruolo considerevole nei testi dell’album.
Mykki Blanco:
Durante la scrittura dell’album sono rimasto sobrio per tre mesi, e non è stata una passeggiata. Ora non lo sono più, ma quando resti sobrio, tutta la merda viene a galla. Ho anche avuto un attacco d’ansia a un certo punto, perché non avevo nulla che arginasse tutta quella roba che non avevo voluto approfondire.

Quando ho iniziato ad andare in tour, non avevo nessuno che ci tenesse d’occhio e non avevo esperienza. Bevevo e facevo festa ogni sera dal giovedì alla domenica, è stato il periodo più drogato e alcolizzato della mia vita. A un certo punto la questione si fece seria. La droga, per me, era un po’ come indossare una barba finta—mi permetteva di non sentirmi “quel rapper frocio”. Era una cosa che avevo in comune con il resto della compagnia, la usavo per nascondere la mia omosessualità. Finì che dovetti scappare da LA e ripulirmi. Ora ho risolto un po’ di merda.

C’è uno stigma verso il trattamento della salute mentale nella comunità nera?
Nella comunità nera, se qualcuno dice “voglio andare da un analista”, la gente risponde “ma di che cazzo stai parlando?” Non è normale parlare in questo modo dei propri problemi. “Devi solo fare più soldi e ti sentirai meglio”. A dir la verità io non mi considero nemmeno una persona propensa alla depressione. La gente mi chiama “frocio” da quando avevo cinque anni, è roba che ti fa crescere il pelo sullo stomaco.

Ho così tanti tatuaggi perché è uno dei modi più immediati per difendersi dalla società. Mi ricordo che quando avevo sedici anni mi sono detto: “Mi farò un botto di tatuaggi perché sono stufo della gente che mi prende per il culo”. Dopo i vent’anni, finivo spesso a fare a botte perché pensavo che la società odiasse le persone gay e io dovessi essere ultra-militante per ribaltare gli stereotipi e difendere me stesso e gli altri. Poi mi sono reso conto che non si può passare tutta la vita così. Mia madre una volta mi disse: “Non ti mantengo perché tu diventi un uomo medio—ti mantengo perché tu sia sopra la media, e mi aspetto che tu sia sopra la media”. Devi superare tutte le cose che ti succedono, non puoi permettere che ti condizionino—se succede, il tuo passato ti controlla e non riesci a vivere nel presente.

Pensi che la cultura queer sia stata commercializzata dal mainstream?
Senza dubbio, ma non è necessariamente colpa dell’eteronormatività. Penso che sia disgustoso che la gente assuma il lessico e i comportamenti di una cultura definita, e poi quando succede una cosa come quella di Orlando, tutta la gente che fa soldi grazie alla cultura LGBTQ non dice niente. Vogliono la libertà di scegliere quando supportare il pubblico gay e quando no. A volte mi sembra che la gente cerchi di definire ogni cosa che faccio come una dichiarazione d’intenti—e magari lo è per te, che vieni da una comunità che non vive e non rappresenta ciò di cui parlo. Ci sono delle persone reali che vivono questa realtà ogni giorno.

Abbiamo circa la stessa età e devo dire che mi sono immedesimato molto nel messaggio di “High School Never Ends”.
Quella canzone riflette su varie esperienze che ho avuto—il fatto di provenire da una famiglia con un solo genitore, frequentare una scuola privata da ricchi, essere buttato fuori dalla suddetta scuola, andare a New York, rendersi conto che la classe non importa e subito dopo che la classe importa eccome, quando hai tutti questi amici ricchissimi a cui non riesci a stare dietro. Loro vorrebbero far festa insieme a te, ma tu non puoi permetterti di andare a Parigi e non vieni invitato alla villa negli Hamptons.

Quando sono arrivato a New York, la città era ancora dominata dai ricchi mondani—gente che cercava di far rivivere la New York di Warhol. Ho passato un periodo in cui ero sieropositivo ma non l’avevo detto a nessuno, per cui vivevo una vita isolata dal punto di vista sessuale e relazionale, e scrivere canzoni mi metteva in imbarazzo. Non sono abituato a scrivere di me stesso in modo discreto.

Quando hai rivelato al mondo la tua sieropositività, hai ricevuto reazioni negative dal music business?
C’è produttore molto famoso che lavora con tantissime celebrità—quando ero agli inizi mi supportava. Poi l’ho incontrato su un aereo in Svizzera e sembrava che volesse scappare più lontano possibile. Mi guardava come a dire “che cosa ci fai in viaggio, all’estero?” Ma poi si è reso conto che ero in perfetta forma.

La gente con cui probabilmente non avrei mai dovuto lavorare—o con cui non lavorerò più—ha completamente cancellato ogni contatto tra di noi. Non collaboreremo mai più, il che è una cosa fantastica, perché libera spazio per chi crede davvero in me. A volte mi prende la depressione perché penso che non riuscirò a cambiare la mentalità dell’hip-hop mainstream e fargli accettare un rapper in drag. Ma la gente che mi sostiene all’interno del music business mi dà speranza. Penso che questo album sia la cosa migliore che ho mai fatto, e finché rimarrò vicino alla cultura e le mie barre spaccheranno, avrò la possibilità di raggiungere un pubblico sempre più ampio. Vedremo.

Mykki esce per Dogfood Music il 16 settembre.

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