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Collage da Instagram.
Attualità

Cosa c'è dietro agli allarmi sul crimine e le baby gang a Milano

Ne abbiamo parlato con chi si occupa di carcere, minori e giovani adulti, per capire se la presunta emergenza è reale.
Daniele Ferriero
Milan, IT

Secondo alcune procure, molti media e Chiara Ferragni, Milano è in balia del crimine, delle “baby gang” e delle loro colonne sonore a base di trap e drill. Su pagine sui social e programmi televisivi col pallino del voyeurismo, anche l'episodio più infimo viene fatto rimbalzare fino alla sovraesposizione mediatica e all'indignazione generale, dando così l’impressione di una specie di Gotham City fuori controllo.

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Le cronache più recenti, e in particolare quella che viene definita “una faida” tra i trapper Simba La Rue e Baby Touché, sembrano del resto andare in quella direzione.

Ma è davvero così? Milano è del tutto in balia del crimine? E la trap c’entra effettivamente qualcosa, o più che altro è un’invenzione politico-mediatica?

Per cercare di capirlo ho studiato le statistiche ufficiali, recuperato dichiarazioni di dirigenti della polizia e parlato con persone esperte in vari campi—da quello della cosiddetta devianza giovanile fino al sistema carcerario minorile italiano.

I dati sulla criminalità a Milano

Partiamo dai dati, in particolare quelli sui reati a Milano aggiornati al 1 marzo 2022: il numero totale dei crimini è sceso del 15,06 percento negli ultimi tre anni, e addirittura del 28,92 percento rispetto ai dieci anni precedenti.

I furti con strappo e le rapine sono cresciuti nell'ultimo biennio, ma rimangono grosso modo in linea con il resto del decennio. Al contrario, le truffe e le frodi informatiche sono aumentate del 209,37 percento in dieci anni—secondo il prefetto di Milano, Renato Saccone, “i danni patrimoniali sono superiori a quelli di borseggi e rapine.”

Milano è difatti una città piuttosto sicura se rapportata ad altre realtà—in uno studio del 2021 dell'Economist viene addirittura considerata la “città più sicura d'Italia.” Tuttavia, benché diversi esponenti delle autorità cittadine abbiano confermato che non esiste alcuna emergenza, un fronte trasversale continua a suonare l’allarme e invocare un “patto per la sicurezza”.

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Per molti versi è un atteggiamento tutt'altro che inedito, equiparabile a quello che all'estero alcuni inquirenti hanno tenuto nei confronti della sovrapposizione tra presunti gruppi criminali e specifiche correnti culturali e musicali—in particolare la UK drill, un sottogenere del rap accusato di provocare scontri armati tra gang rivali.

Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, del resto, la paura provocata da certi generi e movimenti è da tempo arrivata a livelli tali da scatenare conseguenze ai limiti del grottesco. Per effetto del Criminal Behaviour Order nel Regno Unito, ad esempio, la polizia ha obbligato Digga D (uno degli esponenti di punta della drill britannica) a mostrare testi e canzoni prima di poter suonare e pubblicare i propri brani—alle volte direttamente utilizzati come prove in tribunale. Ancora oggi, poi, i video di certi artisti vengono censurati e cancellati dalle piattaforme.

È  un approccio che, nonostante le differenze del caso, si riflette anche in Italia nell'attenzione—che alle volte si fa accanimento—riservata a chi si pensa faccia parte di questi gruppi: soggetti giovanissimi (in gran parte minorenni), spesso ma non sempre di “seconda generazione” e di frequente provenienti da contesti socioeconomici problematici, nonché da province o zone periferiche della città.

Se poi viene individuata una figura “pubblica” con queste caratteristiche, magari con un intreccio tra musica, reati e social network, l'obiettivo è servito su un piatto d'argento. È proprio ciò che sta accadendo a Mohamed Lamine Saida, in arte Simba La Rue, e a Mohamed Amine Amagour, noto come Baby Touché. Nel passato recente era capitato anche a Zaccaria Mouhib, ribattezzatosi Baby Gang, e a Amine Ezzaroui, conosciuto come Neima Ezza. Insieme ad amici e sodali, e a forza di servizi su telegiornali e quotidiani, tutti loro sono effettivamente diventati un simbolo controverso del tema.

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Cosa c’entrano trap e drill con le ‘baby gang’ e la devianza giovanile

Visto che generalmente se ne parla come se fosse un assioma, è vero che certi generi musicali e contesti socioculturali favoriscono o amplificano reati e criminalità?

L’ho chiesto a Cosimo Sidoti, dottorando con un Master in criminologia globale presso l’Università di Utrecht e autore di un paper sul tema. Secondo lui sarebbe essenziale rivedere in toto l'approccio, visto che in Italia ci si limita troppo spesso a cercare la soluzione solo in “un rapporto causa-effetto determinato da un metodo quantitativo, volto alla misurazione dei comportamenti criminali e/o devianti.”

“In un contesto come quello della cultura ‘trap’ italiana, in cui molti giovani desiderano proprio essere visti ed etichettati come criminali, ciò non porta altro che a una demonizzazione ulteriore della cultura,” spiega. “In questo modo non vengono colte le ‘sottigliezze’ di un certo comportamento criminale, deviante o trasgressivo, contenuto nel più ampio contesto culturale.”

Gli fa eco Federica Bertin, psicologa e psicoterapeuta, autrice insieme a Silvestro Lecce di Generazione trap. Nuova musica per nuovi adolescenti, edito da Mimesis. “Come per tutti i fenomeni è importante considerare il contesto in cui si sono sviluppati,” mi dice. “Sebbene sia presto per trarre conclusioni definitive, la pandemia ha verosimilmente esacerbato alcune condizioni di malessere preesistenti.”

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La violenza che emerge, continua, “è distruttiva e apparentemente fine a sé stessa e sembra rispecchiare [...] una percezione del futuro inteso più come una minaccia che come una promessa.” Le cosiddette “baby gang,” in quanto fenomeno di gruppo, “aiutano a esorcizzare la paura e la solitudine soddisfacendo il bisogno aggregativo adolescenziale.”

Un’ulteriore conferma arriva da Marco Calì, dirigente della Squadra mobile della questura di Milano, che in un’intervista all’Agi ha detto che “parlare di baby gang è riduttivo e persino fuorviante.” Le gang vere e proprie sono “strutturate e rispondono a schemi precisi,” mentre queste “bande giovani si aggregano e sciolgono con la stessa velocità.”

Anche per Calì la pandemia ha avuto conseguenze importanti. “Le restrizioni imposte dal Covid hanno segnato per forza di cose una forte compressione della libertà individuale e della vita sociale,” dice, “che soprattutto in certe fasce anagrafiche e in certi contesti si è tradotta in insofferenza alle regole e ai controlli di polizia.”

Oltre a ciò, dice Bertin, in generale c’è comunque una “tendenza all’esagerazione per ottenere visibilità che si interseca con i valori sociali e i mass media, in un sistema di relazioni complesse.”

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Non a caso, spiega Sidoti, molti artisti “preferiscono essere criminalizzati perché procura più visibilità e fama. Nella mia ricerca utilizzo il concetto di ‘stili di crimine del prosumerismo’, cioè un ‘folklore della criminalità’ trasversale alla scena trap italiana.”

L'emergere della cultura trap ha donato a molte persone giovani la possibilità di sperare nel ‘nuovo sogno italiano’.

In sostanza, sottolinea, queste persone “producono e consumano allo stesso tempo. Si tratta di un’auto-rappresentazione della criminalità che viene utilizzata come strumento mercificabile. Serve a trasformare la musica e la creatività in un lavoro e una fonte di guadagno,” sottolinea.

È anche un modo di porsi, chiosa il ricercatore, che serve “per aspirare a qualcosa di più di una vita normale e di un lavoro monotono. L'emergere della cultura trap ha donato a molte persone giovani la possibilità di sperare in ciò che chiamo il ‘nuovo sogno italiano,’ che quindi li motiva a cercare nuovi picchi di eccitazione e trasgressione.”

Come ha affermato Calì nella già citata intervista, si tratta con ogni evidenza di un “fenomeno fluido che cresce e si modifica. Per questo, non può essere affrontato solo in chiave di repressione.”

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Eppure, le proposte sono sempre le stesse: denunce, sorveglianza, “tolleranza zero.” Giusto per fare un esempio, la Lega chiede da tempo di abbassare a 12 anni l’età della punibilità. Il carcere, insomma, è sempre e comunque indicato come la soluzione finale—anche per le persone minorenni.

Il carcere minorile non è la soluzione

Ma cosa ne pensa chi ha a che fare con gli istituti penitenziari, perché magari ci è finito dentro o ci lavora e ne conosce i (numerosi) problemi?

Anche in questo caso, è bene partire dai dati. Secondo gli ultimi disponibili, aggiornati a gennaio del 2022, sono 316 i minori e i giovani adulti detenuti nelle carceri minorili italiane—di cui 140 stranieri e 8 ragazze—a fronte di 13.611 ragazzi complessivamente in carico ai servizi della giustizia minorile, tra comunità e pene alternative.

Purtroppo, ed è un dato aberrante, il 52,5 percento di chi si trova in un Istituto penale per minorenni (Ipm) è in attesa di giudizio, senza cioè una condanna definitiva.

Il carcere è disegnato per essere brutto e oppressivo. I ragazzi dentro il carcere minorile non sono i più colpevoli fra i colpevoli, sono gli ultimi tra gli ultimi.

Per approfondire la questione ho dunque contattato il rapper Francesco Carlo detto Kento, che organizza laboratori nelle carceri minorili da oltre dieci anni e ha raccontato la sua esperienza nel libro Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile, edito da minimum fax.

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“Il carcere è disegnato per essere brutto e oppressivo. I ragazzi dentro il carcere minorile non sono i più colpevoli fra i colpevoli, sono gli ultimi tra gli ultimi,” spiega Kento.

“Da minorenne,” prosegue, “andare in carcere è giustamente difficile. A quell'età si deve pensare a misure alternative alla detenzione, al recupero del ragazzo. Ma a conti fatti chi ci finisce davvero è la persona che non ha una famiglia di supporto, chi non ha casa o soldi per permettersi un buon avvocato, oppure chi manca degli strumenti culturali per esprimersi. Gli ultimi, appunto.”

Di questo ho parlato anche con William (il cognome è omesso su richiesta dell’intervistato), che ora ha 26 anni e ha provato in prima persona le lungaggini del sistema penitenziario italiano.

Quando aveva 16 anni, William è stato arrestato con l’accusa di omicidio e ha trascorso quasi due in carcere prima di tornare in libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare.

Una volta fuori, ha scelto la latitanza ed è tornato nel paese dove è nato, in Ecuador. Rifarsi una vita però era difficile, e vicino ai 18 anni è tornato in Italia per affrontare il processo. Il tentativo è stato però interrotto da un nuovo arresto—a fare la differenza, in quel caso, arriva un laboratorio rap tenuto proprio da Kento. 

William racconta: “Kento mi ha spronato, ho cominciato a far musica tutte le sere. Volevo scrivere ciò che sentivo, i tormenti, le sconfitte e le vittorie. In una settimana ho tirato fuori 4 o 5 pezzi e sono piaciuti. L'impegno ha dato i suoi frutti.”

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Grazie all'articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che regola il lavoro all’esterno del carcere, per un certo periodo William ha potuto persino lavorare alla sua passione dalle 7 di mattina alle 17 in uno studio professionale, coadiuvato dal producer Fuzzy (che ha prodotto “Monster” di Noyz Narcos). “Sentirsi dire da persone qualificate che hai talento fa davvero la differenza,” rimarca.

William ha così cominciato a farsi notare: una svolta inattesa lo ha portato a lavorare come comparsa a Blocco 181, la serie con Salmo che parla proprio di periferia milanese e attività criminali. In seguito ha partecipato a un contest fruttato in passaggi in radio e altre ore in studio.

Il ragazzo mi dice che per fare la differenza “serve qualcuno che ti dia una mano, soprattutto nelle periferie. Io ho avuto Kento che mi ha detto ‘hai un talento per il rap, usalo, basta cazzate’.”

Servono però anche “campi sportivi, laboratori creativi, arte e spazi per i giovani. Non c’è niente, o non abbastanza, per distrarre i ragazzi. Io mi sono rimesso in gioco e spero davvero lo facciano in tanti prima che sia troppo tardi per loro. Tanto più che sbattere i titoloni sulle baby gang in prima pagina non risolve assolutamente niente.”

Per quanto riguarda il rap, chiarisce invece Kento, “senza andare nei massimi sistemi, è quello strumento con il quale puoi dire ai ragazzi: non ti serve niente per esprimerti se non il tuo cervello e la tua bocca. Non ti serve nemmeno la penna.”

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Anche Bertin conferma questo assunto: “La musica è importante per gli adolescenti perché assolve diverse funzioni, come sostenere la regolazione emotiva, la costruzione identitaria e il processo di socializzazione. È il punto di intersezione di praticamente tutti gli aspetti significativi della cultura in cui è inserita, il luogo dove si sedimentano gli elementi simbolici di una società.” 

E se quella musica si fa portatrice dei messaggi sbagliati? “Il passaggio dal virtuale al reale non è così immediato,” precisa. “In generale, i dati statistici dimostrano che, nonostante i riferimenti sempre più espliciti alla violenza nei generi musicali più ascoltati dai giovani, non si è assistito a un aumento significativo della devianza giovanile nel mondo reale,” aggiunge. Quindi “trovare una correlazione tra musica trap e drill (o cultura rap), criminalità e baby gang è veramente superficiale,” spiega Sidoti.

Bisogna invece riflettere sul tema di fondo, ossia la reale funzione della pena. “Proprio come il matrimonio riparatore, il carcere è un luogo anacronistico e fuori dal tempo, per quanto riguarda il minorenne,” ribatte Kento.

A questo proposito, l’Associazione Antigone da tempo parla della necessità di riformare il codice penale per i minori. “Il sistema dei reati e delle pene per gli adulti, a maggior ragione vigente il codice Rocco, non soddisfa minimamente il principio [...] del superiore interesse del minore,” ha detto il presidente Patrizio Gonnella.

Ci sono poi moltissime associazioni che lavorano con i detenuti, non solo minorenni. Kento cita l’esempio di Puntozero Teatro all'IPM Beccaria di Milano, 232 e SuoniSonori. CCO - Crisi come opportunità a Roma, e Defence for Children a Genova. “Se una persona ha voglia di fare qualcosa di più, conclude Kento, “i modi non mancano.”

Quel che è certo è che il panico mediatico e gli allarmi emergenziali non giovano a nessuno—e sono anzi controproducenti, in particolare se sensazionalistici.

A detta delle persone esperte che ho interpellato, è assolutamente urgente riflettere sull’assenza di reali luoghi di aggregazione, sull’abbandono delle periferie, sulla marginalizzazione di intere fasce sociali e, sopra ogni cosa, sul fatto che Milano è una città dove il divario tra chi è ricco e chi è povero cresce ogni giorno di più.