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Sesso, sangue e nazi: ‘nazisploitation’, il genere più infame del cinema italiano

Qualche settimana fa è uscito in dvd, per la collana CineKult curata dalla rivista di cinema Nocturno, un vecchio film dal titolo abbastanza particolare: Holocaust parte seconda: i ricordi, i deliri, la vendetta. Girato nel 1980 dal regista Angelo Pannacciò, il film racconta la storia di “un gruppo segreto di attivisti ebrei” che dispensa la propria vendetta a soldati e medici nazisti attraverso torture e omicidi sommari.

Se la sinossi ricorda un titolo più recente e infinitamente più conosciuto, be’, non è assolutamente un caso. Quentin Tarantino—e con lui molti altri—ha voluto omaggiare un filone ben preciso: quello della “nazisploitation”, conosciuto anche come “nazi-porno” o “eroSSvastika.” Per chi non lo conoscesse, il genere è partito dagli Stati Uniti all’incirca nel 1969 ed è arrivato in Europa nel decennio successivo. Ad accomunare tutti i film ci sono appunto l’ambientazione storica—solitamente i campi di concentramento—e le scene di efferatezze indicibili, che oscillano costantemente tra l’horror estremo e il grottesco.

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Personalmente è proprio quest’ultima caratteristica ad avermi sempre affascinato, unitamente al fatto che il rapporto tra l’Italia e la “nazisploitation” è unico sotto molti punti di vista. Verso la metà degli anni Settanta, approfittando del successo di pellicole “alte” come Il portiere di notte di Liliana Cavani e Salon Kitty di Tinto Brass, un piccolo gruppo di registi si è buttato sui “nazi” e ha dato vita a un fenomeno che ha lasciato una certa eredità a livello di immaginario—tant’è che ancora oggi ci si ispira ad esso, lo si studia e se ne parla.

Per ripercorrere la storia di quello che è stato definito come “il più infame dei generi italiani” ho fatto una chiacchierata con il co-fondatore di Nocturno Davide Pulici, che insieme a Manlio Gomarasca è stato tra i primi critici cinematografici ad averlo riscoperto e analizzato seriamente.

Le locandine inglesi e francesi del film After Mein Kampf del 1961.

VICE: Ciao Davide. Mi puoi spiegare qual è la genesi della “nazisploitation”?
Davide Pulici: Il cinema “nazi” si sviluppa probabilmente da tutta una serie di documentari che cominciano a essere prodotti in America e in Svezia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Si tratta di documentari abbastanza “spettacolari,” nel senso che tendono appunto a spettacolarizzare gli orrori collegati al nazismo.

Non siamo nell’ambito dei mondo movies, ma comunque in quel tipo di approccio lì: film che si propongono come dei film-verità e che in realtà hanno una componente che va a solleticare il voyeurismo del pubblico. Come ad esempio i trattamenti riservati ai prigionieri, le sperimentazioni dei medici nazisti, le prevaricazioni ai danni delle donne.

La situazione comincia a cambiare verso la fine degli anni Sessanta, quando iniziano ad apparire dei lungometraggi a soggetto. Il più importante è sicuramente quello di Lee Frost, Love Camp 7, che è del 1969 e che rappresenta in qualche modo il canone del genere. La cosa interessante a proposito del film di Frost è che da noi è uscito molti anni dopo—nel 1975 o 1976. Questa è una delle tante micce che accendono il fenomeno dei “nazi” italiani.

La locandina di Love Camp 7.

Com’è arrivato il genere “nazi” in Italia, appunto?
Il fenomeno è concentrato in un paio di stagioni, tra il 1976 e il 1977, con qualche tarda propaggine che arriva dopo. Tutto si è sviluppato per una serie di stimoli congiunti—da una parte c’è Love Camp 7, e dall’altra prodotti autoctoni come Il portiere di notte o Salon Kitty.

I “nazi” all’italiana si possono poi distinguere in due grandi correnti: quella che segue l’erotismo del modello brassiano o della Cavani; e quella molto più orrorifica che si rifà a Ilsa, la belva delle SS, un film che ha come protagonista una kapò estremamente procace ed esuberante—ma anche di una crudeltà assoluta—e che mette in scena le peggio cose. A questo modello, per sua stessa ammissione, si è ispirato Bruno Mattei, che è stato un po’ uno degli iniziatori del genere in Italia con K.Z.9. Lager di sterminio.

Parliamo comunque di un genere che in Italia è abbastanza limitato, perché non arriva neanche a dieci pellicole.

Quali sono, secondo te, le principali caratteristiche di questi film?
Come Nocturno abbiamo trovato delle costanti, che sono facilmente identificabili. La prima è la figura della donna, che è la vittima per eccellenza e quindi l’oggetto di soprusi, torture e violenze varie. Poi c’è la visita medica, un luogo comune ineludibile di questi film: si può andare dalla spoliazione forzata e arrivare alla rasatura dei peli del pube come si vede in Le deportate della sezione speciale delle SS.

Un altro tema centrale è l’omosessualità femminile. Nei lager le prigioniere è vero che “amoreggiano” con i soldati o i partigiani di turno, però fondamentalmente hanno rapporti sessuali tra loro. Questo naturalmente risponde a un elemento che era più generale nel cinema italiano di quel periodo—a un certo punto non c’era quasi film che non avesse una scena lesbo.

Uno stereotipo ricorrente è la presenza del “buono” tra i cattivi, ossia di un personaggio dal cuore tenero che si trova tra le file di questi macellai. Molto spesso questo si innamora della ragazza prigioniera, come ad esempio nel film di Cesare Canevari L’ultima orgia del Terzo Reich o in K.Z.9.

E poi ci sono gli esperimenti e le torture più folli—che sono in qualche modo il sale del genere. Non si tratta semplicemente di mostrare delle scene più o meno efferate, ma si arriva a dei livelli di delirio e follia che finiscono per essere ridicole e sfondare nel grottesco.

Una scena di Salon Kitty.

Per quale motivo un determinato numero di registi ha iniziato a puntare su questo genere?
In quelle due o tre stagioni lo fecero perché quei film andavano molto bene: costavano poco e incassavano molto. Quindi ci si buttarono vari registi, anche insospettabili—penso soprattutto a Mario Caiano, che è un regista colto, laureato in lettere classiche. 

Erano quelli i film che in quel momento la distribuzione richiedeva e che funzionavano—seppur in un periodo di tempo molto limitato. Non c’era nessuna idealità, ma una pura e semplice ragione di carattere economica.

A proposito di idealità: questi film contengono una qualche riflessione storica o un qualche messaggio politico?
Se parliamo della “legione dei dannati”—cioè quel gruppo di nove-dieci film, esclusi la Cavani e Brass—secondo me no. Forse il più “sensibile” è Le lunghe notti della Gestapo di D’Agostino, che cerca di crearsi un substrato colto; ma in generale, gli sceneggiatori prendevano i bestseller che parlavano degli orrori della guerra e li saccheggiavano.

Del resto, rispetto al pubblico al quale si indirizzavano non c’era alcuna necessità di “innalzarsi.” Gli elementi su cui tutti insistevano erano ridotti al grado zero: il sesso e il sangue. Questi “nazi” all’italiana li considero una specie di filiazione collaterale dell’horror. Non riesco a vedere una grande differenza tra i due “nazi” girati da Sergio Garrone [Lager SSadis Kastrat Kommandantur e SS Lager 5 – L’inferno delle donne ] e i due gotici girati qualche anno prima con Klaus Kinski.

Visti i temi trattati, le scene di tortura, quelle di sesso, le efferatezze e i nudi, quanti problemi hanno avuto con la censura questi film?
Naturalmente ne avevano parecchi, e in censura molte cose venivano tagliate. Ti faccio un esempio: Le deportate della sezione speciale delle SS è un film che aveva sì dei momenti di efferatezza, ma si concentrava più su atti sessuali violenti o deviati. La censura lo massacrò: la versione passata nelle sale è veramente un altro film rispetto a quella uncut che circolava all’estero.

Le versioni italiane erano molto purgate, quelle all’estero più integrali. Ancora adesso le versioni integrali dei due film di Garrone non sono facilmente reperibili.

La stampa e la critica dell’epoca come presero quei film?
Non credo che sia possibile trovare una recensione che salvi questi film. Tuttavia, e secondo me è una cosa abbastanza stupefacente, raramente mi è capitato di leggere critiche inorridite. Erano messi dentro quel calderone di prodotti popolari di consumo; e non ci si scandalizzava, ad esempio, che si potesse sfruttare il tema dei campi di concentramento per solleticare gli istinti degli spettatori.

Oggi, se uscisse un film di questo tipo creerebbe uno scandalo incredibile, ci sarebbero interrogazioni parlamentari e quant’altro. Diciamo che gli anni Settanta per certi versi si era più morigerati, ma per altri si era molto più permissivi rispetto a oggi. All’epoca, infatti, l’aspetto morale non veniva mai fuori, perché alla fine questi film erano ritenuti innocui—facevano una vita totalmente “sommersa.”

La locandina di La svastica nel ventre.

Ma secondo te si possono considerare “innocui”?
Alla fine, sì. Se penso alla prima volta che vidi Salò di Pasolini, ne uscii sconvolto. Questi film invece non riuscivo a vederli in maniera diversa rispetto agli altri film di genere, come i drammi e gli horror erotici.

Tra l’altro si tratta di pellicole anche estremamente ingenue, dove si dove si viaggia nel regno del grottesco e del surreale. Non ho mai sentito di persone che fossero rimaste schifate da questi film; e onestamente, i “nazi” li si è sempre presi un po’ con il sorriso sulle labbra.

Lo stesso Garrone ha detto di non aver mai avuto problemi a fare questi film, perché trattava la materia con un taglio assolutamente grottesco. Credo che in questo ci sia un po’ di verità—fermo restando che il cinema italiano resta un’entità predatoria che si butta su qualsiasi cosa. Dei campi di concentramento non gliene fregava assolutamente niente: in quel momento quei film andavano e li si faceva, punto.

Pur essendo una stagione cinematografica durata poco, l’impatto è stato incredibile. Come mai, secondo te?
Quello dei “nazi” è un genere conosciuto in tutto il mondo, e che ha estimatori ovunque. Dal Giappone all’America, passando per i paesi del Nord, ogni volta che esce un’edizione di questi “nazi” va a ruba.

Si è sviluppato uno strano “culto” intorno a questi film, secondo me proprio per le loro caratteristiche così estreme e assurde. Non è certamente un interesse legato ai nazisti o ai campi di concentramento; piuttosto, è collegato alla loro fenomenologia o all’estetica così surreale.

La loro forma più pura, comunque, è proprio tipica del nostro cinema di genere. Salvo Ilsa, nemmeno in America hanno fatto film con quelle caratteristiche. E i “nazi” francesi, come Fräulein Devil o Train spécial pour SS, sono molto più addomesticati rispetto ai nostri: non vedi i trapianti di testicoli che ti fa vedere Sergio Garrone, o le cose assurde che mostra Bruno Mattei in K.Z.9.

Via.

Negli ultimi anni c’è stata una sorta di revival del genere, tanto che qualcuno ha parlato anche di “neo-nazisploitation”. Posto che l’immaginario è molto simile, cos’è cambiato rispetto ai film dell’epoca?
I “nazi” li hanno buttati in mezzo a ogni cosa, e ultimamente in questi contesti molto fantastici. Però non c’è nessuno che faccia un film exploitation ambientato in un campo di concentramento degli anni Quaranta, per dire. Questo perché oggi è proprio cambiata la correttezza politica, e a nessuno verrebbe in mente di fare una cosa del genere. Questa è la verità: allora nessuno si faceva dei problemi.

A ogni modo, si tratta di film sociologicamente interessanti per capire gli anni in cui sono stati realizzati, e anche per capire un certo tipo di pubblico. Il portiere di notte, che nasce con degli intenti completamente diversi rispetto ai “nazi,” se sfrondato da tutto il resto è riassumibile nell’immagine di Charlotte Rampling seminuda con il berretto delle SS che canta di fronte agli ufficiali nazisti.

Un discorso analago vale anche per Salon Kitty, e stiamo parlando di un film di Tinto Brass, che oggi è considerato un autore. Insomma, la forma mentis dei registi di quegli anni e di quei film era molto particolare; ed è proprio vedendo quelle pellicole che ci si può rendere conto della distanza dall’oggi. 

Oggi te lo immagini uno dei nostri registi d’autore che fa un film in cui si vedono delle donne che scopano con degli ufficiali nazisti? Secondo me no, è una cosa assolutamente inimmaginabile.

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