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Politică

Cosa c'è davvero dentro la convenzione con Autostrade resa pubblica ieri

Sotto la pressione della politica e dell'opinione pubblica in seguito al crollo del ponte Morandi, Autostrade per l’Italia ha pubblicato tutto sul suo sito.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Il ponte Morandi dopo il crollo. Foto via Wikimedia Commons (CC BY SA 4.0).

Due settimane fa, a seguito del crollo del ponte Morandi a Genova, il vicepremier Luigi Di Maio aveva minacciato di pubblicare gli allegati della convenzione stipulata nel 2007 tra Autostrade per l’Italia e Anas. “Ne vedremo delle belle,” aveva assicurato. Come noto, la convenzione era stata segreta fino al gennaio del 2018, quando l’ex ministro dei trasporti Graziano Del Rio l’aveva parzialmente resa disponibile sul sito del ministero. Ma mancavano, appunto, gli allegati più importanti: quelli finanziari, che dettagliano cioè gli investimenti della società e il loro rendimento.

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Ieri Autostrade per l’Italia, evidentemente sotto la pressione della politica e dell’opinione pubblica, ha pubblicato integralmente sul suo sito la concessione, i rinnovi e gli allegati che le assegnano la gestione di oltre 5mila chilometri di rete autostradale fino al 2014—per un totale di circa 600 pagine.

Nel renderli pubblici, Autostrade ha ricordato che “la totalità dei documenti era stata già resa disponibile nella scorsa legislatura ai membri della Commissione Lavori Pubblici del Senato per consultazione” (e quindi anche ai parlamentari di Lega e M5S). La società ha poi voluto sottolineare che “nessuna norma interna o prassi internazionale prevede la pubblicazione di tali documenti relativi alle concessioni autostradali,” principalmente per “assicurare parità di condizioni sul mercato tra i vari operatori del settore.”

Il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli—che sempre ieri ha riferito alla Camera sul crollo, su cui tornerò più avanti—si è intestato il merito della pubblicazione dei documenti, prendendosela anche con i “padroni delle autostrade” che “si sono arricchiti gestendo beni che appartengono a tutti noi.”

Ma cosa c’è, alla fine, dentro questa convenzione? Davvero questi gestori si sono arricchiti a dismisura con “beni che appartengo a tutti noi”? E se ne vedono delle "belle"?

Partiamo subito col dire che, per chi conosce un minimo la materia, non si tratta di nulla di realmente sconvolgente. I documenti sono poi molto tecnici, e tra le varie cose regolano la dote dei finanziamenti pubblici, il meccanismo di revoca e decadenza, il piano finanziario, gli investimenti e la remunerazione del capitale. Su Wired c’è un buon riassunto dei tecnicismi, mentre la parte più interessante è indubbiamente quest’ultima.

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A tale proposito, come riporta il Corriere della Sera, gli addetti ai lavori parlano di “convenzione a prova di bomba.” Qualunque cosa succeda—crisi economiche, minori investimenti, calo del traffico, ecc—Autostrade per l’Italia (Aspi) avrà comunque ogni anno un rialzo delle tariffe pari al 70 percento dell’inflazione reale. In pratica, il segreto non solo tutelava la società dalla diffusione di notizie sensibili come “investimenti e costi di gestione”; soprattutto, proteggeva “meccanismi automatici di remunerazione.”

Quello che emerge, insomma, è un rapporto tra Stato e Autostrade costruito sulla “congrua remunerazione del capitale investito.” Ciò avviene, spiega Fabio Savelli sempre sul Corriere, attraverso complicate formule e parametri. Nell’allegato B, ad esempio, si parla di “calcolo di costo medio ponderato del capitale”; e la sommatoria di tutte le voci è del 10,21 percento lordo, cioè il 6,85 netto all’anno. Nello stesso allegato, inoltre, si mette nero su bianco che ogni investimento comporta per la società un certo rendimento calcolato “sulla base di un tasso di remunerazione pari al 7,18 percento.”

In parole povere, parliamo di una montagna di soldi garantiti sempre e comunque. Secondo l’analisi di Paolo Annone su Sussidiario, i punti chiavi che emergono da questi allegati sono diversi, tra cui: “l’eccessiva remunerazione degli investimenti” senza un “vero rischio imprenditoriale/industriale”; la “mancanza di concorrenza che deriva dalla proroga senza gara”; l’incentivo che il concessionario “ha a spendere a prescindere da qualsiasi analisi,” visto che ogni euro speso determina un alto rendimento, per lo più assicurato da un monopolio di fatto.

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Se si combinano questi documenti con la storia di come i gruppi della famiglia Benetton hanno scalato Autostrade, si capisce poi molto bene di come si sia trattato di un affare davvero strepitoso—ma, inutile girarci attorno, esclusivamente per i privati.

Come evidenziava sul Fatto Quotidiano del 17 agosto il professore Giorgio Ragazzi, autore de I signori delle autostrade, “le concessionarie non hanno mai svolto un ruolo socialmente utile e oggi sono una palla al piede per l’economia, principalmente perché investono in Italia solo una piccola parte del cospicuo flusso di cassa che deriva dai pedaggi.” La gran parte viene infatti investita all’estero per diversificare: basti pensare che nel 2017 Aspi ha avuto un margine operativo lordo di oltre 2 miliardi di euro, ma ha investito sulla rete autostradale solo 517 milioni.

Lo Stato, insomma, “ha regalato quasi tutta la rete autostradale a soggetti che di soldi loro, all’origine, ne hanno investiti pochissimi.” Il problema, dice Ragazzi, è che i contratti devono essere comunque rispettati; e per questo, la revoca è tutt’altro che automatica: sarà lunga, e costellata di ostacoli legali di ogni sorta.

Qui si entra di prepotenza nell’aspetto politico della vicenda: ora che questi documenti sono pubblici, e c’è molta più consapevolezza sull’assurdo sistema delle concessioni, cosa bisogna fare?

Di Maio, giusto ieri, ha confermato la volontà di revocare la concessione e di “nazionalizzare” le autostrade—presentandola altresì come “l’unica soluzione,” perché “non possiamo lasciarle ad [Aspi]: non siamo affetti dalla sindrome di Stoccolma.” Toninelli, nel suo intervento alla Camera, è sembrato più prudente: ha detto che il progetto è quello di valutare di volta in volta se “l’interesse pubblico sia meglio tutelato da forme di nazionalizzazione oppure dalla rinegoziazione dei contratti in essere in modo che siano meno sbilanciati a favore dei concessionari.”

La Lega—che ha preso finanziamenti elettorali da Autostrade e votato il cosiddetto Salva-Benetton—non ha mostrata particolare entusiasmo verso l’ipotesi della nazionalizzazione. Il viceministro alle infrastrutture Edoardo Rixi ha dichiarato al Foglio che “c’è nazionalizzazione e nazionalizzazione, e che bisognerà capire, se si deciderà di procedere” su questa via che—a differenza di quanto annunciato da Di Maio— “è solo una delle vie possibili.”

Una settima prima, al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti ha detto di non essere “molto persuaso che la gestione dello Stato sia di maggior efficienza.” Allo stesso tempo, mettendo le mani avanti, ha detto che sul post-crollo del ponte di Morandi c’è comunque “assoluta uniformità nell’atteggiamento del governo.”

Un’uniformità, tuttavia, che probabilmente esiste solo nelle loro teste. La realtà ci dice altro: ossia, quella di un governo gialloverde che—come in molti altri campi—dice tutto e il contrario tutto, e riesce solo a lanciare proclami roboanti, fare mezzi passi indietro, e riempire le agenzie di frasi contraddittorie.

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