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GUERRA

Siamo stati in Iraq a vedere che fine fanno gli sfollati della guerra contro ISIS

L'UNHCR sta lavorando “senza sosta” per contrastare la probabile catastrofe umanitaria nella regione, ma i soldi non sono sufficienti. VICE News è andata sul posto a vedere di persona la situazione.

Lo scorso lunedì, il premier iracheno Haider al-Abadi ha annunciato l'avvio dell'offensiva finale per liberare dal controllo dell'Isis la città di Mosul. Conquistata nel giugno del 2014, da due anni Mosul è ritenuta dai miliziani di Abu Bakhr al-Baghdadi la capitale irachena dell'autoproclamato Stato Islamico.

Al momento si stima che circa due milioni di civili vivano nella città e nei suoi immediati dintorni, in queste ore teatro di aspri scontri tra jihadisti e forze curde e irachene. Civili che con ogni probabilità - qualora riescano a scampare al rischio di venire utilizzati come scudi umani - andranno presto ad aggiungersi ai tre milioni e mezzo di sfollati di cui le Nazioni Unite si stanno già facendo carico nel Paese: secondo una recente stima, i primi 200mila si metteranno in marcia già nei prossimi giorni.

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Ciò pone però un'enorme problema alla comunità internazionale, dal momento che l'Agenzia potrebbe non essere in grado di assorbire un simile afflusso: appena due giorni fa Lisa Grande, coordinatrice irachena dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati (UNCHR), ha messo in guardia i media riguardo al rischio "di una catastrofe umanitaria" nella regione. "Stiamo lavorando senza sosta," ha dichiarato Grande, "per aprire entro le prossime settimane altri 22 campi di emergenza che ospitino fino a 400 mila profughi in fuga da Mosul. Ma al momento siamo in grado di alloggiarne appena 60mila."

Per avere un quadro più dettagliato della situazione, VICE News è volata in Iraq, dove alla fine di settembre ha incontrato Bruno Geddo, capomissione UNHCR nel paese. "Secondo le nostre stime," ci ha spiegato Geddo, "dall'area metropolitana di Mosul potrebbero fuggire all'incirca 700mila persone, su una popolazione di un milione e mezzo di abitanti. Altrettanti, però, fuggiranno probabilmente dai dintorni della città, ovvero dai villaggi che ne circondano il perimetro, e che al momento rappresentano la prima linea difensiva dell'Isis."

Una prospettiva per nulla confortante anche per l'UNHCR, che ha l'incarico di fornire assistenza agli sfollati. Dal punto di vista economico l'organizzazione è infatti ormai costretta a navigare a vista: al momento della nostra visita, prima ancora dei 22 campi di emergenza appena annunciati ("che in sostanza," ha chiarito Geddo, "consistono in zone di transito, dove gli sfollati vengono alloggiati per periodi preferibilmente brevi all'interno di tende rudimentali composte da un telo e una corda") l'agenzia era impegnata nella costruzione di sette grandi insediamenti che potranno accogliere fino a 65mila persone, in grado di assorbire le prime ondate del flusso che messo in moto dall'offensiva.

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Il tutto con un budget che, a quella data, copriva appena il 40 per cento del fabbisogno stimato per il 2016: vale a dire che, appena tre settimane fa, nelle casse dell'organizzazione mancavano ancora circa 350 milioni di dollari per raggiungere la cifra ritenuta ottimale per la gestione dell'emergenza. "Da questo punto di vista," ha ammesso Geddo, "molto dipenderà da quanto gli sfollati saranno costretti a restare nelle tende: al momento stimiamo di poter resistere tra i sei mesi e un anno, dopodiché avremo urgente bisogno di nuovi fondi dai nostri partner internazionali."

Per darci un'idea di come ciò si traduca nella realtà, il giorno seguente Geddo ci ha accompagnati a visitare il campo profughi di Dibagah, a una quindicina di km a nord-ovest di Makhmur, dai cui dintorni alla fine di marzo è partita la prima fase dell'avanzata.

Ad oggi si tratta probabilmente del più grande tra i campi prodotti dall'offensiva contro Daesh: un agglomerato di tre macro-insediamenti che nei mesi scorsi hanno iniziato a espandersi a vista d'occhio; e che ora circondano per tre quarti quello che fino all'inverno scorso era soltanto un villaggio di casupole in muratura.

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Al momento della nostra visita, Dibagah ospitava poco meno di 50mila sfollati, a fronte di una capienza di appena 27mila. Per alloggiarli, l'UNHCR ha dovuto sistemare ovunque tende e teloni di fortuna: dentro lo stadio da calcio, lungo i sentieri brecciati o all'interno di vecchi stand di legna e reticolato dove una volta stazionavano i venditori nel suq.

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È a Dibagah che sono finiti gran parte dei profughi scappati in estate da al-Qayyarah, Shirqat, Hawija e da tutto quel reticolo di villaggi e cittadine che risalgono lungo il Tigri nel cosiddetto "corridoio" di Mosul. "In quel periodo," ha spiegato a VICE News un volontario UNHCR che a Mosul è nato e vissuto fino al 2007, "soltanto qui la media era di cinquecento nuovi arrivi al giorno". L'uomo ha voluto essere intervistato solamente in condizione di anonimato.

È all'incirca mezzogiorno quando entriamo nel primo settore del campo. Sotto un sole che sfiora i 35 gradi, una folla di uomini è accalcata contro una rete metallica contornata di filo spinato: attraverso una fenditura, un volontario Onu passa loro pesanti contenitori d'acqua potabile, venuta a mancare poco prima in un'area adiacente. In quel momento, un uomo si accosta a noi, strattonandoci appena.

"Voglio mostrarvi una cosa," dice. "Seguitemi, per favore." Sostiene che poco prima, in un'area dedicata ad alloggiare gli uomini senza famiglia al seguito, uno dei nuovi arrivi si sarebbe suicidato. "È successo almeno tre ore fa," spiega, "e nessuno è ancora venuto a raccoglierlo. Lo stanno lasciando a marcire sotto il sole come la carcassa di un cane". L'area per i single altro non è che un enorme tendone col pavimento tappezzato di materassini da palestra: a occhio e croce, vi dormiranno tra i 200 e i 300 uomini.

Appena realizzano che siamo giornalisti, la maggior parte di loro ci circonda con fare vagamente minaccioso, impedendoci di proseguire. Uno, però, viene fuori dalla folla: con lo sguardo nel vuoto, estrae da una tasca un foglietto di carta vergato in arabo. Se lo tiene al petto appena qualche secondo, prima di dileguarsi di nuovo. "Quella era una sentenza di morte," ci dice il nostro accompagnatore, mentre percorriamo la strada all'indietro. "Una corte islamica lo ha condannato per non aver restituito una piccola somma di denaro; ma in qualche modo è riuscito a fuggire."

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In seguito, il volontario dell'UNHCR ci spiegherà che in molti a Dibagah conservano le sentenze con cui i tribunali del Daesh hanno mandato a morire i loro parenti. "Da qualche tempo," dice con un sorriso amaro, "sembra siano tutti accusati di spionaggio: per i Peshmerga, per gli sciiti o per l'esercito, poco importa. Per loro sono tutte spie. Li decapitano, li mutilano sulla pubblica piazza; alcuni li hanno perfino fulminati con la corrente elettrica."

Per mesi, l'accesso a Dibagah è stato vietato ai giornalisti. Il campo è considerato un obiettivo sensibile: a inizio primavera, un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di uno stadio nella vicina Makhmour, dove un gruppo di sfollati attendeva d'esser trasferito qui. Da settimane, inoltre - nell'area di quarantena, dove ogni nuovo arrivato trascorre le prime 72 ore - le forze di sicurezza curde e irachene continuano a identificare e arrestare decine di sospetti infiltrati.

"Daesh," ci ha spiegato un agente, "vuole mandare qui i suoi uomini, in modo che possano destabilizzare anche il resto del paese quando Mosul sarà persa. Per individuarli usiamo una nostra rete di informatori; ma spesso sono gli stessi sfollati a riconoscerli e a indicarceli." Posta subito dopo i checkpoint all'ingresso del campo, l'area è delimitata da una spessa rete metallica presidiata da guardie armate.

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Quando entriamo, una quindicina di adolescenti siede attorno a un assistente sociale iracheno, che al collo ha un badge della organizzazione non governativa internazionale Terre des Hommes. "Sono fuggiti a gruppi di tre o quattro - racconta - dai villaggi attorno ad Hawija, 50 chilometri più a sud. I loro genitori erano troppo anziani per seguirli, ma se fossero rimasti rischiavano il reclutamento forzato, magari come kamikaze". Secondo Mahmoud, nelle ultime settimane d'estate il numero dei minori non accompagnati è andato crescendo di giorno in giorno. Per uscire dai territori controllati dal Daesh devono affidarsi ai passeurs locali, che conoscono i percorsi meno battuti dai miliziani e sono in grado di individuare le trappole esplosive: un "passaggio" costa in media sui duemila dollari, l'equivalente di una traversata dalla Libia alle coste siciliane. Ma i rischi, del resto, sono enormi: due dei ragazzi raccontano che a un amico scoperto a fuggire i terroristi avrebbero tagliato entrambe le gambe, lasciandolo morire dissanguato.

Ma non è solo con traumi e ricordi dolorosi che devono vedersela gli adolescenti a Dibagah. Sul finire di agosto, Human rights watch ha denunciato il reclutamento di almeno sette minori da parte di Hashad al-Asha`ri, una milizia sunnita che al momento avanza verso Mosul al seguito dell'esercito iracheno.

"Il problema," spiega il volontario UNHCR, "è che rispetto ad altre milizie assoldate dal governo, il loro effettivo è piuttosto esiguo. Ragion per cui avevano paura di essere marginalizzati dagli sciiti delle Forze di mobilitazione popolare, che in quel periodo spingevano per partecipare all'offensiva. Così, a metà agosto sono arrivati a bordo di un camion e hanno reclutato più di 200 sfollati, tra i quali i sette ragazzi. Di loro non abbiamo più notizie da allora. Sappiamo solo che li hanno portati sulla linea del fronte."

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Ancora qualche giorno, e l'Alto commissariato Onu per i rifugiati si troverà a gestire una trentina di nuovi campi come questo. Altre trenta cittadelle, con i medesimi problemi di sicurezza, sovraffollamento, stress post-traumatico. E con un budget che, soltanto tre settimane fa, non arrivava a coprire neanche la metà del necessario.

Guarda il nostro documentario: Lo Stato Islamico


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Tutte le fotografie di Antonio Michele Storto/VICE News