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Musica

Il Primavera visto da una persona alta un metro e cinquanta

Vi auguro di rinascere ragazza bassa ai concerti.
primavera sound 2018

Il Primavera Sound è il festival dei quarantenni, o il festival del fratello scemo. Il primo soprannome si riferisce anagraficamente alla line-up, i cui nomi principali di solito hanno raggiunto il loro zenit nel 1995; il secondo ha a che fare con il curioso fenomeno per cui se Tove Lo ha appena fatto un disco che spacca, gli organizzatori del Primavera decidono puntualmente di chiamare l’altra popstar svedese meno brava: Lykke Li, ossia la sorella scema. Questo fenomeno si riverbera per tutta la line-up, non c’è scampo.

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Curiosamente questi sono anche i due motivi che rendono il Primavera un festival perfetto per chi non ama particolarmente la musica, il disagio e la folla. La scelta di chiamare musicisti vecchi e fratelli scemi rende l’atmosfera rilassata, piacevole. A chi importa davvero di ascoltare gli Arctic Monkeys quando i MGMT, che naturalmente non mettono piede al Primavera, hanno finalmente prodotto dopo anni di sospiri rassegnati un album al pari di Oracular Spectacular? A chi può piacere così tanto Kelela quando esiste SZA che si tiene ben lontana dal Parc del Fòrum? E quanto possono essere aggressivi i fan di Björk?

Quindi le persone si muovono lente, non pogano, bevono spritz e si siedono sui prati consapevoli di poter tornare nei loro appartamenti in centro città con un taxi che costa la metà che in Italia – perché i festival in tenda li abbiamo fatti tutti a causa di una forma morbosa di peer pressure che grazie al padreterno con il passare degli anni si affievolisce, una volta capito che polvere siamo e polvere ritorneremo.

L’unico vero problema – ma si tratta di una questione ontologicamente irrisolvibile che riguarda qualunque concerto in ogni parte del globo – rimane l’altezza. Proprio i centimetri che separano la pianta del piede dalla calotta cranica, che nel mio caso sono 156. Con 156 centimetri non sono mai riuscita a vedere un artista, dico uno, in azione sul palco. Sapete cosa vuol dire? Che odio i concerti. Li odio. Mi annoio a morte, le schiene altrui tagliano le alte frequenze per cui il flusso di onde che mi arriva mi ricorda la vita intrauterina; schiacciata in mezzo a una folla liquida la mia unica speranza è che la persona posizionata davanti a me non decida di pippare o farsi di md per poi darmi delle gomitate sul naso.

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Come dice saggiamente lo status di Facebook di una mia amica: “Vi auguro di rinascere ragazza bassa ai concerti”.

Björk

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Per tutta la durata del concerto ho potuto godermi la schiena di questo ragazzo che mi piace pensare abbia confuso Björk e Beyoncé. Se così fosse, immagino la meraviglia di vedere Beyoncé rimpicciolita e vestita come un salmone traslucido che si agita sul palco fuori tempo in mezzo a uno stuolo di flautiste islandesi che circondano quella che, tra una spalla e l’altra, mi sembra essere una grandissima vulva. Malgrado il mio handicap fisico, bisogna ascoltare Björké live almeno una volta nella vita, perché non esiste un’altra artista del suo calibro, soprattutto non esiste un’altra artista che sia al contempo afro-americana e islandese e che abbia cantato "All the Single Ladies" nel film di Lars von Sant.

Nick Cave and the Bad Seeds

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Non ero particolarmente interessata ad ascoltare Nick Cave perché fa parte della quota quarantenni. E invece meno male che un amico mi ha costretta a rimanere. Innanzitutto ho potuto ammirare il tatuaggio di questo ragazzetto: già lo vedo che entra dal tatuatore chiedendo: “Vorrei che mi tatuassi la faccia di un tipo, uno a caso. Ah, e ti prego, non farmi una roba bella che se no non posso più essere fan di Nick Cave”. Subito dopo ha anche deciso di alzare il suo telefono al cielo e fare un video, di modo da farmi vedere cosa stesse succedendo sul palco tramite il piccolo schermo dello smartphone, io gliene sono grata. Anche perché subito dopo è arrivata la principessa Leia:

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Tatuaggio a parte, penso che Nick Cave sia stato il miglior concerto del Primavera. Era da tanto che non sentivo un gruppo suonare così, e lui è una sorta di messia circondato da donne che amano molto il teatro-danza che piangono e si sbracciano finché lui non le fa salire sul palco tra fiumi di lacrime e orgasmi. Bello.

Lykke Li, che purtroppo non era Tove Lo

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Sono andata ad ascoltare qualche pezzo di Lykke Li sperando che in qualche modo mi ricordasse Tove Lo. E invece niente, era proprio Lykke Li in tutta la sua noia. In compenso la ragazza di fronte a me aveva sapientemente abbinato capelli e scottatura, sono tuttora molto ammirata. Tra l’altro il pubblico di Lykke Li è composto per lo più da svedesi alte, quindi sono riuscita a intravedere solo per un attimo l’artista vestita di latex nero con 25 gradi, per il resto ho fissato con aria sognante le ragazze bellissime che avevo di fronte.

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Lorde Michielin

Io lo so che è un’opinione impopolare perché Lorde è in realtà Francesca Michielin e quindi le si vuol bene, ma non ha voce. Proprio non ne ha un filo. Non mi sono neanche data la pena di ascoltare più di cinque pezzi o di fare una foto a una schiena perché a un certo punto mi sono un po’ imbarazzata per lei: dal palco chiedeva al microfono qualcosa di incomprensibile e scontato tipo “Have you danced enough?”, ma a nessuno arrivavano le sue bassissime frequenze e quindi dal pubblico non è volata una mosca. Al che, piena di disappunto, ha riproposto la domanda urlando ancora di più nel microfono e finalmente qualcuno le ha mandato un cenno di vita, credo. Io però proprio non sono riuscita, per cui me ne sono andata altrove a non vedere nulla.

Charlotte Gainsbourg

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La Charlotte mi è piaciuta perché ero seduta su una cosiddetta “pratella”. L’ultimo disco è l’espressione più alta dell’elettro-pop francese elegante, e lo ammetto riottosamente perché spero sempre di non farmi fregare dalle parigine figlie d’arte sofisticate. Lei non prende una nota, neanche se la paghi a cottimo di semitono imbroccato, ma la sbaglia sempre bene, sempre con stile. Sua madre invece, vista di sfuggita il giorno successivo verso il tramonto, non si può sentire. Ma va bene così, pensate che palle se vostra madre, a 150 anni, dopo essere stata la donna più bella del mondo con borsa iconica di Hermès dedicatale, fosse ancora più brava di voi. Poi non la si finisce più di stare in analisi e fare film con Gus van Trier insieme a Björké.

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Cigarettes After Sex

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Un gruppo di assicuratori che cantano delle canzoni tristi. Mi faceva notare il mio amico medico quarantenne che per motivi di privacy mi ha espressamente chiesto di essere chiamato Jijijoji, che uno dovrebbe cominciare a insospettirsi già dal nome. In effetti Le sigarette dopo il sesso potrebbe essere serenamente il titolo del nuovo album del Liga. Anzi, meglio ancora, Le sigarette dopo l’amplesso, che fa più sudore, più provincia. Davanti a me c’era infatti il classico fan del Liga, avvolto nella sua classica giacca in denim.

The National

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Sono veramente la band più etero di tutte e il cantante ha una carriera parallela da agente immobiliare in Ohio. I loro fan bevono birrozze e comprano le Opel. Però ho pensato a diverse cose mentre non vedevo nulla a causa degli opelisti qui sopra: innanzitutto che probabilmente Arca invece di continuare a essere succube di Björké dovrebbe cominciare a esibirsi con i National. In questo modo il livello di queerness estremo sommerebbe a zero con gli agenti immobiliari che mi vanno a comporre i National e magari ci si potrebbe divertire.

Poi ho anche pensato un’altra cosa. Mi sono immaginata di trovarmi all’improvviso a essere io la batterista dei National. Cioè il batterista vero si ritrova a essere una ragazza molto bassa italiana che non vede una sega e di certo non sa suonare la batteria, e io mi ritrovo lì sul palco a non sapere cosa fare. Il concerto si ferma, il cantante dopo aver cercato di vendere una villetta bifamiliare si impanica e mi guarda dritto negli occhi mentre io sono paralizzata/o dall’ansia. Perché come la spieghi la situazione in cui ti sei scambiata di posto con un musicista?! Non la spieghi mica, ecco.

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Oneohtrix Point Never, Jon Hopkins, The Blaze

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Mentre suonavano gli Arctic Monkeys me ne sono saggiamente andata nell’area elettronica, che il Primavera da un paio d’anni ha ampliato dopo varie edizioni passate ad assistere alla sfilata di persone-lemuri in cerca di elettronica che dopo la mezzanotte affollavano confusamente i concerti rock. Mi sono unita anche io al branco di lemuri pacifici e sorridenti, e ho ascoltato seduta su una ritrovata pratella Oneohtrix Point Never che dopo un momento folk (?) iniziale ha iniziato a incupirsi e quindi a piacermi. Di Jon Hopkins ho dei ricordi tanto vaghi quanto positivi.

Una delle tradizioni più poetiche del Primavera è attraversare il lungo ponte che separa i lemuri dagli esseri umani durante l’ultima notte di festival: l’aria fredda in faccia, gli sconosciuti con i sorrisi ebeti, gli amici che improvvisamente vogliono offrirti benevolmente delle sigarette e le gambe vivaci che se ne trotterellano in giro. Anche quest’anno la tradizione è stata onorata e sono finita ad ascoltare i The Blaze, il duo elettronico francese che gli etero rivendicano in termini di bromance e i gay in termini di gay. Sono elegantissimi. Uno di fronte all’altro davanti ai synth, avvolti in una luce bianca, la voce con un tiro incredibile. Vi chiederete come ho fatto a vederli: semplice, mi sono arrampicata su delle spalle altrui come una proscimmia e ho scattato l’unica foto decente di tutto il festival.

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Non è possibile passare in rassegna tutto quello che non sono riuscita a intravedere tra una spalla e l’altra perché le recensioni dei festival non hanno senso quindi per amor di brevità cerco di fare un sunto molto rapido degli altri artisti: Vince Staples e Tyler, The Creator naturalmente sono ottimi, ma i live con troppa roba in base sono tediosi (soprattutto perché a volte l’impianto si ferma e rimane un Vince arrabbiatissimo sul palco), le Haim credo siano state inventate dal Primavera Sound perché le impongono ogni anno senza che interessino a nessuno, i Grizzly Bear sono bravi su disco e noiosi dal vivo, cinque minuti al concerto delle Breeders danno 5 punti di empowerment femminista, Nils Frahm spacca, gli Slowdive pure, tale Lindstrøm dovrebbe, se proprio vuole, suonare alle 16 del pomeriggio e non alle 5 del mattino.

Fatto, non vedo l’ora di ritornare l’anno prossimo, davvero. È il festival più rilassante che esista.

Lascio qui la testimonianza di quando ho aperto la fotocamera dal lato sbagliato ascoltando qualcosa che non mi stava piacendo:

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