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I pro e contro delle chiusure domenicali, spiegati da due esperti

Dopo che il tema è tornato al centro del dibattito per la dichiarazione di Giuseppe Sala, abbiamo provato a capirci qualcosa.
chiusure domenicali
Immagine via Flickr (CC BY-SA 2.0).

Nel weekend appena trascorso è tornato al centro del dibattito politico un argomento che sembrava ormai accantonato: le chiusure domenicali. Stiamo parlando della proposta del M5S—che aveva animato le ultime settimane di settembre—di imporre “uno stop nei weekend e nei festivi a centri commerciali ed esercizi commerciali,” abrogando quindi le liberalizzazioni sugli orari introdotte nel 2011 dal governo Monti, che, secondo Di Maio, starebbero "distruggendo le famiglie italiane”.

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Ecco: durante un convegno sul ‘lavoro al femminile’ organizzato dal settimanale Elle presso l'Università Bicocca di Milano, questo sabato il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha dichiarato: "Se [le chiusure domenicali] le vogliono fare in provincia di Avellino le facciano, ma a Milano è contro il senso comune. Pensassero alle grandi questioni politiche, non a rompere le palle a noi che abbiamo un modello che funziona e 9 milioni di turisti.”

Sala—che in seguito si è scusato con gli avellinesi—non ha preso ad esempio la città campana a caso. Ad Avellino, infatti, è nato proprio il primo promotore della proposta: Luigi Di Maio. Il quale ha risposto al sindaco di Milano etichettandolo come un "fighetto" per cui "i diritti delle persone sono una rottura di palle."

A prescindere dagli ultimi botta e risposta, è indubbio che le opinioni sulle chiusure domenicali siano dal principio molto diverse. Se fin da subito i sindacati hanno accolto la proposta in modo generalmente positivo, l’opposizione, da PD a Forza Italia, ha dato giudizi molto negativi. Meno compatta, invece, è stata l’opinione delle associazioni di settore: per Vincenzo Boccia di Confindustria si tratterebbe di un provvedimento “punitivo e dogmatico”; Cna Turismo e Commercio hanno dichiarato perplessità e Claudio Gradara, di Federdistribuzione ha sottolineato in un’intervista al Corriere come i posti a rischio potrebbero essere fino a 40 mila. Anche i vescovi hanno detto la loro, definendo la chiusura domenicale una “grazia di Dio”.

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Alberto Gherardini e Andrea Bellini sono ricercatori del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Firenze. Hanno pubblicato uno studio sulle condizioni di lavoro e le dinamiche contrattuali all’interno di uno dei luoghi che meglio rappresentano la società contemporanea: il centro commerciale. Che nel loro caso coincide con il centro commerciale di Empoli. Li abbiamo sentiti per sapere come funzionano le dinamiche lavorative di un centro commerciale e cosa pensa davvero chi ci lavora.

COM’È LAVORARE IN UN CENTRO COMMERCIALE

I centri commerciali, come spiegano anche Gherardini e Bellini, sono luoghi complessi. A differenza dai centri cittadini, dove tutto è più o meno a portata di mano, si tratta di luoghi isolati dai servizi più comuni: scuole, asili, ambulatori medici, servizi amministrativi. È, sì, più facile parcheggiare, ma la conciliazione tra vita e lavoro è nettamente più difficile.

Inoltre i centri commerciali raggruppano esercizi molto diversi tra loro, dai piccoli negozi a quelli grandi, come i supermercati. E qui l’indagine rivela qualche sorpresa. Perché se i grandi store hanno la capacità e la volontà aziendale di organizzare dei turni, anche equilibrati, sono i negozi più piccoli a chiedere ai propri dipendenti gli sforzi maggiori. Lo studio dei due ricercatori ha fatto emergere infatti una polarizzazione tra i dipendenti dei negozi più grandi e quelli dei piccoli esercizi, con questi ultimi esclusi dai benefici della contrattazione aziendale e fuori dal raggio d’azione dei rappresentanti sindacali.

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GRANDI STORE VS PICCOLI NEGOZI

Da un lato, quindi, abbiamo i dipendenti degli anchor store (supermercati, grandi catene…), che hanno orari più ridotti e un’organizzazione per turni che permette di distribuire il lavoro festivo tra molti dipendenti. Dall’altro ci sono invece i lavoratori dei piccoli negozi, con un orario più lungo, sia durante la settimana che nei festivi. I giovani in particolare. Tutto questo perché i negozi piccoli si regolano in modo informale, basandosi soprattutto su negoziazioni individuali tra datori e dipendenti. I negozi più grandi, invece, beneficiano di una regolamentazione formale che si esprime con la contrattazione aziendale, sostenuta dai sindacati.

PERCHÉ I LAVORATORI SONO SCONTENTI?

Se circa due terzi degli intervistati dicono di essere soddisfatti dell’orario di lavoro infrasettimanale, i turni festivi scontentano un po’ tutti, senza distinzioni tra grandi e piccoli negozi. Il 90 percento del campione di Gherardini e Bellini ritiene che le aperture festive comportino sacrifici personali, il 79 vuole ridurre il numero di aperture e solo per il 36,5 i festivi rappresentano un buon modo per integrare il propio reddito.

In particolare, i lavoratori vorrebbero avere più voce in capitolo nella scelta dei turni, mentre spesso si tratta di decisioni prese in modo unilaterale dall’azienda. Quasi tutti sentono l’esigenza di decidere da soli come passare quello che, convenzionalmente, è considerato “il tempo della festa.” Ma mentre i lavoratori dei grandi store incanalano l’insoddisfazione nelle forme tradizionali della rappresentanza, i dipendenti dei piccoli negozi scontano un certo isolamento.

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PERCHÉ L’AZIENDA HA COSÌ TANTO POTERE

Le aziende, sia grandi che piccole, hanno molti strumenti per costringere un lavoratore ad accettare un turno che preferirebbe non fare. Prima ancora che dalle caratteristiche dei contratti, che certo contano, la possibilità di 'ricatto' nasce dal fatto che il nostro mercato del lavoro tira poco e che un licenziamento significa spesso disoccupazione, talvolta prolungata.

Secondo Gherardini e Bellini, ciò che ci vorrebbe è un governo che si impegni di più sul fronte della promozione dell’occupazione attraverso il sostegno allo sviluppo economico. Che non si fa tenendo aperti i negozi anche la notte, ma con investimenti seri per accrescere la competitività delle aziende, promuovendone la crescita e l’organizzazione.

QUAL È IL RUOLO DEI SINDACATI?

Nonostante la crisi della rappresentanza—confermata anche dagli studi dei due ricercatori—i sindacati sono organizzazioni ancora popolari (le sole CGIL, CISL e UIL hanno quasi 12 milioni di iscritti, circa la metà dei quali lavoratori attivi).

Come tutte le grandi organizzazioni, però, tendono a ossificare le loro pratiche, a burocratizzarsi, e a riprodurre all’infinto rituali che molti, soprattutto tra i giovani, non comprendono più. Secondo Gherardini e Bellini, il grande errore dei sindacati è stato quello di aver lavorato troppo bene per i propri iscritti e poco per gli altri lavoratori, i cosiddetti outsider. Rischiando, in questo modo, di riprodurre le disuguaglianze tra i lavoratori, anziché ridurle. In generale, se vorranno allargare la propria base di consenso, i sindacati dovranno guardare di più ai “margini” del mercato del lavoro.

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PERCHÉ IL RIPOSO DOMENICALE HA UN VALORE SIMBOLICO

Dicevamo, all’inizio, che secondo l’esperienza dei due ricercatori la regolazione del lavoro domenicale e festivo potrebbe rappresentare un buon passo, a patto di disporre di appigli normativi tali da coordinare le aperture.

In particolare, i due sottolineano l’importanza del valore simbolico di un intervento di questo tipo: “Si tratta di promuovere un diverso modo di fare impresa, improntato a una maggiore responsabilità sociale. Di impedire ai bad employer di dettare la linea e di innescare una concorrenza al ribasso dei diritti dei lavoratori. E anche di veicolare una rinnovata cultura del lavoro, che non sia solo 'sacrificio', ma anche strumento di emancipazione. Rafforzando anche le basi del vivere insieme, restituendo agli individui gli spazi e i tempi per lo sviluppo dei legami sociali. Che sia la messa domenicale, il pranzo in famiglia o la partita di calcio.”

LAVORARE LA DOMENICA NON PIACE A NESSUNO

Secondo alcuni commentatori, quando Monti nel 2011 avviò la liberalizzazione, mancò di inserire alcuni importanti paletti a tutela dei diritti dei lavoratori, sopravvalutando la correttezza della grande distribuzione.

Detto ciò, se le aperture limitate a otto domeniche l’anno e le turnazioni proposte da Di Maio dovessero prevalere, i nodi da sciogliere resterebbero tanti, dallo “statuto speciale” per le zone turistiche all’e-commerce, per non parlare del criterio da adoperare per stabilire la turnazione, perché le domeniche, in termini di vendita, non sono certo tutte uguali.

Ma soprattutto resta l’incognita rappresentata da tutti coloro che, in Italia, la domenica lavorano e continueranno a farlo. Tolte le professioni legate a servizi essenziali (medici, forze dell’ordine, trasporto pubblico…), resta una grossa fetta di lavoratori, spesso legati proprio allo svago domenicale, come cinema, teatri, mostre, ristoranti ed eventi sportivi.

Secondo lo studio della Cgia di Mestre sono quasi cinque milioni, di cui 1.300.000 lavoratori autonomi.