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A8N4: Il numero dello spettacolo

Actress

Intervista a Darren J. Cunningham, in arte Actress.

Interrogato sul perché abbia deciso di darsi un nome d’arte del genere, apparentemente immotivato e per di più femminile, Darren J. Cunningham solitamente glissa, e con buona ragione. Si giustifica dicendo che era fatto, che erano le sei del mattino, o che l’Inghilterra è la patria dei musicisti che giocano con la propria identità sessuale. La forza di un monicker del genere sta tutta nel carico di immagini vaghe ed evanescenti che evoca, effetto poi triplicato dalla sottile oscurità del suo sound. Che lui lo voglia o meno, in uno pseudonimo del genere c’è dentro Hollywood, con tutte le sue luci e, soprattutto, le sue ombre. C’è da dire, però, che a Darren non potrebbe fregare di meno di diventare un divo (o una diva). Il suo lavoro di musicista è assolutamente introspettivo, perfino spirituale. È musica perennemente in bilico tra beat e riflessione, tra rigore psichico e sudore. Oltretutto, prima di iniziare a produrre quelle tracce che lo hanno portato al top della classifica annuale di una rivista iper-rispettata come The Wire, Cunningham era un calciatore semi professionista (carriera che ha dovuto mollare in seguito a un infortunio). Questo mi fa ipotizzare che parte di quell’approccio venga proprio da lì: dalla disciplina intrinseca all’essere uno sportivo, e dalla concentrazione totale che il gioco richiede. Mi viene quasi da pensare che tutte quelle chiacchiere da samurai nelle pubblicità anni Novanta delle marche sportive non fossero stronzate al 100 percento. L’idea di una spiritualità nel gioco, in fondo, non è più stupida dell’idea di spiritualità nell’arte, e sia che si parli di calcio, musica o recitazione, in inglese si usa sempre il verbo “to play”. A ulteriore riprova di questa tesi, il fatto che l'ho intervistato dopo una sua performance in un teatro, il Franco Parenti di Milano, in occasione della preview di Club To Club Alfa Romeo MiTo // #C2C12.

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VICE: Iniziamo da cose recenti. Il tuo EP Rainy Dub mi sembra meno orientato al dancefloor, più un’esplorazione del lato astratto e sperimentale della tua musica. 
Darren J. Cunningham: Be’, io cerco solo di mantenere vivo il mio interesse, di esplorare nuovi ritmi, perché alla fine si tratta comunque di ritmi, in forme diverse. Cerco sempre di esplorare le due facce di ogni medaglia, magari privilegiando un aspetto piuttosto che un altro. Direi che in questo caso volevo concentrarmi più sul suono in sé, e sentirmi meno vincolato all’idea di far ballare la gente.

Te l’ho chiesto perché mi sembra che ultimamente ci sia molta voglia, specialmente tra i musicisti inglesi, di riconciliare i mondi dell’elettronica dance e della sperimentazione radicale, che sono stati piuttosto lontani per qualche anno. Pensi sia perché il pubblico vuole nuove sfide, o semplicemente i musicisti ascoltano più roba?
Be’, il pubblico vuole decisamente nuove sfide… E, per quanto mi riguarda, il pubblico sono io! Bisogna correre dei rischi, prendere nuove strade e rimanere sempre stimolati e stimolanti. C’è talmente tanta roba da consumare che tutto si trasforma solo in un chiacchiericcio, un rumore. Me ne rendo conto ogni giorno. Quando produco musica, invece, ho bisogno di infilarmi in uno stato di quiete per rielaborare tutta quell’informazione. È questa giustapposizione dei due stati che mi piace. Il rumore intorno a me c’è ancora, ma in qualche modo riesco a tenerlo fuori… o anche a farne entrare un po’, a volte. Come dicevo, si tratta di confrontarsi con il rumore intorno a te. Ma non registrandolo, che sarebbe troppo ovvio, piuttosto rielaborandolo. È questo che sto esplorando al momento, anzi che esploro da un po’ di tempo, a dire il vero.

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Interessante. In effetti la tua musica, così come moltissima elettronica made in UK, rende a volte quel senso di “solitudine nella folla”, un po’ malinconico e spettrale. Anche quando si tratta di roba molto ballabile. Pensi che sia il “rumore” a creare questa sensazione oscura di isolamento?
La cosa su cui cerco di concentrarmi quando creo musica è la natura. La bellezza intorno a me ma anche il suo contrario che, be’… credo sia la solitudine, la tristezza. Mi interessa metterle insieme, per cui probabilmente è così. Per quanto riguarda gli artisti britannici in generale, direi che la mia generazione è cresciuta in un periodo talmente importante per la musica elettronica, abbiamo vissuto l’hardcore, la jungle… C’erano i rave, con quella mentalità autenticamente tribale, per cui la gente sviluppava rapporti molto diversi da quelli che nascono oggi coi mass media. Allo stesso tempo abbiamo vissuto un’epoca di cambiamenti sociali incredibili, anche pesanti, a tratti. Per cui io credo che il punto sia sempre la sovrapposizione di questi aspetti così diversi. Questa doppia esposizione.

Il tipo di immagine che ho in mente è quello degli ultimi momenti di un rave, poco prima dell’alba, quando l’atmosfera inizia appena a calare.
Sì, ho presente quella sensazione. Magari fa parte delle tue esperienze e l’hai collegata per quello. Non so come stiano le cose qui in Italia, immagino che crescendo ti sia capitato di sentire un botto di Italo Disco… no?

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Be’ non proprio, o almeno non solo. Io, poi, vengo dal punk e dal noise, ma mi sono fatto anche un botto di rave illegali. Roba tekno europea molto pesante, atmosfera molto freak.
Ecco, vedi, ognuno ha il suo background. Anche il luogo in cui sono cresciuto mi ha influenzato. Era il tipico scenario delle Midlands. Ha sicuramente a che fare con la solitudine, ma niente a che fare con l’essere bombardati di informazioni. Non è urbano. Non somiglia per niente a Londra, questo è sicuro.

Ho letto un’intervista in cui parlavi del tuo viaggio in Congo, di come il fatto di avere imparato lì a suonare le percussioni ti ha insegnato che si può creare un beat a partire dal corpo. La cosa ha influenzato la tua musica?
Assolutamente. È diventato una sorta di rituale per me, un modo di “evocare” dal nulla il beat sul quale poi lavorerò. Ogni volta che inizio a creare qualcosa di nuovo parto da quello, lo uso come spunto. Ma a colpirmi e influenzarmi di più è stato l’approccio che la gente di lì ha nei confronti della musica, ma anche nei confronti della vita in generale è stato davvero… “KABOOM!!”… devastante. Hanno un accesso talmente limitato alle risorse, ma allo stesso tempo hanno una cultura molto viva e approcciano le cose in maniera spontanea, tentando di ottenere il massimo dal poco che hanno. Per esempio, il fatto di non poter avere quasi mai accesso a strumenti decenti non è assolutamente un limite. È stata un’esperienza che mi ha dato molto in termini di ricerca spirituale applicata alla musica. Ho vissuto tutta la vita convinto che esista un Dio e molto spesso la mia musica nasce anche dal farsi domande sulla sua natura.

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E la ritualità di cui sopra prevede qualche forma di disciplina?
Non una molto stretta, credo. Ci sono periodi in cui riesco ad essere molto costante, in cui sento il bisogno di passare molto tempo in studio a suonare, ma anche altri in cui non ho davvero voglia di fare niente. In generale cerco di tenermi attivo, ma non sempre è possibile.

Pensavo che il fatto di avere un passato da calciatore semi professionista potesse averti fornito dato una certa disciplina, applicabile anche al fare musica.
Quello sicuramente, e infatti credo che nel periodo in cui ho iniziato a prendere sul serio la musica, cioè subito dopo avere smesso di giocare, avessi un approccio molto più di quel tipo. Probabilmente, comunque, si trattava soprattutto dell’entusiasmo di quando inizi un progetto che per te è importante, che per forza di cose poi si riduce, una volta che inizi ad avere un rapporto più maturo e riflessivo con quello che fai. Però credo che sia proprio l’avere appena chiuso con qualcosa in cui mettevo così tanto ad avermi dato quell’energia e quell’entusiasmo.

Pensi fosse anche un senso di rabbia? Un modo di incanalare la frustrazione che provavi a non poter più andare avanti col calcio?
Potrebbe essere, sì, però poi col tempo si impara a fare i conti con certe cose, e si inizia a mettere cose diverse in quello che si fa. Comunque, tornando alla disciplina, quello che faccio ogni volta che registro un album è, più che altro, cercare di andare a fondo di un’idea sonora che ho e che voglio esplorare.

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Direi che si sente, ogni tuo album sembra avere una propria identità, un diverso percorso sonoro.
Io voglio che sia così. Ogni lavoro nasce da esigenze diverse, e non deve suonare come quello precedente. Io faccio musica soprattutto per me stesso, non per compiacere un pubblico, per cui ho bisogno che ogni mio disco sia coerente con quello che sento nel momento in cui lo creo.

Splazsh, ad esempio, è molto influenzato dalla techno di Detroit. Anche in quel caso trovo curioso che molti musicisti inglesi siano influenzati da quel sound, ma lo stravolgano, infilandoci quella malinconia di cui parlavamo prima.
Ti ripeto: credo sia per via della quantità di musica diversa e interessante che abbiamo ascoltato crescendo. La Detroit techno è stata un mio grande amore, mi affascinava il fatto che fosse musica fatta da neri in un preciso periodo storico e in un preciso luogo. Però quando facevo il dj potevo suonare tanto quella roba quanto i Cure, per dire…

Invece live come ti comporti? C’è una dimensione rituale anche lì? Hai bisogno che il pubblico ti restituisca qualcosa in termini energetici?
Non credo proprio, anche in quel caso suono soprattutto per me stesso. Voglio dire, penso di rendermi conto piuttosto bene da solo se sto suonando bene o male. Cerco di dare il meglio e fare ogni volta qualcosa che mi piace, ma suono live soprattutto per avere la possibilità di viaggiare e fare nuove esperienze. Per me anche solo il fatto di essere qui in Italia, un luogo in cui non ero mai stato prima, a vedere come vive la gente e scambiare esperienze con persone diverse da me, è molto importante. Fa tutto parte di una mia evoluzione. Non mi interessa essere adulato.

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Ma un conto è venire adulato, un altro trovarsi davanti a un pubblico fastidioso. Per esempio, io quelli di stasera li avrei ammazzati, continuavano a chiacchierare tra di loro come se non gliene fottesse niente del concerto. Neanche ballavano.
Guarda, riesco davvero a non curarmene, soprattutto se quello che sto facendo mi mette in uno stato mentale interessante. Per questo non faccio più il dj, è una cosa che non mi interessa più.

E pensi che il fatto di suonare con un laptop ti aiuti a concentrarti?
Sì. Pensa che quando ho iniziato non era così, suonavo con synth e campionatori… praticamente portavo tutto il mio studio sul palco, perché credevo di dover mostrare alla gente quello che facevo, mi sembrava più onesto. Era faticoso e, in fin dei conti, anche inutile. Ora non mi sento assolutamente in dovere di mostrare niente.

Parlami di Werk Discs, la tua label. Come decidi chi e cosa pubblicare? Ti interessa documentare un momento, o una scena?
Si tratta più di capire qual è il suono del momento. Non nel senso di quello che vende, ma di quello che alla gente interessa creare, perché ha qualcosa da dire sullo stato delle cose in quel periodo. Non per intrattenere, ma per comprendere l’attitudine di un’epoca.

Ed è importante che la label abbia un suo suono organico e preciso?
Credo di sì, anche se si può evolvere col tempo.

Non è per niente una questione di provenienza geografica quindi?
Mah, invece sì… Non devono essere artisti di uno stesso paese, ma la geografia c’entra perché spesso è viaggiare, andare a suonare in giro, il che mi porta a conoscere artisti interessanti che mi viene voglia di pubblicare.

Ti faccio un’ultima domanda, potenzialmente stupida: un tempo il rapporto tra droga e musica elettronica era molto stretto, ora le cose ti sembrano cambiate?
No, perché? A me sembra che la gente si droghi ancora.

Certo, ma non è più una connessione così ovvia. Un tempo era quasi un cliché, e si poteva quasi legare ogni sound a uno specifico tipo di droga.
Non penso sia un cliché. Non so che dirti, la gente si vuole divertire. Di sicuro per me non è indispensabile essere in uno stato alterato per suonare. Non sono contrario, comunque, affatto…

L’avevo detto che era una domanda stupida.
Dai, non era così stupida.

Ok. Ti ringrazio.
Grazie a te!