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Cronaca di come l'abbiamo preso ancora nel culo

Un viaggio infernale tra sale stampa, sedi di partito e bar subito dopo la chiusura dei seggi.

Quando arrivano i primi instant poll sono già in macchina e bagnato. Non c’è nessuno in giro. Chi può è a casa a controllare la televisione, la maggior parte al lavoro davanti a un browser, altri ancora ti scrivono su Whatsapp. “Allora, chi è avanti?”

Non lo puoi sapere, ma manca poco per il non vuoi.

Radio Popolare dice che Mediaset ha guadagnato il dieci percento dalle prime indiscrezioni di voto, poi il cinque. “Forse perché così Berlusconi potrà occuparsi di più delle proprie aziende,” scherza il DJ alla radio. Sembra che Bersani ce la stia facendo. Che la grande esondazione di fango degli ultimi anni stia finalmente retrocedendo; che a breve potremo finalmente indicare il segno rimasto di dov’era arrivata a sommergerci. Raccontare di come siamo sopravvissuti.

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Sto andando verso la sede elettorale del Movimento 5 Stelle a Milano, uno studio di registrazione trasformato velocemente in un avamposto per ospitare giornalisti, telecamere, militanti, spillette. Quando arrivo ci sono solo fogli di carta appesi sui muri a indicare dove sono tutti. “Stampa —–>”

Adesso piove ancora più forte e si sente picchiettare sopra tutti i van con parabola per trasmettere nel cortile, sopra tutta la stampa nazionale venuta a raccogliere per la prima volta la voce dei candidati del partito. I giornalisti sono concentrati in una stanza di due/tre metri quadrati, illuminata solo da una lampadina rossa. Più l’idea di una stanza della tortura per qualcuno che disprezzi che un luogo di accoglienza. Non c’è spazio per tutti e spesso i giornalisti e i membri dei loro team devono darsi il cambio e poi ritrovarsi a fumare fuori, incazzati, perché nessuno li fa entrare dentro, perché nessuno esce a parlare. “Non ci posso fare niente, questi non si fanno manco sentire, forse più tardi—forse,” sento dire da una tipa di SKY mentre decido che è inutile rimanere lì.

Ripercorro la strada e provo a entrare nella zona dedicata all’organizzazione 5 Stelle. Mi chiedo se riuscirò a bucare la sicurezza di un gruppo di persone così preparato tecnologicamente, con così tante lauree e toolbar su Internet Explorer. Poi busso alla porta e riesco subito a passare. A quanto pare la password era “No, non sono un giornalista.”

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Una tizia sui 50 mi chiede da quanto faccio il militante. Passo attraverso una stanza occupata solo da bandiere, t-shirt ancora dentro il cellophane e sacchetti di spillette che conduce a un salone con una ventina di persone. Seduti in cerchio ci sono il candidato alla regione Lombardia, alcuni candidati alla camera e i loro spin doctor. Mentre vengono truccati viene ricordato loro cosa dire, come parlare del successo dei primi dati arrivati dal sito di Palazzo Chigi. Al “vai che rompiamo il culo a tutti” scattano applausi, urla e un abbraccio generale. Il resto delle persone presente è occupato ad appendere i manifesti ai muri, ad alzare poster e striscioni che rilanciano le campagne del movimento.

C’è anche un team svedese che riprende tutto quello che succede per un documentario, compreso il sottoscritto. Poi si avvicina uno e mi chiede come mi chiamo e se sono contento—nel frattempo è stata organizzata una diretta con Mattia Calise per decidere come comportarsi con la stampa visti i risultati straordinari che stanno arrivando — mi chiede se voglio fare altro oltre a osservare. Mi dice di aiutare ad organizzare il rinfresco per gli altri militanti in arrivo. “Allora l’ingresso costerà 10 euro, e dà accesso a una bicchiere. Ogni drink saranno 3 euro. Poi ci sono le magliette che hai visto e tutto il resto.” Annuisco e faccio finta di essere occupato. Ogni volta che li osservo all’opera si allontana l’idea che cercano di far passare al grande pubblico—che siano dei ragazzetti raccattati alla rinfusa che non capiscono i meccanismi della politica e della comunicazione, ma sono solo mossi da moti passionali. Sono invece molto attenti a come si presentano agli altri, a cosa fare e come quando non sono al sicuro fra loro. Si preparano sempre. Quando arriva il momento dell’intervista preparano delle videocamere per registrare le domande dei giornalisti. Quello che dà dritte al resto dei presenti è Rocco Casalino—sì, quello. Il capo di tutti, il leader della cellula lombarda, è il forse-frocio del primo Grande Fratello.

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Mi arriva un SMS da Valentina La Terza, che ho incontrato per la rubrica. I compagni dell’ARCI e di SEL si ritrovano all’Arci Bellezza, luogo storico milanese per serate, aperitivi e concerti. Hanno smesso di scherzare su Radio Popolare quando salgo in macchina. E quando arrivo vedo gente con le mani nei capelli o appoggiata al bancone del bar, in attesa che SKY dia risultati migliori. “Hai visto le nuove proiezioni?” mi domanda Valentina quando mi vede. SEL sta andando male, così male che qualcuno si ricorda l’esperienza della Sinistra Arcobaleno che spazzò via Bertinotti e i comunisti dal parlamento italiano nella tornata elettorale precedente.

Valentina prova a controllare i risultati interni su un foglio Excel, ma viene continuamente chiamata da amici e altri compagni spaventati, e il suo ruolo ora è di psicologa, più che di candidata. “Stai calma! È ancora presto!” dice senza lasciare il tempo a chi chiamava di proferire parola. Allora SKY dà risultati peggiori.

“Poteva andare peggio,” dice un ragazzo seduto a un tavolo. “Come?” si sente rispondere. “Casapound poteva prendere più voti.”

C’è un vecchio, con addosso un colbacco, che prova a tirare su il morale a tutti i ragazzi presenti. Uno lo vede, indica lo stemma comunista al centro del cappello. “Dovevamo fare così!” gli dice ridendo. “Eh ragazzi! Io sono anni che ve lo dico, ma non mi ascoltate mai!” Più tardi, quando mi vede con una birra in mano, mi rivolge la parola. “Io non sono di sinistra,” mi dice convinto. “Sono comunista, ci tengo a dirlo. Non di sinistra, ma comunista.” Vedo Valentina che si tocca continuamente le labbra. “Credo che mi stia venendo l’herpes,” dice. “Oddio ho l’herpes? Credo che mi stia venendo per il nervosismo.”

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Decido che è ora di andare . Nella sede del PDL, dall’altra parte della città, periferia nord. Il partito occupa praticamente l’intero palazzo di un edificio che non sembra per nulla appartenere alla forza politica di Berlusconi. È funzionale, impersonale, sciatto—sovietico. Ci sono solo due colori: il grigio delle pareti e l’azzurro del pavimento. Il resto è dato dalle foto ricordo del Presidente che stringe la mano ai Capi di Stato esteri o vince la Coppa dei Campioni, dai manifesti elettorali, dagli avvisi appesi sui muri sull’ultimo sforzo da fare negli ultimi giorni della campagna.

La sala per i militanti e i membri del partito è vuota. Non sta andando bene il PD, di certo non va bene a SEL, ma neanche il PDL è contento. Ci sono solo alcuni operatori di Mediaset che mangiano le patatine fornite dal rinfresco della tua festa di seconda media messo all’ingresso. Ogni tanto qualche dirigente entra per sentire le novità, manda a ’fanculo Lerner o Mentana in TV, prende dei pop corn e sparisce. C’è così poco movimento che ogni volta che proviamo a fare delle foto arriva uno a mettere le mani davanti all’obbiettivo. “Per favore, solo quando è piena.”

Improvvisamente entrano in due, vestiti in gessato. “Ragazzi, la partita è aperta.” E spostano da La7 a Studio Aperto, esattamente quando stanno lanciando i titoli del giornale. La TV di casa dice che il CDX è in vantaggio, e sta vincendo ovunque. E allora arrivano altri dirigenti e iPad e Coca Cola calde.

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Si alza il volume della TV, anche RaiDue dà il PDL attaccato al PD, poi conferma SKY e RaiUno. Arrivano ancora altri uomini. E le donne del partito ricaricano le focaccine. “Sondaggisti del cazzo, giornalisti del cazzo!” dice rifacendosi vedere il tizio di prima. A ogni nuova proiezione urla e applausi. Qualcuno parla di miracolo berlusconiano. Quando esce la percentuale di voti presi dalla Campania “Ottima scelta quella della Pascale.” Una tizia si sbraccia davanti alla tv A casa! A casa! E quando vedo la dirigenza pidiellina darsi il cinque saltando decido che è il momento di vedere cosa accade dal PD.

La sede del PD sta all’ottavo di un palazzo di dieci piani—mai terminato— in Stazione Centrale. Dalla strada le uniche luci che si vedono sono quelle del Partito Democratico. Nei restanti piani solo finestre spaccate o mai costruite, o addirittura travi che spuntano fuori dall’edificio. Insomma: meno sede politica, più ultima resistenza dopo un attacco di zombie. E quando raggiungo i membri del PD nessuno vuole parlare di politica. Il piano è stato già suddiviso per prepararsi alla guerra: di libero accesso è rimasta solo una stanzetta con alcuni giornalisti rimasti e depressi, e i membri dell’ufficio stampa attaccati all’iPad a cercare di rispondere agli elettori a casa. “Senti questo,” dice una PR. “Ora che siete stati eletti spero che farete finalmente qualcosa di sinistra—ma lo sa questo in che casini siamo?” Un sondaggista dice che le cose potrebbero anche peggiorare, che alcune regioni brutte non sono ancora state conteggiate. Si cerca di capire se ci sarà un governo. Si sommano premi di maggioranza, seggi di Monti che non bastano mai, si impreca contro SEL. “Possibile che questi non arrivino manco al 4 percento?”

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C’è la parte inaccessibile delle sede sbarrata da due cartonati di Ambrosoli, e da lì dietro si sentono urla e risate di disperazione. Chiamano le sedi centrali del PD, ma i numeri rimangono quelli. Si sentono valutate più o meno seriamente le ipotesi più assurde con improbabili alleanze, mega-governi, dimissioni, ritorni immediati al voto. “Secondo me la democrazia ormai è chiaro che non serva più un cazzo,” sento dire a uno mentre arriva il mio ascensore.

Mi dirigo a casa e accendo ancora una volta la radio. Stanno intervistando i neo-eletti grillini, gli unici contenti. La senatrice che vuole essere chiamata cittadina, non onorevole, perché secondo lei suona meglio e perché non ha mai letto 1984. La coppia madre-figlio passata assieme, scelti da una trentina di voti durante le primarie telematiche, che non vedono l’ora di partire per Roma. Poi la più giovane parlamentare, Marta Grande, eletta alla camera a 25 anni. Provano a fare loro domande sul nuovo assetto politico, se si alleeranno con qualcuno, se preferiscono una vittoria del PD o PDL, cosa faranno durante le votazioni per la fiducia. Ma danno sempre non-risposte, senza nessuna sostanza, nulla di concreto. “Valuteremo, faremo la cosa migliore, ci consulteremo prima.” Non riescono a esprimere alcun concetto o idea personale. Ripetono frammenti di discorsi di Beppe Grillo senza arrivare mai a nessuna conclusione. Sentirli parlare è come ascoltare la scatola nera di un 747 recuperata dall’Oceano Idiano con le parti mancanti che ti fanno capire cos’è successo.

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Poi la maggior parte di loro spiega che tutto è iniziato anni fa, quando hanno visto quello spettacolo di Beppe.

Anche io ho visto uno spettacolo di Grillo, nel 2008. E parlava di biopalle da mettere nella lavatrice per fare per sempre gratis il bucato—che loro, la lobby del MastroLindo ve lo vuole tenere nascosto. Parlava di banner su Youporn automatici che avrebbero risolto per sempre il problema della prostituzione mettendo automagicamente in teleconfereza quello che si sega con la laureata in Scienze della Comunicazione per incontrarsi dal vivo—che loro, la lobby oscura dei papponi, ve lo vuole tenere nascosto. Sempre senza mai citare fonti, o spiegare perché e come. Sempre con quel tono che usavi a undici anni quando tua sorella di otto ti chiedeva di spiegarle ancora una volta la regola del fuorigioco. Ma poi le biopalle sono state smascherate come una gigantesca truffa da milioni di euro—e comprate in massa nei punti di distribuzione presenti in ogni tappa del tour di Grillo—e le tipe che si teletrasportano da Youporn hanno deciso di provarci con il Master.

Ricordo che uscito dal Forum pensai a tutta quell’angoscia sociale repressa, a come fosse finito male lui e un certo tipo di società sudata che era riuscito a riunire sotto lo stesso Palasport. Alla sua bravura nel far evaporare le differenze economiche fra tutti i presenti e trovare un filo conduttore nella frustrazione dell’esistenza di tutti. A riuscire così a diventare un punto di riferimento per tutti coloro i quali hanno bisogno di credere in un nemico per sentirsi vivi e importanti, in gruppi multiorganizzati di nemici, che ce l’hanno con loro perché conoscono il segreto di quella cosa che li distruggerà. E che si sentono così meglio di te, perché tu non hai visto la luce come loro. Gente che per 20 anni ha votato Berlusconi, Casini, Di Pietro, Diliberto e Fini e che adesso ti fa le filippiche su cos’è la politica—che dice “bisogna mandarli tutti a casa!” a te. Oggi sono il primo partito. E a me torna sempre in mente quella serata al Forum nel 2008. Perché se qualcuno mi lascia con una biopalla che non biolava in una mano e il cazzo duro nell’altra tendo a ricordarmelo. Faccio un promemoria mentale della cosa.

Mi chiedo quando anche gli altri acquisteranno lucidità, o almeno memoria. Di cosa avete bisogno? Lo spettacolo in cui diceva che l’AIDS non esisteva e di non curarsi? Di smetterla con la chemio e di affidarsi a Di Bella? Quello in cui sfasciava a martellate i computer e i modem perché sono il più grande male della società? Lo spettacolo in cui incitava i carabinieri a picchiare di nascosto altri negri? Qual è lo spettacolo giusto da cui iniziare? Qual è quello da cui facciamo finta che tutto quello detto prima non conta, non vale, è uno scherzo? Quand’è che qualcuno terrà conto di tutte quelle profezie e anatemi che non si sono mai materializzati?

Ma alla fine arrivo e mi raggiunge un amico; non ci diciamo nulla. Passiamo da Rattazzo a prendere 20 euro di Moretti. Ci sono i soliti aperitivi con le impronte digitali, Piero incazzato, dei ragazzi che ti chiedono 50 centesimi. Usciamo nella città e sta ancora piovendo.

Segui Matteo su Twitter: @bknsty