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A9N4: Molti nemici

Walate-me: la nostra terra

Cosa resta del Kurdistan.

Walate-me è quello che hanno in mente le guerrigliere curde delle montagne in Iraq del nord, considerate da alcuni delle terroriste, da altri come delle eroine. Lo pensano anche i ribelli che combattono in Siria sotto la bandiera tricolore della loro terra immaginata e mai promessa. Lo ripetono i manifestanti per le strade di Diyarbakir in una Turchia repressiva. Ognuno di loro, costretto a vivere in un’enclave di clausura o in perenne fuga clandestina, sa di calpestare il suolo di un solo unico Kurdistan. Walate-me significa “la nostra terra.” Se il mondo arabo è in rivoluzione, quello curdo è in evoluzione: in questo momento si sta giocando la partita del futuro per una delle più grandi minoranze etniche del mondo. Dal 1984, l’anno in cui Abdullah Ocalan fonda il Partito dei Lavoratori PKK, i confini mai riconosciuti della nazione curda sono stati tracciati con il sangue dei 45.000 caduti durante trent’anni di guerra. Oggi sono quaranta milioni i curdi nel mondo senza patria che, dopo decenni di torture e sopraffazione, subiscono da vent’anni un atteggiamento sempre più belligerante dagli Stati in cui vivono. Per un curdo, la Turchia è lo stato-prigione di Erdogan: il rischio di passare la vita dietro le sbarre è molto alto. Insieme ad attivisti civili e dissidenti politici, circa 50.000 curdi sono rinchiusi in carcere. Questa etnia costituisce il 20 percento dei 75 milioni di abitanti della Turchia. Se i peshmerga del governatore Massoud Barzani dicono no al tuo ingresso nel Kurdistan iracheno, un passaggio in auto da un contrabbandiere costa dai 300 ai 500 dollari, ma non è assicurata la permanenza oltre confine—i profughi vengono espulsi quotidianamente. Chi non ha soldi scommette tutto su volontà e gambe, con quello che gli rimane della vecchia vita e della vecchia casa sulle spalle.

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A sud di Ankara, a ovest di Baghdad, a est di Damasco, il campo rifugiati di Dohuk accoglie ogni giorno circa 600 profughi curdi dalle province di Aleppo, Al-Malikiyah e Qamishli. Le tende dell’UNHCR scarseggiavano già per i primi 40.000. Ma accade ora quello che non è successo mai prima nella storia. Il triangolo che fa sponda in Turchia e Iraq si chiude nel Kurdistan siriano. Con un’enorme dose di coraggio e forse una ancor più grande di disperazione, i curdi stanno facendo la loro parte nella lotta al regime di Bashar Al Assad. Mentre si contano oltre 90.000 vittime dall’inizio della rivoluzione, un’oasi curda a est di Aleppo si è dichiarata liberata. Approfittando dell’anarchia bellica mediorientale, per risvegliare le sue anime indipendentiste, lo YPG (Unità di Difesa Popolare—neonato esercito curdo) ha preso il controllo militare e politico del territorio schiacciato tra il purgatorio turco e l’inferno siriano. Kalashnikov in pugno, per difendere un temporaneo e forse illusorio microcosmo basato sugli ideali marxisti del fondatore del PKK, i giovani ribelli curdi pattugliano il territorio a cominciare da Qamishli, città incubatrice della rivolta, fino a Al-Malikiyah, dove la guerra si è dimostrata per quel che è, insieme culla e bara di sogni. Sono passati diversi mesi dalla storica tregua annunciata da Ocalan, che continua a scontare una condanna a morte commutata in ergastolo nell’isola-carcere di Imrali, vicino Istanbul. Ma la tregua del Nevruz per il momento è stata solo parole senza un effettivo disarmo, difficile da ottenere in un periodo di guerra come questo. I curdi continuano a ripetere che non vogliono uno Stato, ma una democrazia transnazionale nelle loro terre, perché non credono nel concetto stesso del confine marcato dall’alto, da un potere dell’est o dell’ovest. Sanno anche che spesso le frontiere sentimentali sono più potenti di quelle reali e finiscono per collimare con confini inconsueti, che possono arrivare fino a Francoforte, dove ha sede la redazione del giornale curdo più letto in Europa, lo Yeni Ozgur politika. Dopo secoli di persecuzione, la nazione più grande del mondo senza patria, da Francoforte ad Aleppo, continua a ripetere questo: walate-me, la nostra terra.

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In questa pagina: campo rifugiati di Dohuk, in Iraq. Ogni giorno, circa 600 profughi cercano di varcare la frontiera del Kurdistan iracheno dichiarandosi rifugiati di guerra. Le tende e le coperte messe a disposizione dall’UNHCR scarseggiano.

Nel campo manca acqua potabile ed energia elettrica. Ai profughi non viene distribuito cibo e sono costretti a fare affidamento sulle loro scarse risorse economiche.

In questa pagina: Redazione di Yeni Ozgur Politika, Francoforte. Yeni Ozgur Politika, Nuova politica libera, nasce dalle ceneri di Ozgur Politika, vende 11mila copie al giorno e viene distribuito nelle principali città europee. È pubblicato in curdo e turco.

In questa pagina: Kurdistan siriano. I membri del neonato esercito dello YPG, Unità di Difesa Popolare, pattugliano costantemente il territorio tra le città di Qamishli e Al- Malikiyah. All’inizio della guerra civile hanno deciso di imbracciare le armi da volontari per difendere le enclavi curde dagli attacchi di Assad.

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