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A9N1: Sangue al cervello

Denunciamoli tutti

Mary Pace aveva trovato Bin Laden, la CIA non l’ha ascoltata, e ora medita vendetta.

Foto di Guido Gazzilli.

Una volta finiti i festeggiamenti per la cattura e la definitiva eliminazione di Osama Bin Laden, qualcuno si è chiesto come mai un Paese come gli Stati Uniti abbia avuto bisogno di dieci anni per individuare il suo peggior nemico. Infatti, pare che qualcuno sapesse già da parecchio tempo dove si nascondeva il più cattivo dei cattivi. Mary Pace è una giornalista, scrittrice ed ex-spia dei servizi segreti italiani, e negli anni ha fatto cose tipo lavorare come agente sotto copertura, prima nel PCI, poi in Libia, e ostacolare la fuga dall’Italia dell’ex SS Erich Priebke. Per farvi un’idea del chi, sappiate che Mary ha avuto a che fare con gente di un certo tipo, come il Generale De Lorenzo (Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano e mente nel 1964 di un piano ‘Solo’ ideato per consegnare l’Italia ai carabinieri), e l’ex-spia Guido Giannettini (accusato da Andreotti di non aver trasmesso l’informativa sulle bombe di Piazza Fontana). Lo scorso luglio, Mary ha fatto causa al Governo italiano e a quello americano, rivendicando l’informazione sulla posizione di Bin Laden. Stando alle sue parole, l’ex-spia avrebbe comunicato già nel 2003 al Governo italiano la posizione del nascondiglio pachistano del più cattivo dei cattivi, e successivamente, alla CIA, nel 2010. Mary è convinta che Italia e Stati Uniti la stiano fregando, che entrambi stiano mentendo e che nessuno dei due voglia darle i 25 milioni di dollari che le spetterebbero come taglia. Il prossimo 10 luglio Mary andrà in tribunale, e per ottenere la sua parte non risparmierà nessuno.

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VICE: Perché ha fatto causa al Governo italiano e al Dipartimento di Stato americano?
Mary Pace: Nel 2003 Guido Giannettini mi disse dove si nascondeva Bin Laden. Guido era il mio maestro di strategia militare. Era un ex agente del SID, uno dei migliori, negli anni Settanta lo chiamavano “Agente Zeta”. Negli stessi anni rimase coinvolto nel caso di Piazza Fontana. Negli anni Sessanta fu l’unico agente italiano ad andare dagli americani e insegnare loro il lavoro di intelligence, guerriglia e contro guerriglia, e se l’avessero ascoltato forse non ci saremmo ritrovati in situazioni come l’Afghanistan, o il Vietnam. Nel 2003 Guido stava molto male, era diventato schivo, non si fidava di nessuno e viveva in povertà. In un momento di lucidità mi parlò di Osama, e del Pakistan. Poi morì. Ci misi un paio di mesi a riprendermi dal lutto, ma quando lo feci, contattai la Digos. Era il 20 agosto del 2003. Due ispettori vennero a casa mia, raccolsero la dichiarazione e inviarono subito l’informativa al Ministero dell’Interno. Da quel momento non seppi più nulla.

Giannettini come aveva saputo di Bin Laden?
Nonostante non facesse più parte di un’agenzia, Guido restava un punto di riferimento nel mondo dello spionaggio e sapeva sempre tutto di tutti. Grazie a lui venni anche a sapere della vera storia di Lady D.

Cioè?
Guarda, non potresti neanche immaginare, ma lasciamo stare…

Quindi, una volta mandata l’informativa, nessuno la cercò.
Assolutamente no. Speravo di essere convocata, ma non successe mai. La cosa morì lì, o almeno credo. L’unica cosa di cui sono certa è che chi ricevette l’informazione non fece il suo dovere.

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A un certo punto però ha cercato di contattare direttamente la CIA.
Sì. Anzi, all’inizio provai a contattare l’FBI.

E anche lì non le rispose nessuno.
I responsabili dell’FBI a Roma si rifiutarono di ricevermi. Mi dissero che non ricevevano italiani. A quel punto navigai su internet e trovai un “form contact” della CIA e decisi di fargli almeno sapere della mia esistenza e della mia disponibilità a rilasciare informazioni su Bin Laden. Compilai tutto e lo inviai, era il 2010. Non credevo che qualcuno mi rispondesse, non ci speravo più. Invece dopo un mese mi contattò un dipendente CIA e mi chiese informazioni su di me.

E lei cosa gli disse?
Gli mandai il mio curriculum, ma non volevo dirgli tutto, non a lui e non subito. Volevo parlare con un responsabile, ma lui non voleva saperne. Non potevo dargli l’informazione così, senza filtri, non mi avrebbero creduto, e probabilmente mi avrebbero riso in faccia. Così decisi di inviargli le copie di un articolo che avevo scritto nel 2007, sul Borghese, in cui parlavo di Bin Laden e delle coordinate per individuare il suo nascondiglio. Volevo dare credibilità alle mie parole. Non ero una pazza, parlavo di cose vere, e le mie informazioni erano comprovate da un articolo pubblicato.

Dopodiché le credettero.
A quel punto l’incaricato della CIA mi contattò nuovamente. Gli articoli gli erano piaciuti molto e se ne complimentò. Mi disse che avrebbe tenuto conto di tutto e che mi avrebbe fatto sapere, ma da quel momento non ebbi più notizie, di nessun genere, né prima né dopo l’operazione che portò alla morte di Bin Laden.

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A proposito, cosa ne sa del Pakistan? Le cose sono andate come ci hanno raccontato?
Assolutamente no. Non sono stati i Navy SEAL a ucciderlo, e il suo corpo non è finito in mare. L’unica cosa certa, e vera, è che è morto. Il resto è tutto falso. Il film Geronimo è una gran cazzata, come No Easy Day, il libro del Navy SEAL che ha rivelato i dettagli della missione.

Mary Pace con indosso la divisa militare della “Folgore”, inizio anni Ottanta.

Perché hanno dovuto ucciderlo? Perché non si sono limitati a catturarlo?
Bin Laden è morto perché non doveva parlare.

Chi l’ha ucciso?
Non posso dirtelo, sappi solo che non sono stati gli americani, non avevano abbastanza fegato per farlo. Gli americani non sono mai stati dei gran combattenti, non sono mica i tedeschi. E ti dirò di più, Obama è il primo a non sapere la verità. In Pakistan non c’era neanche un americano. Qualcuno gli ha dato la notizia, Bin Laden era morto, punto.

La verità verrà mai fuori?
Non lo so, non è una cosa di cui mi posso occupare. Se parlassi metterei a repentaglio la vita di parecchie persone. Ho visto le riprese, e i tracciati, conosco la verità, e per ora mi basta. Se la CIA e l’Italia non dovessero darmi quello che mi spetta mi vendicherei, e alla grande. Ho i mezzi per farlo.

Era la prima volta che aveva tra le mani un’informazione così importante?
No. Nel 1999 mi interessai al terrorismo basco e a Josu Ternera, il capo dell’ETA. I francesi volevano seguirne gli sviluppi e lui si nascondeva in Italia. In quel periodo mi interessai tantissimo al terrorismo, e lavorando sul campo venni a sapere dell’11 settembre.

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Mary Pace nel salotto della sua casa a Sgurgola (Frosinone), con in mano il suo saggio Operazione RYaN-Alto rischio per l’agente Z sui rapporti tra MI6 e KGB.

Sapeva dei piani per attaccare le torri?
Sì, lo sapevo, e con almeno sette o otto mesi di anticipo.

E non lo comunicò a nessuno?
Certo! Contattai l’ambasciata, ma non mi risposero, così decisi di inviargli una lettera raccontandogli tutto. Devo essere onesta però, quella volta non ci credevo nemmeno io. La notizia di un imminente attacco agli Stati Uniti girava da un po’ di tempo nell’ambiente dello spionaggio e né io né i miei colleghi volevamo darci troppo peso.

E perché?
Be’, perché sembrava assurdo, l’idea di attaccare l’America, e per di più al cuore, a New York. Nessuno poteva pensare una cosa simile, sembrava sciocco, quasi una barzelletta.

E l’11 settembre cosa ha pensato?
Guarda, a quel punto erano passati mesi e me n’ero scordata. Quando vidi quel che stava accadendo in tv, all’inizio credetti fosse uno di quei film di oggi, tipo 2001: Odissea nello spazio, Independence Day o Inferno di Cristallo. Poi però vidi Emilio Fede in diretta sul tg nazionale e fui percorsa da un brivido.

Era tutto vero.
Esatto, ed è stato raccapricciante. La stessa cosa successe qualche anno dopo, prima della bomba di Madrid nel 2004. In quell’occasione non sapevo solo della minaccia, ma anche dei dettagli, data, ora e tipo di esplosivo. Volevo parlare direttamente con il giudice di Madrid, Garzón, ma il capo dei servizi spagnoli a Roma mi rispose che dalla Spagna non c’erano notizie.

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Quand’è che ha deciso di diventare una agente?
Erano gli anni Sessanta e cercavo lavoro, ne avevo bisogno. Andai a Roma, un parlamentare mi fece entrare nel SIFAR [Servizio Informazioni Forze Armate] e il Generale De Lorenzo mi prese sotto la sua ala. Il Generale mi fece seguire un corso di paracadutismo, mi ordinò di studiare arti marziali e strategia militare, questo per qualcosa come 13 anni. Poi cominciai a lavorare come agente sotto copertura, e ovviamente dovetti imparare a maneggiare le armi, di ogni tipo.

Qual è stata la situazione più difficile in cui si è trovata?
Mi sono trovata spesso in pericolo di vita, in Somalia e in Libano, ma soprattutto in Libia. Lì sono stata sequestrata. Hai presente quando ti dicono, “l’hai schivata per un pelo”? Ecco, in Libia me la sono vista arrivare in faccia. Era il 1997 e dovetti cavarmela da sola. Sono in tanti a chiedere aiuto, ad amici, allo Stato, magari con un riscatto, ma non io. Poi sai, dei volontari, dei giornalisti e degli attivisti bisognerebbe prima scoprire cosa sono lì a fare, e poi, forse, pagare. Il mio addestramento invece mi ha permesso di mantenere i nervi saldi e di trovare la soluzione.

Come ha fatto a sfuggire ai rapitori?
Non posso entrare nei dettagli, la storia è lunga, ma ti posso dire che ho drizzato le orecchie, mi sono guardata intorno e ho fatto quello che andava fatto. Il Generale De Lorenzo mi diceva sempre di non fidarmi di nessuno, solo dei carabinieri, e così ho fatto, sempre, in Italia come in Libia e nel resto del mondo.

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E dall’inizio della sua carriera ha conosciuto molte persone, da agenti segreti a ex SS.
Be’, diciamo che ho avuto una carriera molto lunga e di persone ne ho incontrare tante.

Cosa mi può dire di Erich Priebke?
Erich Priebke è stato uno dei personaggi chiave della Roma nazista.

E perché vi siete conosciuti?
Era uno dei miei incarichi. Dovevo controllare che non scappasse in Argentina, come altri ufficiali delle SS. L’avevo contattato con la scusa di scrivere un libro sulla sua vita e all’inizio i nostri rapporti furono molto amichevoli, poi mi resi conto che mi stava raccontando un sacco di balle sul suo passato e sulle Fosse Ardeatine. Sosteneva di non aver avuto niente a che fare con il massacro. Insisteva di non essere mai entrato nella grotta, e di non aver mai sparato. Ovviamente non era vero e questo mi diede molto fastidio.

E a quel punto ha deciso di denunciarlo?
No, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata un’altra. Per colpa sua mi sono ritrovata a cena con un uomo del Mossad e alcuni rappresentanti dell’O.D.E.SS.A. [Organizzazione degli ex membri delle SS]. Si presentarono a casa mia, sotto falso nome. Il rappresentante del Mossad si spacciò per amico di Priebtke, che a quel tempo era in carcere, e gli uomini dell’O.D.E.SS.A. arrivarono con un mio amico giornalista. Eravamo tutti intorno a un tavolo, e nessuno era a conoscenza dell’identità degli altri. Poi a un certo punto la verità si intuì, e per un pelo non ci scappò il morto. Dovetti mettermi in mezzo, ed evitare che tirassero fuori le armi. Una situazione assurda, uno stallo alla messicana.

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E tutti volevano Priebke.
Sì. Da quel giorno mi fu assegnata la scorta, andai dalle autorità e raccontai tutto. Non ho più avuto niente a che fare con lui.

Di che anni parliamo?
Tra il 1994 e il 1996.

Poi si è interessata al terrorismo.
E all’anti-droga. Diciamo che ho cambiato settore.

Qual è il “grande tema” dello spionaggio dopo Bin Laden? Iran? Corea? Russia?
Anche se l’area subsahariana vive un gran fermento, l’attenzione è sempre su Israele. Dietro ci sono le grandi potenze. Netanyahu vorrebbe attaccare l’Iran, e di recente ha fatto trapelare che in primavera succederà qualcosa, ma non ci credo. L’Iran ha dietro Russia e Cina, e senza l’appoggio americano Israele non è niente. I recenti eventi di Gaza possono significare due cose: o gli israeliani hanno troppe armi da smaltire, oppure hanno voluto mandare un messaggio agli americani, qualcosa tipo “Aiutateci, o faremo da soli.” Ma non è così. Certo, hanno tante armi, ma contro Russia e Cina non c’è storia. D’altra parte, anche volendo, l’America non potrebbe intervenire, ci sono troppi soldi in ballo e la Cina tiene tutti per le palle. Mussolini diceva “Attenti al pericolo giallo” e aveva ragione.

È stato difficile trovare qualcuno che la rappresentasse in tribunale?
Nessuno mi sembrava all’altezza, e la mia ricerca è andata avanti un bel po’. Far causa al Governo italiano e alla CIA non è una cosa semplice. Alla fine sono andata da Carlo Taormina [difensore di Priebke al processo sul massacro delle Ardeatine, ex avvocato di Berlusconi]. Gli portai tutto, documenti, mail, volevo che avesse una panoramica della situazione prima di decidere se procedere o no. Dopo un po’ mi richiamò e mi disse, “Io sono pronto, denunciamoli tutti.”

Chi è più colpevole? L’Italia o gli Stati Uniti?
Sicuramente l’Italia. Il Ministero italiano ha aiutato i terroristi, e nella mia citazione è molto chiaro.

In che senso ha aiutato i terroristi?
Se Al Qaeda fosse stata bloccata nel 2003, Madrid non sarebbe stata attaccata nel 2004. Almeno gli Stati Uniti mi hanno ascoltata, poi non me ne hanno voluto dare merito, ma hanno agito. L’Italia no. Poi ti dirò, quando Leon Panetta, ex direttore della CIA, disse che la taglia non spettava a nessuno avrei voluto strangolarlo. Può essere che i vertici non sapessero nulla, e che qualcuno dal basso abbia spacciato l’informazione come sua. Io però voglio dire al mondo che le cose non sono andate così.

Vedremo a luglio.
Esatto, CIA e Ministero degli Interni saranno alla sbarra, e io mi farò sentire. Se mi daranno quel che mi spetta, i miei 25 milioni di dollari, sarò anche disposta a consegnargli la testa di Bin Laden.

Saprebbe come recuperarla?
Certo, so dove si trova, so dove hanno nascosto il corpo.

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