“Da ‘cioccolatina’ a ‘moretta’ sono tutte forme di feticizzazione disumanizzano e riducono la nerezza del nostro corpo esclusivamente ad un bene di consumo”
Mentre il mondo intorno a noi sta cambiando, l’Italia resta uguale. Il mito degli italiani “brava gente” è incredibilmente pervicace e ci rifiutiamo di riconoscere che anche da noi esiste il privilegio bianco e soprattutto esiste il razzismo. Incapaci di affrontare il lascito del nostro passato coloniale, e provare a capire cosa dovrebbe davvero cambiare a livello politico per rendere il nostro paese meno razzista, la buttiamo in caciara ostinandoci a ridere, scherzare, sminuire.
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Di recente ho letto diversi articoli in cui il giornalista di turno partiva dalla decisione dei supermercati svizzeri Migros di togliere dagli scaffali i Mohrenköpfe (teste di moro) per chiedersi fino a quali confini si sarebbe spinto il politicamente corretto, scherzando ad esempio sul Negroni, che peraltro si chiama così in onore del conte Camillo Negroni e quindi la citazione è in palese malafede. Invece che farci sopra battute e ridurla a una questione di “frivolezze”, anche l’industria alimentare, con la sua storia e le sue modalità di marketing, può diventare lo spunto per approfondire la storia del colonialismo italiano e riflettere sul razzismo inconsapevole che si annida sulle nostre tavole.
“Più che i nomi degli alimenti mi è capitato di notare delle pubblicità problematiche. A molte pubblicità del caffè ad esempio viene abbinata la donna nera, iper-sensuale, vista come una sorta di animale, come questa,” mi spiega Francesca Moretti, che ha un PhD in sociologia dei media e fa parte di Afroitalian Souls, piattaforma online che nasce come reazione alla società e alle istituzioni che, ancora nel 2020, non contemplano gli italiani neri.
“Donna nera vestita in oro come la cialda del caffè… da ‘cioccolatina’ a ‘moretta’ sono tutte forme di feticizzazione che disumanizzano e riducono la nerezza del nostro corpo esclusivamente a un bene di consumo. So che l’oggettificazione dei corpi femminili è abbastanza trasversale, ma con le donne nere questa cosa si accentua ancora di più, aggiungendo uno spiccato esotismo che altro non è che razzismo.” Uno degli esempi più palesi lo troviamo nella famosa e infausta pubblicità delle Morositas degli anni Novanta (nel riguardare il finale, oggi, mi sono venuti i brividi).
Nel 1872 Francesco Bagnoli, proprietario di una pasticceria a San Giovanni in Persiceto (Bologna), ha creato gli africanetti: biscotti allo zabaione il cui nome doveva essere un tributo all’espansione italiana nel continente africano
Proseguendo sul discorso del caffè noi di MUNCHIES ci siamo interrogati sull’origine del caffè marocchino: cioccolato, espresso e crema di latte, servita rigorosamente in bicchiere di vetro. In realtà in questo caso non c’è nulla di problematico. “Il nome del caffè marocchino si rifà al primo bar in cui venne servito, il Bar Carpano di Alessandria, che era di fronte a un negozio di cappelli Borsalino. In vetrina c’era un cappello di cuoio marocchino, una conciatura particolare delle pelli di capra e montone, il cui colore assomigliava a quello del caffè,” mi racconta Cristina del bar Aroma a Bologna. E dice che in passato le è capitato che fossero stati italiani bianchi a indignarsi per il nome: marocchino, in dialetto bolognese, viene ancora usato per indicare in modo denigrativo persone del Sud Italia. L’indignazione di persone bianche è legittima e quella di persone di colore no? Una persona di colore, solo perché in minoranza numerica, ha meno diritto di puntare il dito su un’eventuale problematicità?
O fai la scelta conscia di dire ‘Non mi interessa’ o, come produttore, fai qualcosa. Sarebbe ora di cambiare e di evolversi.
Abbastanza problematica è proprio la vicenda della Moretta di Fano, un caffè corretto nato nella cittadina marchigiana e preparato con mistrà, rum, brandy e scorzetta di limone. È stato creato a inizio Novecento dal proprietario del Caffè Cavour, Giuseppe Armanni, ed è diventata molto di moda tra marinai e pescatori. Da dove deriva il nome? Pare dall’etichetta di uno dei tre liquori usati per la ricetta: molti rum presentavano immagini di donne di colore, muréta, rifacendosi all’immaginario della donna creola. E se c’è chi ora la commercializza mettendo in copertina una ragazza caucasica ma dai capelli scuri, c’è chi mantiene una donna di colore, peraltro stereotipizzata in maniera disturbante. “Guarda bene quell’immagine, com’è disegnato il volto, le labbra calcate,” mi dice Francesca. “È connesso in maniera fastidiosa a un immaginario feticizzato della donna nera. Non lo comprerei mai. Se lo vedessi sceglierei un altro prodotto – io come tanti altri neri italiani. Un prodotto così lede in maniera oggettiva la sensibilità di una parte del pubblico. O fai la scelta conscia di dire ‘Non mi interessa’ o, come produttore, fai qualcosa. Sarebbe ora di cambiare e di evolversi.”
Afroitalian Souls ha fatto un bellissimo video per parlare di blackface anche nella pubblicità italiana. Ne abbiamo un esempio nell’industria alimentare non solo nella pubblicità, bensì addirittura sulla confezione di un prodotto: le liquirizie Tabù. Vendute in Italia dal 1929, la figura sulla confezione (protagonista fino al 1996 di una pubblicità) è un uomo nero di cui si distinguono solo occhi, mani e labbra bianche e un papillon rosso. I creatori si sono dichiaratamente ispirati ad Al Jolson, un musicista russo naturalizzato statunitense che si esibiva in spettacoli utilizzando la cosiddetta Blackface, una caricatura di un uomo afroamericano sia nell’aspetto che nelle movenze. Solo perché da persone bianche certe cose non le notiamo, a meno di non fare un lavoro specifico di ricerca, non vuol dire che non esistano.
Il problema è che non si pensa mai a noi. Non c’è mai l’idea che ci può essere un cliente nero. Un italiano nero. Noi non veniamo considerati come pubblico di riferimento in generale.
Mi ci metto io per prima: non avevo mai notato quanti nomi nella pasticceria italiana, tra fine Ottocento e inizio Novecento, sono stati dedicati alle “vittorie” africane del nostro paese. Nel 1872 Francesco Bagnoli, proprietario di una pasticceria a San Giovanni in Persiceto (Bologna), ha creato gli africanetti: biscotti allo zabaione il cui nome doveva essere un tributo all’espansione italiana nel continente africano, e che lui dedicò alla Regina Margherita di Savoia. Ne Il Talismano della Felicità di Ada Boni, edito nel 1929, ci sono ricette di Africanelle, biscotti con il cioccolato, chiamate così ovviamente per il colore nero, e della Torta Bilbolbul, anch’essa al cioccolato, così chiamata per il bambino africano protagonista di una serie di fumetti a inizio Novecento.
Il contesto americano è molto diverso da quello nostro. Lì il passato non è stato rimosso, a differenza della nostra storia coloniale.
Poi ci sono gli Assabesi. Il nome risale al 1884 quando durante l’Esposizione Generale Italiana di Torino tra le “attrazioni” c’erano gli abitanti della Baia di Assab in Eritrea e colonia italiana. Da allora il termine Assabesi venne utilizzato più volte nell’industria alimentare: per le liquirizie all’anice dell’Amarelli, per biscotti al cacao molto popolari a inizio Novecento, per torte al cioccolato. Francesca mi spiega la sua reazione a questi nomi: “Se entrassi in un bar e vedessi, ad esempio, degli Africanetti mi farebbe strano, direi ‘Accidenti, non hanno cambiato nome?’ Il problema è che non si pensa mai a noi. Non c’è mai l’idea che ci può essere un cliente nero. Un italiano nero. Ci sarebbe bisogno di un passo successivo: noi non veniamo considerati come pubblico di riferimento in generale, dai cosmetici alle cose da mangiare.”
Negli Stati Uniti hanno iniziato a prendere posizioni più nette. Ad esempio la Quaker Oats ha deciso di ritirare dal mercato il marchio di sciroppo per pancake Aunt Jemima che, per quanto l’immagine sia stata modificata da quando è stato messo in commercio, 131 anni fa, rappresenta comunque uno stereotipo razziale. Ma “Il contesto americano è molto diverso da quello nostro. Lì il passato non è stato rimosso, a differenza della nostra storia coloniale,” spiega Francesca. “È una decisione saggia anche a livello di marketing: ti alieni una parte del pubblico. Io non comprerei mai un prodotto la cui storia mi riguarda in negativo.”
Tornando agli africanetti di San Giovanni In Persiceto, circa un anno fa il marchio è stato comprato da un’azienda esterna al paese che ha diffidato chiunque dall’usarne il nome. In paese però le pasticcerie hanno continuato a produrli, chiamandoli ad esempio biscotti Margherita. E la gente ha continuato a comprarli. Se fossero stati cambiati perché qualche persona di colore lo trovava offensivo mi sarei immaginata cortei di italiani bianchi che reclamavano il loro diritto a preservare la tradizione. Ha ancora senso nel 2020 ostinarci a non rimettere in discussione il passato aggrappandoci a nomi, mascotte e stereotipi pubblicitari perché “si è sempre fatto così”? Non è un esercizio più profittevole per tutti sforzarsi di studiare, capire, contestualizzare e, nel caso qualcuno lo richieda, accettare di cambiare?
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