Illustrazioni di Matt Rota.
Nel 2006 stavamo lavorando al nostro primo annuale di narrativa. Volevo pubblicare qualcosa di Aleksandar Hemon. Ma lui aveva risposto che non aveva nulla di pronto. Lo stesso era accaduto con Akhil Sharma. Entrambi erano stati molto gentili. Erano due dei miei scrittori preferiti, e tra le centinaia a cui avevo scritto. Vedete, avevo un’arma segreta. Un amico di una rivista prestigiosa mi aveva passato una lista delle email degli scrittori. Avevo solo dovuto mandargli un’email con i nomi che volevo. Nel corso del mio stalking non professionale ai danni di Hemon e Sharma, ero venuta a sapere che sarebbero stati a Parigi la stessa sera, e avevo chiesto loro di andare a cena insieme—ospiti di VICE—e di portarsi un registratore. E loro hanno accettato!
Videos by VICE
E dopo tutta questa fatica, abbiamo tagliato il pezzo. Però me ne ricordo ancora alcuni passaggi a memoria. Sul tardi Sharma aveva detto, “Adesso devo andare al bagno, ma mentre sono via voglio che tu scelga un buon vino, così spendiamo tutti i loro soldi, perché non mi piace farmi sfruttare.”
Hemon, in tono assonnato, aveva detto, “Cos…?”
“Pensaci.”
Ho pianto la perdita di quella conversazione parigina. Negli ultimi otto anni, Sharma ha pubblicato Vita in famiglia che ha vinto il Folio Prize per la narrativa. Hemon ha pubblicato Il progetto Lazarus e Il libro delle mie vite , ed entrambi sono stati finalisti al National Book Critics Circle Awards. Un po’ pregando un po’ corrompendo li abbiamo convinti a ripetere la cena, al Le Bernardin di New York. Questa è la loro conversazione, un po’ accorciata.
— Amie Barrodale, VICE fiction editor
Akhil Sharma: Non so se la tua esperienza di scrittore sia come la mia: è difficile guadagnarsi da vivere.
Aleksandar Hemon: Sì.
Sharma: È strano venire in un ristorante famoso e ordinare come due persone raffinate. È un’esperienza strana.
Hemon: Di recente sono stato in un albergo cinque stelle con un ristorante stellato Michelin, e mi sembrava che riuscissero a vedere attraverso le mie buone maniere e capire che la mia era una povertà genetica, che scorre nella mia famiglia da millenni. Non riesco a sentirmi a mio agio e a comportarmi come chi ci è abituato. Ero in un parco divertimenti a tema ricchezza. Mi ci sono trovato per caso, ma guadagno davvero poco.
Sharma: Sono cresciuto senza molti soldi, e ho lavorato sodo per non ritrovarmi nella condizione dei miei. Per me lavorare duro significa evitare di finire come mio cugino che ruba. Provo la tua stessa sensazione, come se la gente potesse vedermi dentro. Ma non provo il desiderio di appartenere a quel mondo.
Hemon: Quell’albergo era arredato con molto gusto, e c’era una ‘collezione d’arte’, e anche se sicuramente si trattava di pezzi di valore, non era arte—era decorazione. Cioè, stanno alle pareti di un albergo alla moda. E l’arte decorativa non mi interessa.
Sharma: Sì, capisco cosa vuoi dire. Mi piace davvero quando trovo qualcosa di ben fatto, che sia una giacca o una camicia etc. Ne sono felice. Se la moquette in corridoio è bella penso, “Lasciatemela godere.”
Hemon: Credo che questo senso di povertà “genetico” sia inscritto nella mia famiglia, o nella regione da cui vengo. Ed è una condizione che ti spinge a pensare alla sopravvivenza, un po’ come saltare da un’isola a un’altra con gli squali che nuotano sotto di te. Ma proprio per questo una alla volta puoi goderti un sacco di cose. Quasi tutti quelli che conosco che vengono dal mio mondo, la mia famiglia e i miei amici, pensano in termini di instabilità, e di piacere occasionale. Le cose buone possono tutte finire. La moquette è bella, ma è una cosa passeggera. Dovresti apprezzarla e goderne, ma… Possedere questo genere di cose non ha senso. Magari hai tutto, e poi non c’è più.
Sharma: Ma le cose non diventano più preziose col tempo? Quando penso al prezzo delle cose, penso che quando sarò sul letto di morte mi guarderò indietro e dirò, “Era tutto a posto. Perché non eri più felice?”
Hemon: Anche il mio obiettivo è essere felice, ma la domanda è cosa ti rende felice. Ho realizzato che il piacere e la felicità non sono la stessa cosa, né la felicità consiste nel piacere costante. Quello è solo piacere. E l’apprezzo eh, ma non mi rende felice. È questo che ho imparato dalla vita.
Sharma: Io provo davvero una sincera gratitudine, seduto qui a mangiare cibo delizioso.
Hemon: La gratitudine è diversa dalla felicità. Mi piace questa vita in cui posso fare sempre nuove esperienze. Io scio, e una rivista ha chiamato il mio agente alla ricerca di scrittori che sciassero, e io ho accettato. Sono andato a Gstaad a sciare, ma Gstaad non è solo una località sciistica. Ho sciato, ma sono anche stato in un paio di alberghi e ne ho scritto. Non è ancora stato pubblicato. Come si dice, “Dove mi metti, sto.” E sono finito a Gstaad.
Sharma: Quanto spesso vai in Bosnia?
Hemon: Una o due volte all’anno. Ci andavo più spesso prima di avere figli, ma l’anno scorso ci sono stato due volte. Quest’anno non ci sono ancora stato. Ma sono sempre in contatto con le persone che conosco. Ieri ho tradotto un editoriale in bosniaco, e ho scritto una sceneggiatura con un regista bosniaco via Skype. Per un film che si intitola Love Island. Le prime due bozze erano in bosniaco, e poi siamo passati all’inglese. Ora è per lo più in inglese. Oggi cose così si fanno via Skype. I miei genitori, che vivono in Canada, vanno in Bosnia una volta all’anno per un paio di mesi. Vanno là ogni anno perché sono stufi dell’inverno canadese. Mia sorella, che vive a Londra, va a trovarli con la sua famiglia. Quando vado, nessuno è sorpreso di vedermi. Non devo riallacciare i rapporti. Tengo sempre tutti aggiornati sulla mia vita e i miei amici sanno sempre cosa sto facendo. Negli Stati Uniti c’è una curiosa incomprensione delle dinamiche dell’immigrazione. Non solo i repubblicani. E non è solo negazione— è ingenuità.
Sharma: Il mito del migrante è così strano—una persona fuori posto.
Hemon: Il luogo comune di Ellis Island dove entri e diventi qualcun altro, diventi un americano. La tua trasformazione comincia a Ellis Island. Lì diventerai una persona nuova, e quando avrai avuto successo negli Stati Uniti tornerai alla tua vecchia terra—così dice il mito—40 o 50 anni dopo, e non riconoscerai nulla. C’è questa strana fantasia che diventare americani significhi inverare il potenziale umano.
Sharma: Quando vai in Bosnia, quanto rimani?
Hemon: A volte sono già in Europa e vado solo un paio di giorni per trovare gli amici. Non riesco mai a stare a lungo perché non voglio stare lontano dai miei figli per troppo tempo. Mantengo i contatti con la Bosnia scrivendo, ma anche parlando con le persone, e sono politicamente attivo. Non ho una forte nostalgia della Bosnia; non ce l’ho più. Quando vado in Bosnia, non ci vado per ricordarmi la mia giovinezza. Vado a trovare persone che vivono lì e perché mi mancano i miei amici, così come mi mancano i miei amici di New York.
Sharma: Se vai in India oggi c’è una sorta di foschia perpetua. Di notte non è mai completamente buio perché c’è un sacco di luce e il cielo è velato dall’inquinamento, c’è sempre un sottofondo di luce. Mi manca stare in centro, in città, e vedere le stelle. Quando penso all’India in termini di nostalgia, è soprattutto una cosa fisica. E un tempo era davvero un mondo fisicamente diverso, perché la plastica un tempo aveva più valore, non era così comune. Fino agli anni Duemila non trovavi immondizia sul ciglio della strada. Non c’era spazzatura ovunque. Di quello ho nostalgia.
Hemon: Non credo che nostalgia sia la parola più adatta. Per me è più tipo, “Vorrei poter rivivere la mia giovinezza, ma con la coscienza di oggi.” Lo apprezzerei di più ma sarei anche più cosciente. Perché adesso a guardare indietro sono successe cose belle e importanti che io non riuscivo a capire pienamente, perché ero troppo coinvolto. Quando ci ripenso, vorrei aver prestato più attenzione. Potrebbe essere una malattia degli scrittori, quella di cercare sempre maggiore consapevolezza.
Sharma: Quanti anni hanno i tuoi bambini?
Hemon: Tre e sette. Abbiamo perso una figlia nata tra questi due. Il maggiore aveva una sorella, che è morta. Mia figlia minore ha la sindrome di Prader-Willi. È un disturbo ad ampio spettro, che significa che può essere molto o poco grave. Lei è fortunata. Ma ha bisogno costante di cure e mia moglie si è fatta carico di questo compito; certo, quando sono a casa cerchiamo di dividerci le cose da fare. Ma quando non ci sono, deve fare tutto da sola. Perciò ha deciso di trasferirsi in un posto dove potrà ricominciare a lavorare, perché la più piccola ha iniziato ad andare all’asilo.
Sharma: Sai, prima di sposarci mia moglie e io abbiamo deciso di non avere figli, in parte perché penso che non sarei un buon padre. La mia infanzia è stata così tremenda che penso mi ci vorrebbe quasi un miracolo per crescere bene un figlio. Ora che siamo sposati da 13 anni ogni tanto penso che sarebbe bello avere un figlio, ma ormai è tardi.
Hemon: È una decisione che ciascuno deve prendere per sé, ma non puoi sapere che tipo di padre saresti, perché è una cosa che ti cambia. Ti fa crescere, ma quali parti di te cambiano è difficile da dire. Alcune cose migliorano, alcune peggiorano. Alcune persone si vedono solo come una sorta di contenitore più ampio. Non c’è modo di saperlo. Ma nessuno vuole fare un salto nel vuoto. Non penso di aver rinunciato a niente per avere dei bambini— ne è valsa la pena. I bambini sono meravigliosi.
Sharma: I miei genitori erano persone difficili. Erano severi, ma sono peggiorati dopo l’incidente di mio fratello. Più invecchio, più provo compassione, e più provo compassione, più mi è difficile tenere le distanze da loro. Ho parlato con mia madre poco tempo fa, ma in genere la evito, come evito mio padre. Ma è difficile mantenere questo confine—è una specie di sistema di autoconservazione. Sei mai stato in India?
Hemon: No, ma ormai sono anni che le persone che ci sono state mi dicono di andarci. Non ho mai voluto lasciare la mia famiglia. Ma ora ho un libro in uscita e potrei andare a lavorare un po’ là.
Hemon: Uno dei brani del mio libro precedente, sull’esperienza di un mio amico in guerra, è stato pubblicato in formato digitale. Lui sarà qui all’evento all’Apple Store di SoHo con me, presenterà un video.
Sharma: Ho sempre voluto essere invitato alle cose della Paris Review, ma non è mai successo. Una volta sono stato invitato al Penn Gala al Museo di Storia Naturale, mi hanno invitato all’ultimo momento perché un tizio aveva dato buca. Qualcuno mi ha subito mandato un’email chiedendomi se avevo uno smoking e poi ha detto, “Ok, se vuoi venire, vieni.” È meraviglioso poter andare a questi eventi stupidi. È bello arrivare e vederli, vedere cosa fanno.
Hemon: Vivo a Chicago perché mi piace. Ma uno dei motivi per i quali non vivrei mai a New York è l’esposizione continua all’industria editoriale e alla cultura letteraria. Diventa noioso molto in fretta, ho scoperto. Mi si spegne l’entusiasmo dopo un giorno o due. Quando vengo qui capita che debba partecipare a questi eventi, ma non è che muoio dalla voglia. È la Hollywood dell’industria editoriale.
Sharma: Per quanto mi riguarda, quando ci sono questi eventi me li godo, e quando non ci sono, fa lo stesso. Un mio amico sostiene che è difficile lavorare a New York City, perché ci sono così tante distrazioni. Ma credo che ovunque tu vada, ti porti dietro le distrazioni.
Hemon: Be’, ci sono un sacco di distrazioni a Chicago. Ma qui a New York le distrazioni hanno a che fare con persone del tuo stesso ambiente, c’è un forte senso di competizione. Sono stato a feste piene di scrittori e membri dell’industria editoriale, e puoi avvertirlo chiaramente. Le gerarchie sono sempre fluttuanti, e la gente di New York sa sempre che posizione occupa all’interno della gerarchia chiunque sia nella stanza. Per me non è tanto un problema morale—è solo estenuante. Non mi importa, e non voglio che mi importi. Probabilmente finirò per tenerci, perché non riesco a non relazionarmi con le altre persone. Non riesco a starci lontano. Non riesco a isolarmi. Se qualcuno mi invita a una festa, io vado. Se vuoi isolarti, New York non è il posto giusto. È dura capire cosa sta succedendo, non dietro le quinte ma proprio nel mezzo di tutto. Stavo parlando con un amico a una festa. E—non lo biasimo per questo—nel bel mezzo di una frase ho visto un bagliore nei suoi occhi, e senza voltarmi ho capito che era entrato qualcuno di importante. Non ho avuto nemmeno bisogno di guardare. Solo un lieve riposizionamento. Mi sono voltato e ho visto Susan Sontag. Non c’è niente di sbagliato nell’essere affascinati da Susan Sontag, ma è troppo impegnativo. Molte persone e scrittori di cui sono amico a Chicago fanno cose simili a quelle che faccio io, ma ho un sacco di amici che non hanno alcun legame con il mondo letterario o editoriale. Non ci sono gerarchie, perché non c’è niente da guadagnare.
Sharma: Come sei entrato nel mondo dell’editoria? Per quanto mi riguarda, sento che uno dei motivi per cui il libro è andato bene è che sono aperto agli incontri. Posso incontrare un editor per un caffè. Penso che una delle ragioni per cui ho avuto successo è che sono vicino alle persone. Vivere a New York è una cosa utile. Ma quando ho iniziato a pubblicare, non vivevo a New York.
Hemon: Quello che la rende la Hollywood dell’industria editoriale è che devi essere qui per fare in modo che le cose accadano. E non penso sia sbagliato—dipende dalla tua sensibilità. Io non posso farlo. A me è andata abbastanza bene, sono stato fortunato. Era la fine degli anni Novanta, scrivevo e pubblicavo su piccole riviste, inclusa Ploughshares. È successo che Stuart Dybek aveva letto una delle mie vecchie storie, ed era membro di una giuria che doveva conferire un piccolo premio in Illinois. All’epoca non era piccolo, all’epoca era importante, ma la storia gli era piaciuta così tanto che quando diventò guest editor di Ploughshares mi chiese di mandargliela, cosa che feci. La pubblicarono, poi un giorno l’assistente della mia agente doveva incontrare un’amica in una libreria. L’amica era in ritardo e lui si mise a leggere Ploughshares, e la mia storia era per caso la prima di quel numero. L’amica era così in ritardo che lui lesse tutta la storia, e quando lei arrivò lui aveva finito e deciso di portarla al suo capo—che adesso è la mia agente –e le disse, “Devi leggerla.” E lei mi chiamò di punto in bianco. Non sapevo nemmeno che bisognasse cercarsi un agente; non sapevo come funzionava. Non feci nessuna domanda su come funzionava. Non sapevo quale sarebbe stata la sua percentuale. Avevo paura a chiedere. Alla fine chiesi, “Com’è che funziona? A te cosa ne viene?” E lei disse, “Pensavo lo sapessi. Lo sanno tutti.” Ma io non lo sapevo. Lei me lo spiegò, e da allora è la mia agente. Quello che dovevo fare io era solo mandare le storie ai giornali. Le storie hanno raggiunto un po’ di persone, ed è andata. Queste persone sono ora miei amici, ed è parte della mia gratitudine verso Chicago. Ma non ho mai avuto una strategia su come entrare in questo mondo.
Sharma: Io ho scritto alcune storie che erano buone, che pensavo fossero buone, sono andato a Stanford e ho trovato un agente che pensavo mi avrebbe pubblicato, ma che non l’ha fatto. Ero sempre più depresso, perché non vedevo un futuro. Ho iniziato a scrivere un romanzo, e non andava granché bene. A un certo punto, ho preso il mio racconto migliore e l’ho mandato a cinque riviste. Solitamente lo inviavo senza indirizzo di ritorno, perché non volevo che mi rimandassero indietro il manoscritto. Potete buttarlo—ne stamperò altri [ ridono]. Quella volta ho pensato che dovevo fare tutto per bene, nel modo più corretto, e in pochi giorni mi sono arrivati quattro rifiuti. Sono convinto che quei cazzoni non l’abbiano nemmeno letto, perché me lo rispedirono esattamente come l’avevo mandato io. Del quinto non ebbi notizia, e pensai, Ottimo, quei bastardi mi hanno rubato i francobolli , perché non avevo soldi. La mia borsa di studio era di 11.000 dollari all’anno a Palo Alto [ ridono]. L’avevo spedito a febbraio o marzo, e a giugno o luglio ricevetti una lettera dall’ Atlantic in cui scrivevano che volevano il racconto. Quindi gliene mandai anche un altro pensando che li avrebbero voluti entrambi. Volevo entrare nel New Yorker, quindi ho detto al mio agente di spedirglielo. Loro risposero di no, e ci dissero che probabilmente c’era stato un errore perché gliel’avevamo già inviato. Quindi lo inviai all’ Atlantic e loro pubblicarono anche il secondo, e da lì le cose si sono messe in moto. Pensavo che la mia vita sarebbe cambiata di punto in bianco, ma fondamentalmente è sempre la stessa storia, sono sempre senza soldi. Pensavo che avrei trovato un modo per raggiungere la stabilità economica.
Hemon: Se capisci come fare, fammi sapere, perché io non ne ho idea.