Música

Il silenzio degli Agnelli

In questo periodo di relativismo culturale estremo siamo continuamente spinti da correnti alternate a destra e a sinistra e non è facile mantenere una posizione stabile. Talent show o Red Ronnie? Questo è il problema che scinde attualmente le coscienze del Paese Reale, quando si parla di musica. Molte delle vecchie glorie alternative italiane, quelle che combattevano per autoproduzione, autodistribuzione e indipendenza, ora si trovano a fare i conti con una pensione sempre più lontana—lontana come i fasti della giovinezza separatista in cui avevano costruito il loro regno—e con un patrimonio culturale che perde materialmente i pezzi.

Pochi giorni fa il Velvet di Rimini, locale storico della scena, ha chiuso definitivamente con una serata cui, oltre ad Agnelli e Godano ed altri, partecipava anche Max Casacci, chitarrista dei Subsonica. Ieri Max ha commentato sulla propria pagina Facebook quest’evento, che segna in un certo senso la chiusura di un’epoca, con una riflessione sugli anni Novanta e sull’impatto culturale delle grosse band indipendenti, ben rappresentate dalla triade qui sotto:

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“Io gli Afterhours ai tempi li ho apprezzati molto, e come me c’è ancora gente in giro che per un po’, in un modo o in un altro, ha voluto bene a Manuel Agnelli”, scriveva Edoardo Vitale qualche tempo fa, mentre affossava giustamente il tentativo di riproporre Hai Paura del Buio in versione “all stars”. Dei ripetuti tentativi di Afterhours e soci di aprire varchi mainstream all’underground abbiamo già ampiamente parlato qui, tentando di osservare il suo percorso da una prospettiva comunque intima, di chi quella scena la conosce da anni. La realtà è che, allontanandosi da una determinata scena, la delusione di vedere Agnelli “venduto” sul banco dei giudici di X Factor sfuma, la rabbia e l’orgoglio di chi considera un fallimento questa svendita sono sentimenti condivisi da un numero ristretto di persone. Ci tocca fare i conti con il resto del mondo, con quella grossa, enorme, fetta di popolazione per cui tutto quel trambusto culturale dell’indie di massa non è mai esistito, o quantomeno non ha avuto la rilevanza che gli concediamo. Per dire:

A volte la stampa sempliciotta riesce a fornire una prospettiva abbastanza spietata del pensiero del “Paese Reale” di cui chi opera e riflette in una certa nicchia molto spesso non è consapevole. Ad esempio, il trafiletto qui sopra mostra senza mezzi termini che la figura stessa di Agnelli è irrilevante, agli occhi del grande pubblico. Quindi non è importante il passato di Manuel, non contano nulla gli ideali che ha tradito, il problema è soltanto uno: ma chi cazzo è?

Agnelli, in un certo senso, è diventato il “caso clinico”, la cartina tornasole su cui si testa la rilevanza di quelle che un tempo erano le sinistre musicali di questo Paese, quelle che hanno gettato le basi per un fermento controculturale che oggi si risolve in un filone “indie” un po’ zoppicante, con un’identità dubbia—forse perché non si è mai riuscito a fornirgli un circuito vitale attorno al quale costruirsela. La verità su cui ci affacciamo, guardando a questo trafiletto, è la triste verità che abbiamo vissuto questa scena in un buco nel terreno, felice probabilmente per alcuni, ma esauritosi in se stesso. Questa consapevolezza ti porta a chiederti se la generazione Novanta-Duemila abbia infuso tutta quella fiducia nella scena indipendente di allora per il suo reale apporto o se quelle band rappresentassero il migliore dei modi possibili per rispondere all’andamento del mercato internazionale, che (con i dovuti accorgimenti) andava verso una feticizzazione del DIY. Anche noi avevamo bisogno delle nostre superpotenze dell’autoproduzione, di semidivinità con i capelli lunghi che immolassero la propria figura alla crudezza del rock. Solo che da noi al posto dei “Rape Me” c’erano sentenze come la durissima sei il mio sovversivo amore, o la successiva voglio un pensiero superficiale che renda la pelle splendida, perché i nostri rocker sono anche poeti—abbiamo sempre sofferto una sorta di compromesso storico con la tradizione, e per il giro indipendente questo significava strizzare in continuazione l’occhio al “comprensibile”, all’accessibilità del pop. In un certo senso, la tendenza liricistica dei nostri rocker ne ha ammortizzato l’impatto, incanalando le band che ne facevano uso (praticamente tutte le più grosse di quegli anni) in un filone più simile al cantautorato “particolare”, “di nicchia”, di cui prodotti come Calcutta o I Cani sono epigoni.

La realtà è che anche i più grossi gruppi indipendenti anni Novanta hanno fallito, non tanto nell’operazione che viene loro imputata (almeno a quanto dice Casacci) di trapassare dall’indie al mainstream, quanto nel crearsi un’identità abbastanza solida all’interno del mercato, un’identità che permetta loro di sopravvivere al rinculo di un’esposizione mediatica indotta. “Non so come ti potesse piacere Agnelli—un Ligabue per fuorisede” mi dicono, scherzando sul fatto che sia sempre stato chiaro che le sue ambizioni, così ondivaghe, avessero senso in una ristretta intersezione di generi musicali. Vero, ma c’è da considerare che la sua affermazione avveniva in un momento storico in cui serviva formare anche qui diversi tipi di aggregazione, di reti, ed era attorno a quei gruppi e a quelle etichette che si costruivano. Forse però quell’eccesso di fiducia, che non contemplava l’ammorbidente stilistico come un problema, è poi scoppiato come una bolla alla prova del tempo. Oggi è abbastanza evidente che il ciclo vitale di determinate band non sia andato né oltre un certo pubblico né oltre un certo decennio, nonostante gli sforzi. Un’occasione persa per l’indie, che invece altre nicchie più scaltre come quella hip-hop hanno cavalcato, tanto che il rap italiano ha evidentemente le sue superstar—per citare quel trafiletto: “la presenza di Fedez e Arisa sarà utile per Álvaro Soler e Manuel Agnelli.”

In un certo senso, se fortuna vuole, sarà il meccanismo televisivo architettato dagli autori di X Factor a decretare il processo di riscatto sociale per Agnelli, così come è stato per altre vecchie glorie della musica italiana dimenticate a metà, che ora vivono una rivalutazione mediatica e una sorta di seconda giovinezza grazie al reinserimento del personaggio—meno della sua legacy—all’interno di logiche tutt’altro che strettamente artistiche. Questo non significa che il loro lavoro artistico non abbia significato nulla, semplicemente per alcuni è necessario, per passare la prova del tempo, decontestualizzarsi, arrendersi in un certo senso a meccanismi mediatici che probabilmente hanno sempre rifuggito. Oggi però la fama e in un certo senso l’affermazione sociale dipendono anche da processi di “personal branding” che—se non vengono studiati a tavolino—quantomeno sfalsano di proposito, enfatizzano alcune caratteristiche degli individui su cui giocano. Il prezzo da pagare per questa ri-affermazione coatta è arrendersi a una sorta di bidimensionalità, che non è per forza un delitto, ma rischia di evidenziare i casi in cui attorno al boost di notorietà dovuta alla televisione non sia stato edificato un percorso artistico parallelo più attuale. Insomma, la scelta in sé di Agnelli non dovrebbe far incazzare, ma dovremmo prepararci a vedere i sogni indipendenti di quella generazione schiantati su uno schermo, o inquadrati in un dispositivo che ne evidenzi unicamente i tratti caricaturali, col rischio che lo scatarro lanciato ai tempi sui giovani ti ritorni indietro.

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