Perché in Italia abbiamo paura dei racconti?

L’autore di questo articolo è Vanni Santoni, scrittore, giornalista ed editor che dirige la narrativa Tunué e il cui ultimo libro, Muro di casse, è stato pubblicato lo scorso anno da Laterza.

Sei in libreria, prendi in mano il nuovo libro del cileno Alejandro Zambra, edito da Sellerio, avevi letto qualcosa di suo anni fa, ti era piaciuto; sbirci la quarta di copertina: ”Undici brevi romanzi, un mondo di personaggi e di oggetti…”

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Undici brevi romanzi? Le pagine sono 223. Duecentoventitré diviso 11, 20… Romanzi di 20 pagine? Si tratterà mica, forse, per caso—vai a saper tu—di racconti? Siamo a questo? Tanto radicato è il pregiudizio contro il racconto nell’editoria italiana, che la parola stessa è diventata tabù? Cercando una conferma a questa intuizione, ti aggiri tra gli scaffali a caccia di raccolte.

Ecco Sette anni di felicità di Etgar Keret, tra i migliori autori di racconti in attività. Edito da Feltrinelli nel 2015, non reca ombra del lemma “racconto” in bandella (anzi si parla piuttosto di un “condensato”). Né lo si incontra nella quarta di È così che la perdi di Junot Diaz, pubblicato da Mondadori: ancorché composto di racconti usciti nell’arco di 14 anni, viene inquadrato alla prima riga parlando del “protagonista di questo libro”, come a suggerire che ci si trova davanti a un’unica vicenda.

Non va meglio con l’Italia: nel paratesto di La Sposa di Covacich (Bompiani), ultima raccolta a vedere la ribalta del maggior premio nazionale, si parla di “storie”, sottolineando che si è di fronte a “un unico flusso di pensieri”; in uno degli ultimi libri pubblicati da Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli) l’espediente di bandella (dove al solito non si parla di racconti) è “tutti i personaggi di questo libro…”; anche sulla quarta di una delle migliori raccolte degli ultimi anni, L’ubicazione del bene di Giorgio Falco, uscita per Einaudi Stile Libero, non figura la fatale parola.

Ti viene in aiuto Paolo Repetti, fondatore con Severino Cesari della stessa Stile Libero, che ha costruito la propria fortuna anche su raccolte come Gioventù Cannibale o Superwoobinda di Aldo Nove: “È vero,” spiega Repetti, “a volte non si mette neanche la parola ‘racconti’, né in copertina né altrove. C’è una tendenza da parte dei librai a ordinare meno copie dei libri di racconti, e storicamente è un fatto che vendano meno. Credo perché a differenza del romanzo non hanno il ‘fattore immersivo’: il racconto viene percepito come un’esperienza più letteraria che esistenziale, quasi un’abitudine più sofisticata rispetto al romanzo.

“Detto questo, va tracciata una linea: una cosa sono le raccolte che l’autore-romanziere fa una volta ogni tanto; un’altra quelle di coloro che nascono come autori di racconti. Il lettore in questi casi percepisce che è la dimensione naturale dell’autore, e il rischio è minore. Superwoobinda di Aldo Nove è un buon esempio, si tratta del resto di un autore che dà il meglio nella forma breve, e infatti è un libro compattissimo. Per questa ragione, anche quando si fanno racconti di autori percepiti come romanzieri, è cruciale avere una forte unità tematica o formale. Ad esempio Passeggeri notturni di Gianrico Carofiglio, che abbiamo appena pubblicato, è composto di 33 racconti, ma tutti di tre pagine esatte.”

Considerato che proprio il libro di Carofiglio ha esordito da primo in classifica, “Possiamo confermare che il lettore italiano non è necessariamente avverso ai racconti,” continua Repetti, “A patto che gli vengano presentati in un contenitore coerente, compatto e sensato.” Un caso completamente diverso sarebbe quello delle antologie a più voci, che devono necessariamente tentare di proporre un’idea, meglio se nuova, di letteratura: “Gioventù Cannibale era una vera e propria antologia-manifesto e come—si parva licet—I Novissimi nella poesia, aveva la sua maggior forza nel potenziale dirompente rispetto al campo letterario. Vale anche la pena dire,” conclude il fondatore di Stile Libero, “che la novella, il racconto lungo in volume, funziona abbastanza bene. Il che conferma il mio sospetto secondo cui è l’assenza di immersione a pregiudicare l’efficacia commerciale di molte raccolte fatte di racconti scollegati l’uno dall’altro.”

Fra gli autori di novelle e racconti più stimati in Italia c’è il pisano Luca Ricci: gli telefoni immediatamente e pare quasi attendere la domanda, tanto ha le idee chiare. La forma breve, asserisce, farebbe fatica per tre ragioni. “La prima è prettamente editoriale: il libro di racconti è più difficile da comunicare, non avendo un plot riassumibile in una scheda stampa.

“Poi c’è una ragione storica. In Italia la forma antagonista al romanzo è sempre stata la poesia. Scontiamo ancora la dicotomia Leopardi-Manzoni. Di Verga si ricordano I Malavoglia più che le Novelle rusticane; di Pirandello si parla sempre del teatro e dei romanzi, e molto meno delle Novelle per un anno.

“Gli editori, infine, hanno sempre la foglia di fico di qualche titolo in catalogo, ma sappiamo che un conto è pubblicare il libro, un altro spingerlo con i librai. A parte un paio di isole felici, gli editori, anche quando stampano libri di racconti, quasi sempre li mollano lì.” Un’isola di recente formazione è la NEO di Angelo Biasella e Francesco Coscioni, che ha pubblicato diverse raccolte: “Siamo andati bene con I cani là fuori di Gianni Tetti e con Antropometria e Il giorno che diventammo umani di Paolo Zardi,” racconta Biasella, “ma ‘bene’ per noi è un migliaio di copie.”

Che fare perché il racconto esca da una nicchia così ridotta? “Continuare a fare cose buone e a parlarne quando ne scopriamo una.” Ed è forse la difficoltà di riuscita del racconto che contribuisce al pregiudizio. “In un romanzo, del resto, si possono mascherare anche cali di tensione, in un racconto no. Anche per questo è più raro che escano buone raccolte di racconti.” Come esempio positivo Biasella cita Non abitiamo più qui di Dubus, pubblicato da Mattioli: “Un prodotto di una qualità tale da poter impattare qualunque tipo di lettore.”

In effetti, quando si parla di autori di racconti italiani, emerge una lista circoscritta: oltre agli stessi Ricci e Zardi, Valeria Parrella, Paolo Cognetti, Rossella Milone, Christian Raimo, tutti nomi che sono o sono stati legati alla casa editrice romana minimum fax, l’unica a puntare ancora in modo deciso sulla forma breve— penultima uscita è la riedizione della raccolta Io odio John Updike di Giordano Tedoldi. Una linea, come ti spiega Nicola Lagioia, editor della narrativa, “formatasi anche per ingenuità: pubblicavamo quello che ci piaceva, minimum fax nasceva come rivista, le riviste pubblicano testi brevi, così venne naturale farne anche in volume. Tanto più che avevamo un legame con la cultura nordamericana rappresentato anzitutto da Carver, un autore di racconti su cui la casa editrice era riuscita a costruire un discorso importante.

“Non dimentichiamo poi,” prosegue Lagioia, “che i primi due libri di Valeria Parrella, nel 2003 e nel 2005, furono grandi successi, il primo vendette 30.000 copie, il secondo segnò l’unica volta in cui riuscimmo a mandare un libro in cinquina allo Strega, quindi per noi, fin dall’inizio, l’idea che i racconti vendessero meno è stata falsa e continua a esserlo, pur nella piena consapevolezza di muoverci in un contesto editoriale per il quale è [generalmente] vera.”

La stessa Parrella, che ha pubblicato recentemente un’altra raccolta, Troppa importanza all’amore, per Einaudi, vede responsabilità per lo più editoriali: “Le major lavorano su due soli piani, fare fatturato per vivere e fare catalogo per mantenere un’immagine. Non si sognano nemmeno di potenziare un comparto che già rende poco. Ormai solo alcune indipendenti—penso, che so, a Sellerio—hanno interesse a lavorare di fino.”

Anche l’abitudine dei lettori gioca un ruolo importante. “Credo sia anzitutto questione di programmi scolastici. Nelle antologie ci sono estratti di romanzi e poemi, ma difficilmente racconti. E sì che con i racconti si potrebbe fare letteratura comparata, o addirittura scrittura creativa, dato che con un racconto ci si può rapportare subito, con un estratto da un testo molto più lungo, no.” Per rilanciare il racconto in Italia servirebbero cambiamenti a lungo termine. “Sarebbe necessario che gli editori si prendessero qualche rischio. Comincino a fare per le raccolte la stessa tiratura dei romanzi, a presentare in libreria delle pile significative del prossimo libro di racconti in cui dicono di credere, e vediamo. Chissà, forse la rete potrà aprire qualche spiraglio, fornendo spazi di pubblicazione così come ne ha forniti per il dibattito.”

Ma non tutti pensano che internet possa essere d’aiuto: di diverso avviso è per esempio Paolo Cognetti, autore, oltre che di varie raccolte, anche di un libro sull’arte del racconto, A pesca nelle pozze più profonde, edito sempre da minimum fax: “Non credo che internet possa aiutare. Ormai non è più luogo di lettura ma di cazzeggio; il contesto naturale dei racconti mi sembrano ancora le riviste e i libri. Io stesso, se non avessi incontrato in libreria le raccolte di Wallace e Carver, probabilmente avrei scritto romanzi.

“Chiediamoci piuttosto se la scarsa considerazione che hanno i racconti in Italia non sia colpa, più che di lettori o editori, degli scrittori. Di quelli che raccolgono i loro fondi di cassetto e si fanno pubblicare miscellanee di scarsa qualità. Quando il libro di racconti nasce per essere tale, e non come raccolta di avanzi, la coerenza di sguardo e contenuti, e quindi la vendibilità, rimangono invariate. Quel che si deve fare, allora, è agevolare lo sviluppo di nuovi autori dando loro spazio in libreria e su rivista.”

Anche oggi che le riviste si sono spostate per lo più online e siti come Le parole e le cose, minima&moralia, Carmilla, Nazione Indiana, 404:FNF o Il primo amore sono divenuti i luoghi del dibattito letterario, nessuno di essi pubblica regolarmente racconti. Da un anno esiste però Cattedrale, portale fondato da Rossella Milone, allo scopo di monitorare, promuovere e sostenere il racconto. “Abbiamo appena compiuto un anno e c’è stata molta partecipazione,” racconta Milone, “evidentemente c’era chi sentiva il bisogno di uno spazio così, vista anche la situazione dell’editoria italiana rispetto alla forma breve.

“A me è andata bene, sia il mio esordio che la mia prima uscita con una grande erano libri di racconti; che in Italia esistesse un problema con questa forma me ne sono accorta dopo. Certo, se avessi debuttato con un romanzo, in un momento storico in cui gli esordienti andavano forte, magari le vendite sarebbero state diverse,” continua Milone. “Il problema, però, mi pare culturale. Guardiamo alle rare occasioni in cui un giornale pubblica un racconto: viene sempre presentato come un ‘regalino’ dell’autore, come a sottolineare il suo essere qualcosa di minore. Non riconoscere a qualcosa piena dignità è il primo passo per la sua marginalizzazione. Oggi, infatti, un vero mercato del racconto non esiste, ci sono solo eccezioni e zone franche, tant’è che si è formato un circolo vizioso: gli editori pubblicano poche raccolte, i lettori si disabituano a leggerle, gli editori ne riducono ulteriormente quantità, tiratura e promozione, e via così.”

In un contesto del genere, qualcuno prova comunque ad andare in direzione opposta. Stefano Friani e Emanuele Giammarco, due giovani intellettuali di ritorno da due diverse esperienze in campo editoriale—Friani all’ufficio iconografi co Einaudi, Giammarco al Saggiatore —si presenteranno al prossimo Salone del Libro con una nuova casa editrice dedicata alla sola forma breve, Racconti Edizioni. Gesto folle?

“Al contrario,” spiega Friani, “frutto di una riflessione di ordine commerciale. La nicchia esiste, ma per incancrenito pregiudizio nessuno prova a sfruttarla davvero.”

“Abbiamo trovato titoli di grande successo mai portati in Italia, come Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh, Il guardiano del faro di Éric Faye, o libri meravigliosi che erano passati inosservati, come Firozsha Baag di Rohynton Mistry, che probabilmente aveva bisogno di un titolo meno criptico, e che proveremo a rilanciare. Speriamo che il pubblico ci segua.”

Un ottimismo a cui ti viene voglia di associarti, sebbene Christian Raimo, a sua volta debuttante 15 anni fa per minimum fax con Latte, prima di tre raccolte, avverta: “La crisi del racconto va letta all’interno di una più ampia crisi della fiction letteraria. Il racconto non è solo la forma breve della fiction, ne è anche la forma più ‘dura’. Si pensi a quanto sono rare le raccolte di racconti di genere, o i ‘racconti di non-fi ction’. È difficile anche solo pensarlo, un libro di racconti genericamente ‘commerciale’, perché il racconto è forma intrinsecamente letteraria: ogni parola pesa.

“Mi sembra anche,” chiude Raimo, “che si sia ridotto quell’ecosistema di riviste che c’era un tempo, laboratori che per ovvie esigenze di spazio si orientavano sul racconto. Oggi la gente pensa più alla pubblicazione che al confronto—ne è prova l’aumento degli agenti letterari, quando una volta era proprio nelle riviste che gli editori cercavano nuovi talenti—ed è naturale, allora, che tenti subito con i romanzi senza passare dai racconti.”

Due elementi che toccano la questione stessa della produzione letteraria: meno racconti letti, meno racconti scritti; meno racconti scritti, meno sperimentazione; meno sperimentazione, meno buoni romanzi: qualcosa che riguarda anche te, che preferisci le narrazioni lunghe. Nel dubbio, allora, recuperi e porti alla cassa il libro di Zambra—e non perché hai creduto alla storia degli “undici brevi romanzi”.

Tutte le illustrazioni di Fabulo.