Abbiamo chiesto a sei professionisti com’è davvero fare il traduttore in Italia

“Ah, fai la traduttrice? Mio cugino ha lavorato per tre mesi a Londra: puoi dargli qualche dritta, così tira su qualche soldo per arrotondare?” è solo una delle tante domande assurde che mi vengono poste in quanto traduttrice.

Nonostante ci ritroviamo ogni giorno a scontrarci con gli effetti di traduzioni disastrose, infatti, quello del traduttore è un mestiere su cui si hanno ancora idee troppo confuse. Spesso si pensa che basti aver guardato qualche serie TV in lingua originale o aver vissuto per qualche mese all’estero per potersi definire traduttori. Del resto, è un problema comune a molti lavori nel cosiddetto “ambito creativo”: sono tantissimi gli amatori pronti a definirsi professionisti del settore, svalutando l’intera categoria e causando non pochi problemi a chi, con quel mestiere, ci paga le tasse. Ma cosa succede se è un quotidiano nazionale a diffondere quest’idea distorta?

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È il caso di un post su Facebook pubblicato dal Corriere della Sera qualche giorno fa, e che ha girato abbastanza tra chi svolge la professione di traduttore. “Dare ripetizioni, baby sitter, traduttore: ecco i lavori (in versione 2.0) più smart e meglio pagati“, recitava, causando qualche risata isterica per quel “meglio pagati.” Nel post, nella verità non molto dettagliato, si accennava poi a qualche “lavoretto per arrotondare e pagarsi qualche sfizio durante gli studi,” senza riferimenti agli anni di studi che invece sono necessari per esercitare la professione con cognizione di causa, alla formazione continua, ai software di traduzione e alle imposte da pagare.

Per cercare di capire se sono solo io ad averla presa male o esiste un reale scollamento tra traduttori italiani e percezione comune, ho chiesto a sei traduttori con specializzazioni diverse di raccontare la propria esperienza.

MATTEO COLOMBO, 39 ANNI

Ho conseguito un diploma universitario in traduzione, e ho cominciato a lavorare prima della fine degli studi. Al mestiere sono approdato apparentemente per caso, salvo poi ricordarmi anni dopo che da bambino cancellavo i balloons di Batman con il bianchetto per poi riempirli, dizionario alla mano, della mia traduzione. Traduco libri da circa 15 anni, e sono specializzato in narrativa angloamericana contemporanea.

Quella sottolineata dal Corriere è una realtà, il che non significa che mi piaccia. Per ragioni strettamente economiche, non sempre la qualità delle traduzioni richieste è alta, per cui sì, può essere un “lavoretto smart” (una moratoria istantanea sull’aggettivo “smart”!).

Oltre a essere pagato pochissimo, se si parla di editoria, quello del traduttore è il mestiere dietro le quinte per eccellenza: in certa misura ha senso che tale rimanga, ma in parte sono le case editrici che non vogliono darci visibilità. Ciò viene giustificato con motivazioni surreali, ma serve ad arginare rivendicazioni legittime come il nome in copertina. La mia esperienza è un po’ diversa: ho lavorato alla nuova traduzione de Il Giovane Holden, grazie a cui ho ottenuto una visibilità anomala e scoperto un interesse per la traduzione di cui mai avrei sospettato l’esistenza.

Perché molti credono che basti masticare una lingua per definirsi traduttori? Perché siamo un paese di mitomani, nel quale la mitomania viene spesso coccolata e incoraggiata.

ANTONELLA BARBIERI, 30 ANNI

Mi sono avvicinata al mondo della traduzione su consiglio di un amico. L’idea mi era sempre piaciuta, anche se non sapevo da dove cominciare—comunque, di lì a poco mi arrivò il primo testo da tradurre: un articolo scientifico. Mi sono laureata in lingue e letterature moderne europee alla Federico II di Napoli e ho conseguito un Master in Traduzione Professionale e Mediazione Linguistica per la Comunicazione d’Impresa. Lavoro come traduttrice dal 2012 con specializzazione nell’ambito del marketing medico-farmaceutico e delle tecnologie informatiche.

Chiaramente non è stato piacevole leggere l’articolo del Corriere, ma bisogna ricordare che esistono traduzioni e traduzioni. Un cliente ben informato conosce la differenza: non affiderebbe mai, per esempio, un manuale sulle emergenze nucleari e radiologiche a uno studente.

In realtà non penso che ci sia così tanta disinformazione ovunque sul nostro mestiere: la nostra figura è molto ben valutata in alcuni mercati/settori. Non tutti lo sanno—ma questo è un altro discorso. Ho avuto cattive esperienze con clienti che hanno svalutato il mio lavoro o molte volte hanno creato problemi coi pagamenti, ma non mi sono mai trovata in una situazione estrema, anche perché sono del parere che clienti del genere sia meglio perderli che trovarli.

ALICE CASARINI, 34 ANNI

Sono partita da una laurea in letteratura nordamericana e da periodi di studio negli Stati Uniti e in Inghilterra, per poi approdare a una seconda laurea con tesi di traduzione letteraria, un master e un dottorato di ricerca in traduzione audiovisiva. Mi divido fra l’insegnamento della lingua e della traduzione dall’inglese all’italiano presso la SSML Carlo Bo di Bologna e il lavoro da traduttrice, principalmente nei settori della narrativa per ragazzi e degli audiovisivi.

I rischi di una traduzione non curata forse sono meno evidenti di quelli di una prestazione di bassa qualità in un altro settore, ma basta dare un’occhiata alle gallery di insegne esilaranti o di tatuaggi sgrammaticati come “Nothing last’s forever”, per capire che gli errori linguistici sono molto più permanenti di quanto sembri!

Credo che il problema principale espresso dal titolo del Corriere sia a monte: in Italia si tende a ridurre i lavori intellettuali e creativi a hobby, e presentare le professioni legate alle parole come lavoretti contribuisce ad alimentare la concezione di questi mestieri come di qualcosa di improvvisabile. Dispiace doppiamente che a veicolare questa concezione sia uno dei maggiori quotidiani nazionali, che invece dovrebbe valorizzare le professioni legate alla parola scritta—settore a cui appartiene esso stesso. Anche le piattaforme dedicate ai freelance non aiutano, perché mettono in atto un meccanismo di asta al ribasso e i clienti si abituano a prezzi più bassi.

DOPPIOVERSO – BARBARA RONCA E CHIARA RIZZO, 37 ANNI

Entrambe abbiamo una formazione tangenziale rispetto alla traduzione. Siamo laureate in Lettere, con indirizzi che ci sono stati utili ai fini della nostra specializzazione: Barbara ha studiato critica letteraria e ha un master in Comunicazione e Cultura del Viaggio, Chiara è laureata in Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico. Lavoriamo entrambe da una decina d’anni, dall’inglese all’italiano. Collaboriamo come Doppioverso su progetti specifici, ma come traduttrici abbiamo mantenuto un’identità professionale distinta.

La figura del traduttore, soprattutto nell’ambito editoriale, è legata a un’idea romantica: il traduttore sarebbe un hobbysta di lusso, un missionario della cultura. Così la professionalità si perde, o quantomeno passa in secondo piano. C’è una concezione poco pragmatica, per cui gli stessi aspiranti colleghi magari appena usciti dall’università faticano a farsi un’idea chiara degli strumenti e delle competenze effettive che poi dovranno padroneggiare in corso d’opera, soprattutto in termini di contratti, compensi, diritti.

Il più delle volte, poi, l’oggetto del nostro lavoro—la lingua—viene inteso come fine e non come semplice strumento. Per i non addetti ai lavori, la lingua spesso incarna tutta l’essenza della nostra professione, mentre in realtà è solo uno dei fattori in gioco.

MARTINA RUSSO, 27 ANNI

È il 2009 quando qualcuno mi parla dell’esistenza di una facoltà di traduzione e interpretariato. È colpo di fulmine e mi iscrivo. Nel frattempo lavoro come hostess di terra. Tra un check-in e l’altro, un passeggero tedesco mi dà un biglietto da visita e mi dice che è sempre alla ricerca di traduttori, così inizio a muovere i primi passi in questo mondo. Sono specializzata in traduzioni di marketing e pubblicità, turismo e viaggi, telecomunicazioni e audiovisivo.

Ovviamente, non basta un Erasmus di sei mesi in Spagna o aver studiato francese alle elementari per diventare traduttori: esistono mille generi e sottogeneri diversi di traduzione e ognuno richiede un elevato grado di specializzazione, conoscenza di tecniche specifiche e della lingua di partenza e di arrivo. Ortografia e grammatica, sì, ma anche cultura e aspettative del committente e del cliente finale sono aspetti da considerare per una buona traduzione, altrimenti ci ritroviamo davanti a orrori come una sagra gastronomica dedicata alle cime di rapa che magicamente diventa un festival del clitoride grazie a un errore di Google Translate.

Il problema della professionalità del traduttore è evidente anche dalle piattaforme dedicate a questa categoria: io ho provato a usare piattaforme come Freelancer ed Elance, ma quasi sempre le mie offerte sono respinte perché altri candidati (che magari non lo fanno di lavoro) si autoproclamano traduttori per un giorno e offrono di fare lo stesso lavoro per il dieci percento di quanto chiedo io. Ovviamente non ci pagano le tasse, non hanno idea di cosa sia un CAT tool (strumento di traduzione assistita), e così via. E vogliamo parlare dei criteri con cui queste piattaforme definiscono la nostra professionalità? Ottenere un punteggio superiore al 60 percento con un paio di domande a risposta multipla è garanzia della mia professionalità? Vi lascio immaginare i risultati.

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