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Tecnologia

The Walking Dead e il futuro dei videogame

Dalle avventure grafiche ai videogiochi senza giocatore, il rischio è il trionfo dell'idiozia.

Ormai arrivata al suo terzo episodio e vicina alla conclusione, la seconda stagione di The Walking Dead, il videogioco della TellTale Games tratto dalla graphic novel di Robert Kirkman, promette di passare alle cronache come un successo assoluto, al pari della serie precedente. La cosa mi preoccupa enormemente.

Intendiamoci: il gioco mi piace, e molto, e probabilmente le premesse della storia horror di Kirkman  trovano proprio in questo cosiddetto adventure game la loro realizzazione più compiuta. L’idea di base di The Walking Dead  è quella di un’apocalisse zombie un po’ più complicata del solito. Prima di tutto perché a diventare morti viventi non sono solo i poveracci morsicati dagli zombie: chiunque muoia, a prescindere dalle cause, si trasforma automaticamente in un mostro mangia-cervella. Ciò influisce non poco sulla quantità di non-morti che i superstiti devono affrontare.

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In secondo luogo, l’apocalisse zombie è un’apocalisse vera e propria: va avanti per anni senza che si scorga una luce in fondo al tunnel, mentre la società civile va a rotoli, le risorse (alimentari, energetiche, militari) si fanno scarse  e, insomma, lo spunto horror diventa il pretesto per uno studio sociologico delle comunità umane e della gestione del potere nei momenti di crisi. Il risultato è, grossomodo, un incubo hobbesiano—homo homini lupus e via dicendo—ma con più budella e arti mozzati.

Ora, tutto questo è ovviamente raccontato con maestria nel fumetto originale; ma è solo nel videogioco che il senso di angoscia e di costante graticola morale che sono il nucleo dell’opera vengono chiaramente provati in prima persona dal giocatore.

Il gameplay è strutturato in maniera tale che il personaggio protagonista debba districarsi continuamente fra varie scelte alternative—che vanno da semplici variazioni di tono nel dialogo al dover decidere se rianimare o fracassare il cranio di un tizio  svenuto—da ognuna delle quali, in teoria, dovrebbe zampillare una storia diversa. Dico in teoria, e lo sottolineo, perché, nonostante il gioco dichiari di offrire a ogni giocatore un’esperienza personalizzata, le conseguenze derivanti dall’aver intrapreso una certa “strategia” piuttosto che un’altra sono minime: la sceneggiatura del videogioco è una, salvo poche variazioni di forma. Se, ad esempio, decidiamo di non sfracellare la testa del tizio, ci penserà qualcun altro al posto nostro—lasciandoci abbastanza contrariati, vi dirò.

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Vero è che, d’altronde, l’illusione di costruire mattone dopo mattone una storia unica e frutto delle nostre private valutazioni morali è forte, e riesce a creare quel coinvolgimento che ha sancito il trionfo della prima stagione di The Walking Dead e, sono sicuro, sancirà quello della stagione attuale.

Il problema che ho con il successo di The Walking Dead è che esso venga considerato il gioco che ha ridisegnato l’idea di avventura grafica, o “punta-e-clicca” che dir si voglia.  Il rischio è quindi che le avventure grafiche del futuro assomiglino sempre di più a The Walking Dead, anche perché la formula, dal punto di vista delle vendite, funziona. Da fan del genere, da uno che a dieci anni buttava ore e ore su Grim Fandango e Monkey Island, la cosa mi preoccupa molto.

Forse è sbagliato considerare The Walking Dead una vera avventura grafica, e forse anche solo un videogioco. Si tratta di un film interattivo—un po’ come Fahrenheit o Heavy Rain di David Cage—che è un modo carino per definire “un videogioco senza giocatore”.  I film interattivi sono enormi monumenti all’ego del programmatore-regista, che usano ogni artificio per dare al giocatore l’illusione di servire a qualcosa, mentre di fatto funge solo da scimmia spingi-pulsanti. Non c’è nessun vero sforzo di chi è davanti allo schermo; in certi punti di The Walking Dead, se avessi posato il joystick a terra, il gioco avrebbe galoppato avanti indisturbato e invariato, dato che le reali deviazioni dalla trama sono minime. Questo è certamente molto diverso da ciò che accade con un’avventura grafica, dove a volte si rimane bloccati per ore nel tentativo di risolvere un enigma. Ricordo di aver buttato tre ore sul famigerato enigma del caprone in Broken Sword, pomeriggi interi su alcuni puzzle di Myst, e più di qualche quarto d’ora cercando di aprire il gigantesco uovo Fabergé di The Last Express. The Walking Dead, qualunque scelta si compia, durerà sempre un’ora e mezza a episodio.

Ciò accade perché alla TellTale, come altrove, ciò che sta avvenendo è un cambiamento del modo in cui pensiamo alle avventure grafiche – e al videogioco nella sua globalità. Fino ad ora, nell’universo videoloudico, c’era stata una grande enfasi sulla componente agonistica: per riuscire a giocare e a completare un punta-e-clicca (un qualunque videogioco, in realtà), bisognava essere bravi. Con The Walking Dead si porta avanti l’idea che il videogioco sia un’esperienza emozionale in cui non ci sono risposte giuste e risposte sbagliate, dato che comunque si agisca il gioco continuerà ad andare avanti, e il finale sarà sempre più o meno quello.

Ed è proprio questo il motivo che lo ha reso un successo di pubblico: è un gioco accessibile davvero a tutti. Non essendo davvero un gioco, è il gioco più democratico che ci sia. Per questo, anche se aspetto il prossimo capitolo di The Walking Dead, prego perché non diventi davvero il nuovo standard delle avventure grafiche future. Sarebbe il trionfo dell’idiozia.