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Gianni Boncompagni - Cronaca di un necrologio probabilmente rifiutato

"Viviamo in un momento davvero cafone dove la gente pensa che chi fa la televisione esiste, chi non la fa non esiste e tu per fare televisione devi far finta di credere che sia davvero così."
Gianni Boncompagni in uno spot di Non è la Rai nel 1992. Grab via YouTube.

Peppi Nocera è un autore televisivo. Negli anni ha lavorato a Stranamore, Matricole, Meteore, Bigodini, Il brutto anatroccolo, Saranno famosi, Amici, X Factor e L'isola dei famosi—in pratica, una bella fetta di televisione italiana degli ultimi vent'anni. Attualmente lavora come consulente artistico per le reti d'intrattenimento SKY, e oggi per noi ha scritto di Gianni Boncompagni, scomparso a 84 anni dopo una vita nella televisione.

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Chiedo perdono del preambolo, devo cominciare dal contesto personale per poi parlare del mio benefattore. Con tutta probabilità se non avessi avuto la botta di culo d'incontrare Gianni—e in egual misura Irene Ghergo—non avrei mai lavorato in televisione: capitò tutto molto in fretta e a metà degli anni Novanta, in un periodo difficile da capire se non si è romani, dove senza lavorare e senza rubare si poteva non solo sopravvivere ma anche vivacchiare ben al di sopra della decenza grazie all'aiuto di amici e parenti, cosa che incredibilmente accade tuttora nelle strade, case e ristoranti di Roma nord.

Gianni lo conoscevo pochissimo, ci incontravamo d'estate nella piscina del complesso residenziale "Due Pini" in via Nemea a Roma, dove vivevo ospitato dalla generosissima e stupendamente hippy famiglia Campanozzi, già proprietaria di locali mitologici degli anni Ottanta, primo fra tutti "Le Cornacchie" che era un this 'n that di nobiltà e generone romano mischiato a jet-set internazionale di cantanti in classifica, cinemari rampanti, pettegoli seriali e bellezze wannabe. Frenk Campanozzi era il mio migliore amico—spiritosissimo, buono e leggero—a sua volta molto amico di Barbara Boncompagni, la più piccola delle figlie di Gianni.

Poi però io ero andato a Milano, Frenk era morto all'improvviso e tornato a Roma non vivevo più lì. Avevo solo una vaga idea di cosa fosse Non è la Rai, diciamo che avevo oltrepassato di lunga l'età del suo target di riferimento: non ero una ragazza fan dei Take That e della lycra, né un adolescente attratto anche lui da bagliori sintetici (e prodromi di orgogliosi coming-out) o dalla bellezza del cast, non sapevo chi fosse Ambra; e quindi così ignorante vengo convocato nell'ufficio-residenza di Gianni agli studi Palatino di Roma, un giorno d'aprile del 1994.

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Boncompagni mi mette alla prova, gli servono dei testi per delle musiche composte da lui e da Franco Bracardi e mi dà indicazioni che capisco col senno di poi scientemente sbagliate: vuole dei testi scioccanti e contemporanei, canzoni pugno-nello-stomaco, manifesti avanguardisti. Si lamenta che in tanti hanno provato fallendo miseramente, da autori famosi a scuole di parolieri famosi. Poi mi mette in mano una musicassetta e mi dà un giorno di tempo. Torno a casa.

Uso una scintilla di buonsenso chiedendomi dove avessero fallito i miei predecessori, ascolto le musiche che sono leggere, leggerissime, sembra di ascoltare canzoni, ma sì, di Raffaella Carrà. Decido di non seguire minimamente le indicazioni di Gianni, bensì di farmi possedere dalla sua vis pop, di andare di maniera, figuriamoci se non apprezzi e conosca a menadito gli stilemi boncompagneschi del "Tuca Tuca" o "Pedro" o "E salutala per me". Scrivo tre testi e il giorno dopo glieli porto. Il giorno dopo ancora mi chiama dicendomi che gli piacciono, anzi, mi chiede se ho voglia di fare l'autore tv, senza uno straccio di porta un caffè o fai una fotocopia sono autore tv e firmo in testa con lui e Irene Non è la Rai. Non esistevano ancora le votazioni online: molto, molto simpatico.

"Viviamo in un momento davvero cafone dove la gente pensa che chi fa la televisione esiste, chi non la fa non esiste e tu per fare televisione devi far finta di credere che sia davvero così," mi disse il primo giorno di lavoro passeggiando al Centro Palatino. In effetti Gianni è l'unico vero artista Pop che abbia mai conosciuto di persona, inteso come profondo conoscitore della pancia di un generalismo hic et nunc, ma anche l'unico maschio cisgender eterosessuale a capire davvero le suggestioni del Camp, e cioè quello di cui la pancia avrebbe avuto bisogno nel futuro immaginando lui stesso le favolose assurdità. E quindi quando sceglieva il Pop era per successi conclamati e ricchissimi, quando trascendeva in Camp diventavano meravigliosi errori madornali consapevoli del baratro, ma anche di un'appagante riscoperta del tempo galantuomo.

Una delle sue più grandi doti oltre la comprensione del tempo è stata la consapevolezza dello spazio: Gianni era uno scenografo situazionista eccezionale, e ogni sua messa in scena creata era ipnotizzante come solo lo sono i plastici e quasi tutto il perimetro di Tokyo, era il Clima da cui far esprimere la messa in scena di un programma televisivo, mai il contrario. E dunque forma e canone ad ogni costo, a costo perfino del contenuto, è la televisione senza sensi di colpa, è la formula dell'intrattenimento leggero, è il finto "presto e male" di cui lui vagheggiava sogghignando ed evitando accuratamente di rivelare la vera ricetta per la quale comunque tutto poteva accadere: l'idea.

Boncompagni era una persona abbastanza malinconica e quindi molto spiritosa nel senso saturnino del termine, grande affabulatore di ricordi, incapace di rancore, curioso, pigrissimo, educato, mai invadente. Tutte doti derivate da un'intelligenza sensibile davvero oltre la norma, che gli ha permesso di riconoscere e valorizzare donne molto speciali creando per loro un'estetica univoca che le traghettasse a volte nella fama, a volte nel culto.

Ho scritto un necrologio ufficiale su Il Messaggero ma deve essere ancora approvato, con tutta probabilità e per una policy che vieta dei mezzi sorrisi non lo sarà, quindi lo ripropongo qui:

Peppi Nocera ringrazia
GIANNI BONCOMPAGNI
e si scusa per il necrologio.