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Oggi Mark Zuckerberg è diventato un politico

Dan Sullivan: Mr. Zuckerberg, che storia la sua, vero? Dai dormitori fino al titano globale che ora siete. Poteva succedere solo in America, è d’accordo?

Mark Zuckerberg: Senatore, quasi solo in America.

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Dan Sullivan: Non sarebbe potuto succedere in Cina, vero? O meglio, quello che lei ha fatto in 10 anni.

Mark Zuckerberg: Be’, Senatore, ci sono delle piattaforme internet cinesi molto forti.

Dan Sullivan: Sì, è vero — Ma avrebbe dovuto rispondere ‘sì’ a questa domanda. Dai, coraggio, sto cercando di aiutarla, no? Per piacere, è di fronte a un mucchio di (politici americani, ndr) — la risposta è ‘sì.’

Rispondere a domande scomode e dirette non è prerogativa di nessun mestiere, ma prendere una posizione lo è, ed è una prerogativa che appartiene a un mestiere fondamentale e inquinato: quello del politico. Nella giornata di ieri Mark Zuckerberg ha testimoniato davanti al Congresso americano in un’udienza durata 6 ore in cui è stato discusso il ruolo di Facebook nel recente scandalo Cambridge Analytica.

Il CEO di Facebook ha pronunciato una testimonianza introduttiva davanti ai Membri del Congresso in cui si è assunto piena responsabilità dei recenti avvenimenti legati alle violazioni della privacy degli utenti di Facebook, alla proliferazione del fenomeno delle fake news e alle interferenze estere nei processi democratici di diversi stati del mondo, Stati Uniti e Regno Unito su tutti.

È seguito un serratissimo botta e risposta tra Mark Zuckerberg e diversi senatori appartenenti al comitato commerciale e giudiziario del Congresso e, per la prima volta dalla nascita di Facebook, Zuckerberg ha dovuto confrontarsi e rendere conto direttamente alla politica o, più precisamente, a personalità che lui non aveva scelto e su cui non aveva alcun controllo.

Mark Zuckerberg all’inizio della seduta di martedì. Screenshot via YouTube

Nei temi e nelle maniere emerse dall’udienza è diventato evidente come Mark Zuckerberg sia diventato infine e suo malgrado un politico: una personalità con influenza sociale imponente e la cui partecipazione ai processi politici non è più una scelta ma una necessità. Benché un diretto coinvolgimento di Zuckerberg nella sfera politica fosse un gossip onnipresente ormai da alcuni anni a questa parte, il CEO di Facebook si era sempre ben guardato dal palesare chiaramente queste tendenza, ma non per questo è rimasto con le mani in mano.

Nel corso del 2017, attraverso la sua Chan-Zuckerberg Foundation, Mark Zuckerberg ha profuso oltre 45 milioni di dollari a supporto della fine dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti e per finanziare il sanamento dell’enorme problema abitativo presente nel Paese, tutto questo mentre continuava il suo tour state-by-state degli Stati Uniti. Ma le sue manovre economiche, nell’ultimo anno, hanno sfiorato entità direttamente vicine alla politica con cifre piuttosto ingenti: in un report stilato dal Center for Responsive Politics, Facebook si posiziona appena fuori dalla top 20 delle realtà più generose per ciò che riguarda le pratiche di lobbying, con circa 11.5 milioni di dollari spesi nell’ultimo anno.

Ma è probabilmente negli avvenimenti degli ultimi mesi, quelli legati allo scandalo Cambridge Analytica, che Zuckerberg ha trovato l’occasione per valutare in maniera più concreta il suo coinvolgimento politico — uno sforzo che stava tutto sommato andando bene, fino a quando nell’udienza di ieri il Congresso americano non lo ha costretto a diventare un politico, palesando la necessità di instaurare un dialogo tra pari.

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Se da un lato è stata la reiterata e ossessiva ammissione di colpa e assunzione di tutte le responsabilità da parte di Zuckerberg a legare a doppio filo il problema della privacy alle dinamiche di Facebook — quasi il social network fosse l’unico modo per poter gestire la propria privacy online —, sono stati i Senatori stessi a invitare Zuckerberg al suo battesimo del fuoco.

Tra metafore al vetriolo e domande ingenue, i Senatori del Congresso hanno manifestato una conoscenza della tecnologia discussa estremamente eterogenea e hanno legittimato ogni domanda — dalla più acuta alla più semplice — a parte del processo di analisi necessario a comprendere come meglio inquadrare la supposta necessità di legiferare ulteriormente su Facebook e i suoi processi.

La conclusione è che le chiavi dei temuti ‘termini di servizio’ — quelli che regolano cosa può e non può fare Facebook con i dati dei propri utenti (e viceversa) — sono esclusivamente nelle mani di Zuckerberg e la loro apertura dovrà essere eseguita insieme al Congresso, non da esso. Un processo complementare, che non solo permetterà al Congresso di ammorbidire le sue intenzioni di controllare maggiormente un’azienda privata mascherandola da iniziativa congiunta, ma che permetterà allo stesso anche di trovare la quadra migliore per non scalfire l’importanza economica che Facebook ha per il sistema americano.

Come sottolineato da Evgeny Morozov, Facebook e molte altre piattaforme web sono e continuano ad essere aziende americane che rispondono alla legge e alla politica americana, e se da un lato questa caratteristica limita il raggio d’azione della politica americana stessa, dall’altra fornisce a Zuckerberg un punto di leva cruciale: la stabilità e l’unione di Facebook è un elemento ormai cruciale per gli equilibri geopolitici degli Stati Uniti, e indebolirlo significa lasciare maggiore spazio ai titani cinesi che offrono servizi simili agli altri 2 terzi della popolazione globale.

In questo scenario viene chiesto a Zuckerberg di trovare un compromesso estremamente complesso: fare il gioco del pubblico mantenendo al tempo stesso gli interessi del privato, perché ormai quegli interessi sono anche del pubblico. Per farlo, il Congresso questa volta ha scelto di sfruttare una scorciatoia intelligente investendo Mark Zuckerberg dell’autorità di un politico e rendendolo in tutto e per tutto un asset statunitense in un mercato economico globale. Il problema, che dovrà essere discusso con urgenza, è che Mark Zuckerberg non ha ancora gli strumenti per fare il politico.

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