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Con in testa un cappello da baseball per ripararsi dal sole accecante, Jose Jorge Santos de Oliveira transita sulla Avenida das Americas, a Rio de Janeiro. Da qui, indica i resti del suo vecchio barrio, ora ricoperto da una fitta boscaglia tropicale.
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“Non c’era bisogno che lo facessero. Questa zona non ha niente a che vedere con le Olimpiadi,” dice Jose, riferendosi alla distruzione della favela di Vila Recrejo II, dove ha vissuto per 16 anni. “Non un singolo atleta passerà da qui. È solo una scusa.”
Secondo un dossier pubblicato settimana scorsa dal Comitato Popolare per la Coppa del Mondo e le Olimpiadi di Rio de Janeiro, tra il 2009 e il 2015, 22.059 famiglie – equivalenti a 77.206 persone – sono state sfrattate dalle proprie abitazioni. Il dossier utilizza i dati forniti, a livello comunale, dalla città di Rio.
L’amministrazione locale, guidata dal sindaco Eduardo Paes, sostiene che gli sfratti non siano solamente dovuti all’organizzazione dei giochi, ma anche ai lavori in corso per il futuro della città — necessari, secondo il primo cittadino, per fornire un sistema di trasporto pubblico moderno e una rete stradale di cui tutti possano beneficiare. Molti, tuttavia, pensano che la vera forza trainante di sgomberi e abbattimenti sia una grande, e lucrativa, operazione di speculazione immobiliare.
“Questo è oggi il metro quadrato di terra più caro di Rio,” dice Santos de Oliveira, indicando il suo vecchio quartiere. “Si trova in città, ma è anche in mezzo alla natura. E le spiagge sono pulite.”
Theresa Williamson, fondatrice dell’associazione Catalytic Communities, pensa che le autorità locali abbiano trovato nelle Olimpiadi la scusa perfetta per aggirare il normale piano regolatore.
“I Giochi hanno dato il via libera alla possibilità di realizzare nuove costruzioni senza dover effettuare una consultazione pubblica. Normalmente ci sarebbe una prassi per decidere il percorso delle strade, l’ubicazione delle infrastrutture, e le opere di compensazione,” ha detto Theresa. “Tutto questo ha fornito il pretesto perfetto affinché decisioni veloci possano essere prese senza il bisogno di una consultazione, e si possa procedere agli sgomberi.”
L’ondata di sfratti teoricamente collegati alle Olimpiadi va inoltre a scontrarsi con le precedenti politiche del governo di Rio. La dichiarazione d’intenti del programma Favela Bairro, lanciato dalla città negli anni ’90, era infatti quello di “integrare le favelas esistenti nel tessuto cittadino attraverso il riammodernamento delle infrastrutture e l’incremento dei servizi.”
“Quando tagli le radici della gente crei società deboli, senza senso di comunità.”
Nel 2010 quel progetto fu sostituito dal programma Morar Carioca che, presentato come il principale ‘lascito sociale’ delle Olimpiadi, promise di integrare tutte le favelas nella città entro il 2020.
“Nel 2010 riuscivo a percepire un’atmosfera positiva tra le comunità. La gente sentiva che le cose sarebbero migliorate, era speranzosa, l’economia stava crescendo,” spiega Williamson. “E l’ottimismo può attenuare i problemi sociali. Quando qualcuno si sente pieno di speranza e positivo è meno probabile che si faccia coinvolgere dalla criminalità.”
Secondo Lucas Faulhaber, co-autore di un libro sugli sfratti legati alle Olimpiadi, tutto ciò è finito nel dimenticatoio. Faulhaber indica il quartiere di Vila Autódromo come l’”esempio perfetto” di come i Giochi abbiano permesso al comune di cacciare via gli abitanti, dopo anni di tentativi a vuoto.
“Il governo sta semplicemente usando la scusa [delle Olimpiadi] per mascherare i suoi reali interessi, ovvero lo sviluppo immobiliare,” dice Faulhaber. “A Vila Autódromo hanno già provato diversi metodi per liberarsi dei suoi residenti nel corso degli anni: dissero che si trattava di un’area a rischio, o annunciarono problematiche di natura ambientale.”
Oggi a Vila Autódromo – che si trova a un centinaio di metri dal Parco Olimpico, il cuore dell’evento sportivo programmato per l’anno prossimo – sono rimasti quasi esclusivamente i detriti delle dozzine di edifici demoliti, che ricoprono quelle specie di sentieri di sporcizia che dovrebbero essere delle strade.
Ma un gruppo di residenti è determinato a restare.
“Io non me ne vado,” afferma 66enne Denise Costa do Santos, mostrando con orgoglio i mazzi di gelsomino fresco che appena raccolti sulle rive del Lagoa de Jacarepaguá, la grande laguna poco distante. “Anche se per gran parte del tempo non c’è acqua, se le tubature sono esplose, se gli alberi sono stati abbattuti e se la mia casa traballa a causa dei lavori di costruzione, io rimango. Chiederò aiuto a Dio.”
Denise, ci spiega, ama vedere i fuochi artificiali di Capodanno riflessi nel lago vicino a casa sua. Un accenno di disillusione e disprezzo, tuttavia, interrompe il suo discorso: “Questo potrebbe essere l’ultimo anno che li vedrò.”
“Non voglio andarmene. La mia vita, la mia storia e i miei ricordi sono qui.”
Quando il comune di Rio iniziò a sgomberare gli abitanti della zona per fare spazio al viale di accesso al Parco Olimpico, nel febbraio 2014, a Vila Autódromo vivevano 583 famiglie. Circa 2.450 persone. Oggi rimangono meno di 50 famiglie.
“Quando hanno abbattuto il quartiere ho perso l’unico lavoro che avevo,” dice il 58enne João Felix Do Santos, che si è guadagnato da vivere pulendo le strade, tagliando l’erba e dipingendo i paracarri.
Do Santos è uno dei tanti ex abitanti che sono stati cacciati, e poi trasferiti in un vicino complesso di appartamenti. L’uomo non si è mai ambientato nella nuova area, e così è tornato a Vila Autódromo. “Non mi sentivo a casa lì,” dice Do Santos. “Ma non so quanto dureremo.”
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Secondo la rappresentante della comunità Maria da Penha Macena, quelli che rimangono – o che sono ritornati – stanno facendo del loro meglio per mandare avanti il quartiere. Maria ci mostra la piccola chiesa della comunità, scintillante e inspiegabilmente nuova rispetto alla case distrutte e alle rovine che la circondano. “L’abbiamo ristrutturata,” dice la donna, con un sorriso che trasuda orgoglio, energia e indignazione.
Macena è finita sulle prime pagine dei giornali a giugno, quando la polizia ha cercato di sfrattare dalla propria casa, usando la forza, una famiglia di vicini. Gli abitanti hanno cercato di fermarli, la disputa è diventata violenta e l’immagine della sua faccia tumefatta e insanguinata ha fatto il giro del Brasile.
“Non voglio andarmene,” afferma Macena. “La mia vita, la mia storia e i miei ricordi sono qui.”
Sebbene il comune di Rio sia obbligato per legge a garantire una compensazione o un’abitazione alternativa ai residenti sfrattati, in molti casi le nuove case offerte non sono adatte o sono lontane dalle comunità native, oppure il contributo economico è troppo basso.
Jose Jorge Santos de Oliveira ci ha detto che il comune gli ha offerto inizialmente solo 8.600 real brasiliani, poco più di 2.000 euro, come rimborso per la demolizione della sua casa a Vila Recreio II. Dopo essersi opposto, all’uomo sarebbero stati offerti tre appartamenti nel centro della città. Jose, però, li ha rifiutati: ha preferito restare e lottare per l’intera comunità.
Non è solo una questione di soldi – sottolinea Santos de Oliveira – è anche “il senso di appartenenza” legato alla condivisione di chiese, scuole, ospedali e spazi pubblici con i vicini. Una solidarietà e un’unione che aiutano a tenere lontane le cosiddette ‘milizie’.
“Dovrebbe essere un reinsediamento, ma non lo è. È uno sgombero. Lo sgombero lo fai con i rifiuti, non con le persone.”
Le milizie sono gang criminali composte da poliziotti in servizio o in pensione, guardie carcerarie e militari, che chiedono il pizzo agli abitanti e ai negozianti in cambio di sicurezza, o che impongono tasse sui servizi di base come l’erogazione di gas e acqua. A volte, lavorano come squadre della morte o vigilanti in affitto. Dati ufficiali della polizia di Rio indicano che il 45 per cento degli omicidi in città sono opera di queste milizie.
“Quando tagli le radici della gente crei società deboli, senza senso di comunità,” dice Santos de Oliveira. “Dovrebbe essere un reinsediamento, ma non lo è. È uno sgombero. Ma lo sgombero lo fai con i rifiuti, non con le persone.”
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