Due giorni fa, in una tendopoli di braccianti alle porte di Rosarno, un ragazzo malese è stato ucciso da un carabiniere. Le forze dell’ordine erano state chiamate dai braccianti stessi in seguito a una lite nata tra il ragazzo e altri occupanti della tendopoli, con lo scopo di sedarlo. A quanto riportato, il 27enne si sarebbe scagliato contro il carabiniere—adesso iscritto al registro degli indagati—con un coltello da cucina (che in alcuni resoconti diventa un pezzo di ferro), attacco a cui questo ha risposto con un colpo da arma da fuoco letale.
Nonostante la dinamica della situazione resti poco chiara e molti dettagli sconosciuti, la vicenda ha immediatamente scaturito un’ondata di polemiche che si sono limitate, perlopiù, all’assegnazione della colpa e al razzismo di rito contro il migrante ucciso.
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Ma l’episodio avvenuto a Rosarno non è che una spia quasi inevitabile di un fenomeno molto più vasto e complesso: il caporalato, ovvero quel sistema di reclutamento per i lavori agricoli che porta, in tutt’Italia, migliaia di braccianti a vivere in uno stato di schiavitù. Nell’ultimo rapporto Flai Cgil, “Agromafie e Caporalato” viene messa in evidenza, oltre alle condizioni di lavoro inumane dei braccianti, un’economia illegale dal valore di 17 miliardi l’anno legata al fenomeno.
Per capire di più di come funziona e quali sono le condizioni in cui vivono i braccianti, ho contattato Leonardo Palmisano, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari e autore, insieme a Yvan Sagnet, del libro Ghetto Italia—un’inchiesta sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri e sul sistema di sfruttamento del quale sono vittime.
VICE: Volevo partire dal ragazzo ucciso a Rosarno per capirne di più su questa vicenda: chi era Sekina Triore, e perché si trovava lì?
Leonardo Palmisano: Prima di tutto ci tengo a chiarire che il ragazzo ucciso nella tendopoli di San Ferdinando viveva in una condizione abitativa terribile ma migliore rispetto a quella di chi alloggia in campagna. Detto ciò, i braccianti che lavorano a Rosarno sono i più sfruttati d’Italia, per la paga che ricevono e le condizioni in cui vivono.
La vittima era uno delle migliaia di braccianti che accettano di vivere in quelle condizioni non soltanto perché non hanno i soldi per potersi permettere una casa, ma soprattutto perché i caporali sono gli unici che riescono a garantire loro un lavoro certo, e sono quindi del tutto abbandonati dal sistema di collocamento. I caporali assicurano loro un’occupazione, e al contempo li vogliono in quelle condizioni: devono essere pronti per una raccolta molto veloce. Il caporale funziona come agenzia di collocamento.
Lei ha definito la zona di Rosarno una “no man’s Land, una zona franca,” mi spiega cosa intende?
In realtà il discorso si potrebbe estendere a tutta la Calabria. Non c’è alcun tipo di controllo: lo stato e le istituzioni sono totalmente assenti. Lo stato non è un ente unico, è suddiviso in molti pezzetti: quando non comunicano, quel vuoto tra un segmento e l’altro viene colmato dalla criminalità.
Le forze dell’ordine dovrebbero vigilare, occuparsi dell’ordine pubblico. Ma per sgominare il sistema del caporalato è necessaria la procura, con un’indagine sulla base delle denunce. Le denunce sono pochissime in Italia, perché non esiste un testo unico di legge che stabilisca una controparte. C’è poi il welfare, che dovrebbero essere assicurato dalle regioni, che invece non se ne occupano. Ancora, c’è la responsabilità del comune: in alcuni di questi ghetti ci sono minori— in provincia di Foggia ci sono tre ghetti rumeni con diversi minori, per esempio. Lì manca il comune. Poi manca il trasporto, quindi le province. E infine, come accennavo, il collocamento pubblico. È tutto collegato.
Mi spiega come funziona la filiera criminale e quali sono le sue parti?
Tutti sappiamo che il caporalato, così come la raccolta e addirittura la trasformazione e la vendita del prodotto, vede il controllo da parte della ‘ndrangheta—in questo momento la più potente ed efficace delle mafie italiane. Tutto ciò che si muove nella pianta dalla raccolta fino al porto e trasporto dei caporali è controllo diretto o indiretto della ‘ndrangheta, che prende un pizzo su tutta la raccolta.
Per la raccolta degli agrumi la domanda è enorme, ed è aumentata da parte della Coca Cola, che compra la spremuta che parte dal porto di Gioia Tauro. Questo definisce il prezzo, molto molto basso per la qualità del prodotto, che viene stabilito essenzialmente dalle multinazionali della trasformazione e da un pezzo della grande distribuzione. Determinato il prezzo, questo si trasferisce su tutto il resto della filiera, molto lunga, che vede da una parte i produttori, tanti, e dall’altra i braccianti, migliaia.
In questo sistema è importante sottolineare quello che sta facendo Coop, che sta cercando di combatterlo e che proprio sulle clementine di Rosarno porta avanti una campagna contro lo sfruttamento.
Guarda Fortress Italia, il documentario di VICE News con un capitolo dedicato al tema.
E i braccianti come arrivano a lavorare nei campi?
Si dividono principalmente in tre categorie. Ci sono quelli che sbarcano e vengono reclutati all’interno dei centri di accoglienza, come il Cara di Mineo. Questi vengono introdotti nel sistema dello sfruttamento e condotti di volta in volta nei diversi sistemi agricoli italiani—in Calabria, in Puglia, in Sicilia, in Lazio, in Piemonte a seconda dei periodi dell’anno e alle rispettive raccolte.
Ci sono quelli che arrivano, poi quelli che vivono in Italia da tempo, che lavoravano in altri sistemi produttivi quali le fabbriche del Nord-Est, e che, quando con la crisi queste hanno chiuso, pur di mantenere il permesso di soggiorno—per il quale è necessario lavorare—si sono spostati nel sistema agricolo.
Infine c’è la parte di coloro che non escono mai dal sistema dell’agricoltura: ci sono entrati fin dall’inizio e lì restano. Non parliamo solo di extracomunitari, ma il grosso della manodopera che lavora nell’agricoltura è neo-comunitario, soprattutto rumeni e bulgari. Questi non vivono in situazioni di ghetto, ma le condizioni di lavoro effettive sul campo sono le stesse.
Quali sono invece le condizioni nelle tendopoli?
Oltre ai problemi di sovraffollamento e precarietà, mi soffermerei sulle condizioni igieniche, che si riducono, per esempio, all’impossibilità di farsi una doccia calda. Il lavoro in campagna è duro non soltanto a livello di sforzo fisico, ma perché sei sempre più esposto ad agenti come gli antiparassitari—strettamente legati allo sfruttamento intensivo della terra.
Io ho incontrato nella zona di Ragusa giovani braccianti maghrebini con principi di micosi, dovuta all’abbattimento delle difese immunitarie. Poi c’è l’insorgere di patologie fuori controllo, come la scabbia. Chi raccoglie d’inverno vive in condizioni peggiori rispetto all’estate. D’inverno puoi essere oggetto di aggressioni di animali come roditori: ho conosciuto braccianti con i lobi rosicchiati dai topi. L’assenza di igiene ha una serie di effetti incredibili dovute all’abbassamento delle difese immunitarie, e lì la sanità pubblica non arriva.
Come si sono andate a costituire le tendopoli, e come è stato possibile arrivare a questo punto senza che si intervenisse prima?
È come se tu mi chiedessi: come è possibile che siamo arrivati alla convivenza tra mafia e politica senza che si intervenisse prima? È perché qualcuno ha deciso complessivamente e culturalmente di rispondere alla crisi nel peggiore dei modi.
Il dibattito sul caporalato sembra essere un dibattito sui caporali quando in realtà dovrebbe essere un dibattito sul sistema d’impresa, sul sistema culturale e morale che sta alla base dell’impresa. Questo non accade, al contrario di ciò che è avvenuto in altri paesi come in Spagna. In Italia le associazioni per i consumatori sono chiamate a stabilire i parametri per il biologico, non invece per la certificazione della qualità del lavoro. Questo spiega tante cose.
C’è una sorta di legalizzazione del crimine, in Italia: se tu assumi un numero importante di braccianti, parliamo di migliaia, hai necessariamente un rapporto con le istituzioni e con la politica. Inoltre la classe politica nazionale non conosce il fenomeno e non lo vuole conoscere, e poi piange quando c’è il morto.
Eppure sul caporalato è stato scritto di tutto. Tutte le informazioni, volendo, sono lì. Come si spiega questo fatto?
Il caporale è un grande elettore. Ci sono comuni della Lombardia nella territorio della Francia Corta, dove le imprese agricole danno lavoro a tutto il comune. Là dove c’è una predominanza economica di questo tipo è la politica che dipende dall’economia, non è più il contrario. La politica non risolve più niente. Non può portare avanti battaglie contro le mafie. Chi può farlo? I consumatori da una parte e i produttori dall’altra.
Cosa è cambiato rispetto alla rivolta di sei anni fa?
È cambiato tutto in peggio. Il sistema dello sfruttamento si è modificato. Sul piano normativo le cose sono moderatamente migliorate, il reato di caporalato oggi è considerato un reato di mafia. Diciamo che il sistema si è evoluto, e sono peggiorate le condizioni dei braccianti.
Il sistema, sempre di più, riguarda anche le donne italiane, anche se il collegamento non viene proprio naturale.
È un sistema che riguarda tutti i soggetti socialmente fragili. Sappiamo che le donne studiano di più e meglio ma, soprattutto al Sud, lavorano meno, e questo le rende socialmente fragili. Lo stesso vale con le braccianti straniere: hanno titoli più alti delle loro omologhe italiane. Si innesca un meccanismo di guerra tra poveri, dimenticandocisi troppo spesso chi sono i veri responsabili.
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