Con la cronaca nera ho un rapporto molto conflittuale. Se da un lato ne subisco la fascinazione, dall’altro ho una feroce repulsione per il modo in cui in Italia, salvo rare eccezioni, viene trattata.
In particolare, nell’ultimo decennio è davvero impressionante constatare il livello di ossessione per le storie di nera raggiunto dai media italiani, specialmente quelli televisivi. Basta dare un’occhiata agli ultimi dati disponibili sul tema: in soli cinque anni c’è stato un aumento di oltre dieci punti nella percentuale delle notizie di nera date dai telegiornali, passate dal 10,4 percento del 2003 al 21,4 del 2008.
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Anche volendo evitare certe storie, dunque, è praticamente automatico finirci risucchiati dentro. E volenti o nolenti, questa ipertrofia ci ha reso tutti quanti dei consumatori compulsivi. Il vero problema, però, è rappresentato dall’aspetto qualitativo.
Perché generalmente, spiega Giovambattista Fatelli in Necrologie. La comunicazione in abito nero, nella nera all’italiana emerge un atteggiamento deleterio: quello di rovistare nel “repertorio emotivo più elementare” e di virare il fatto su un “registro enfatico in cui luoghi, cose, eventi e persone reali vengono evocati e disposti in base alla suggestione e in barba alla misura, al pudore, alla logica e alla chiarezza.”
Da circa due settimane, è esattamente questo il meccanismo che stiamo vedendo all’opera in relazione all’omicidio del 23enne Luca Varani a Roma. Non mi interessa riportare i verbali d’interrogatorio o gli atroci dettagli della vicenda—per quello basta accendere la televisione o aprire qualsiasi sito—quanto piuttosto focalizzarmi su come questo delitto sia stato il pretesto per pontificare su argomenti che, per un verso o per l’altro, sono già affrontati in maniera disastrosa in condizioni normali.
Come ha scritto la sociologa Valeria Lai in Black News, “alcuni delitti sono narrati come delle ‘telenovela’, cercando e mettendo a fuoco tutto ciò che non è notizia, mentre la cronaca è notizia per eccellenza. Pertanto, è allargando e trasformando queste storie in serial che ci si sposta da ciò che è cronaca.”
Sin da subito, nella “storia dell’orrore alla Quentin Tarantino” (cito da Repubblica) si è fatta strada la convizione che “l’elemento gay”—fondamentalmente il fatto che Marco Prato sia omosessuale e fosse noto nella comunità in quanto organizzatore di eventi—non avesse avuto la dovuta attenzione.
Il primo a denunciarlo è stato Mario Adinolfi (“La lobby Lgbt nella comunicazione è molto forte, riesce a occultare i particolari per sé fastidiosi”) , seguito da Carlo Giovanardi e Renato Farina. Quest’ultimo, in un articolo sul Giornale intitolato Chi ha cancellato la parola “gay” dall’omicidio di Luca, arriva a dire che la comunità gay non solo ha goduto di un “privilegio raro,” ma è addirittura stata zitta visto che non poteva “denunciare alcun delitto omofobico.”
Naturalmente, si tratta di una montagna di idiozie. Anzitutto, la comunità ha dibattuto intensamente sull’omicidio; per alcuni addirittura con toni da “omofobia interiorizzata.” In secondo luogo, l’attenzione più morbosa è stata dedicata proprio all’orientamento sessuale e allo stile di vita degli assassini.
È da qui, infatti, che si è dipanato l’ulteriore filone narrativo della Roma “frociona e godona,” descritta variamente come un enorme purgatorio delle “apericene,” il punto di incontro tra Carlo Emilio Gadda e Bret Easton Ellis, oppure i “festini della morte” che si tengono in mezza Capitale.
E non solo: visto che—a quanto dicono i protagonisti—nell’appartamento del Collatino sarebbe stata usata parecchia droga (cocaina e GHB), i media hanno evocato l’immaginario cupo e perverso dei “festini gay,” arricchendolo di una nuova parola ripetuta fino allo sfinimento: chemsex.
Le feste a base a base di sesso e droga esistono, è inutile negarlo e VICE UK ne ha parlato attraverso un apposito speciale. Stabilire l’effettiva estensione del fenomeno, però, è semplicemente impossibile. E il rischio, come puntualizzato in questo articolo, è che il panico morale scatenatosi intorno a questa pratica si traduca in un’automatica demonizzazione dell’intera comunità.
Il che, ancora una volta, si applica alla copertura dell’omicidio di Luca Varani. Avendo scoperto l’esistenza di questa nuova frontiera del sesso depravato, i giornalisti italiani si sono affrettati a intervistare i “frequentatori dei chemsex party,” che a Roma sarebbero addirittura “un 40 percento degli omosessuali che hanno l’abitudine di bere e utilizzare sostanze.” Tuttavia, come giustamente fa notare il blogger Federico Boni in questa intervista su Gay.it, “se l’assioma droghe-omicidio fosse credibile assisteremo a decine di casi simili ogni settimana. Ma così non è.”
Oltre ai chemsex e agli apericena, l’indagine mediatico-psichiatrica che si muove in parallello a quella ufficiale—che, lo ricordo, non ha ancora ricostruito del tutto il delitto—ha rispolverato a uno uno i grandi classici da salotto del dolore, nella spasmodica e affannosa ricerca di un movente.
In primis c’è il ruolo del Padre, enfatizzato fino allo sfinimento anche per la decisione di Valter Foffo di andare a Porta a Porta subito dopo l’arresto del figlio Manuel. Più che inscriverlo nella normale modalità con cui si fa cronaca nera in Italia—dove i familiari e gli autori stessi dei reati costruiscono autonomamente una propria immagine mediatica—sì è preferito fare sociologia spiccola sui cattivi modelli eduticativi e il narcisismo della figura paterna.
Tornando alla dinamica generale dell’evento, sul Fatto Quotidiano uno psicanalista ha scritto che questa si inserisce senza alcun dubbio nella cosiddetta “cultura dello sballo,” ossia questa “ricerca di sempre nuove emozioni e la volontà di esplorare i limiti del lecito.” Il tutto, poi, si inerisce nei confini di “quella sorta di adolescenza prolungata che caratterizza tanti gruppi giovanili.”
Un altro, citato dall’Adnkronos, ha stabilito che “una sessualità confusa, disturbata e vissuta in maniera problematica” può portare a “frustrazione e insoddisfazione, aumentando il carico di aggressività che può essere scaricato su altri soggetti anche con violenza improvvisa.” Il responso clinico, insomma, è chiarissimo: “In questi casi ci troviamo di fronte ad un disturbo grave dell’identità di genere unito a una omosessualità egodistonica, elementi che incidono sull’equilibrio psicopatologico e possono portare l’individuo a un tentativo di ‘automedicazione’ con sostanze psicoattive come la cocaina.”
Non poteva mancare, naturalmente, la spiegazione più a buon mercato: il Male assoluto. Su Repubblica, infatti, Massimo Recalcati ha scritto che “nessuna Causa sostiene il passaggio all’atto criminale: il loro obiettivo è quello dell’esercizio del Male.” In più, continua sempre lo psicanalista, “non c’è, per un perverso, nessuna ragione del godimento che non sia il godimento stesso.”
L’apparente insensatezza del crimine del Collatino ha inoltre comportato ogni genere di accostamento e paragone storico. Il più gettonato è stato indubbiamente quello con il massacro del Circeo. Per il direttore di Vanity Fair, ad esempio, saremmo di fronte a un delitto “figlio di un modello fin troppo vecchio che si chiama disprezzo fascistoide per la vita altrui, e uso fascistoide senza alcuna connotazione politica. Lo stesso modello che ha generato, 40 anni fa, il massacro del Circeo, per dire.”
Qualcuno—ripescando la “banalità del male”—è riuscito a descrivere i due ragazzi romani come dei novelli Eichmann al processo di Gerusalemme, intenti a deflettere ogni responsabilità per l’uso della cocaina esattamente come il gerarca nazista diceva di eseguire solo gli ordini. Altri, invece, hanno letto l’omicidio di Luca Varani alla luce di Salò o le 120 giornate di Sodoma , sostenendo che il film di Pier Paolo Pasolini “aggiunge inquietanti spunti di riflessione alle già molte domande che l’assassinio […] sta suscitando e, precisamente, riflessioni sulla direzione che ha preso la troppo acriticamente decantata ‘liberazione sessuale’.”
Il culmine della tendenza a tracciare collegamenti inesistenti è stato però raggiunto da un articolo di Lia Celi pubblicato su Lettera43. In esso si frullano quasi tutti gli elementi citati qui sopra e si arriva ad avvicinare l’omicidio di Luca Varani a quello di Giulio Regeni. Per quale motivo? Semplice: entrambi sono stati torturati.
Ovviamente, è irrilevante constatare che il contesto in cui si sono verificati i due casi è completamente diverso. Dopotutto, spiega Celi, “non c’è molta molta differenza fra un appartamento del Collatino e uno del Cairo, fra una cella del carcere nazista di Via Tasso e una di Abu Ghraib, fra una villa del Circeo e un’aula della scuola Diaz” se il rituale “che vi si compie è lo stesso”: quello di “esercitare il potere assoluto su un essere umano,” proprio come—indovinate un po’—ha raccontato Pasolini in Salò.
Potrei andare avanti con gli esempi, ma arrivato fin qui penso che il punto sia sufficientemente chiaro. Nelle circostanze più virtuose la narrazione che si fa intorno a certi delitti può diventare un’ occasione di confronto su questioni sociali o, più in generale, sul funzionamento della giustizia—basti pensare a recenti serie come Making a Murderer, Serial o The Jinx.
In Italia invece, come scrive ancora Valeria Lai in Black News, la cronaca nera è costantemente annegata in una “pseudo-sceneggiatura dei fatti,” in cui “l’intreccio dell’informazione con l’intrattenimento” produce “un clima generale di autocompiacimento che lascia spazio alla divaricazione di vedute e a momenti di finzione narrativa.”
Il risultato è che non si ha mai una vera catarsi in queste storie, ma solo sovreccitazione e morbosità spalmate su tutti i palinsesti; e ancor peggio—data la preminenza che questo genere ha ormai assunto nel panorama informativo italiano—c’è che la dimensione della cronaca nera si trasformi nell’unica attraverso cui si interpreta ogni evento sociale.
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