Il putsch dei capannoni


Dalla manifestazione post-referendum indipendentista di Treviso. Foto di Alessandro Rampazzo.

A 17 anni di distanza dall’assalto dei Serenissimi al campanile di San Marco, l’Italia è nuovamente costretta a confrontarsi con il volto “eversivo” dell’indipendentismo veneto. All’alba del 2 marzo 2014 i carabinieri del Ros hanno smantellato un gruppo separatista (chiamato “l’Alleanza”) accusato di aver messo in atto iniziative “anche violente” per ottenere l’indipendenza del Veneto e della Lombardia orientale.

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L’accusa della procura di Brescia, che ha coordinato le indagini, è pesantissima: “Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico” (art. 270-bis del Codice Penale). Gli indagati sono in tutto 51 persone; tra queste, 22 sono finite in carcere. Le pene previste dal reato sono parecchio alte: dai 7 ai 15 anni di reclusione. I leader del gruppo si sono subito dichiarati “prigionieri politici” e hanno annunciato la volontà di iniziare lo sciopero della fame.

La notizia arriva in un periodo piuttosto convulso per il Veneto. Il 21 marzo c’è stato il successo (principalmente mediatico) dell’iniziativa referendaria promossa da Plebiscito.eu. Il 1 aprile, invece, la commissione Affari istituzionali del Consiglio Regionale del Veneto ha approvato due progetti di legge istitutivi di un “vero” referendum consultivo sull’indipendenza.

Questa circostanza temporale non è sfuggita in certi ambienti. Matteo Salvini ha mostrato subito la sua solidarietà agli arrestati, definendo una “follia” l’indagine della Procura di Brescia. Luca Zaia ha parlato di un’“inchiesta a orologeria” fatta “in un momento in cui c’è questa istanza del Veneto sull’indipendentismo e sull’autonomia.” Gianluca Busato di Plebiscito.eu ha bollato gli arresti come “gli ultimi spasmi che emette la bestia morente dello Stato.” In tutto ciò, l’indipendentismo veneto si è stretto intorno ai “patrioti”, elevandoli subito a martiri della Causa.


Nella provincia veneta, i gruppi indipendentisti con intenti eversivi non sono una novità. Stando alla stampa, però, questa volta sembra esserci qualcosa di diverso—qualcosa di veramente grosso. Le immagini evocate in questi giorni vanno tutte nella direzione di un attentato al cuore dell’Italia sventato per un soffio: ci sono i riferimenti a esplosivi, armi leggere, finanziatori occulti, divise, piani operativi per provocare una rivolta armata in Veneto, carri armati capaci di sventrare edifici. E poi, ovviamente, c’è la temibile compagine dei cospiratori.

Tra gli arrestati, infatti, ci sono diversi nomi già noti: anzitutto ci sono due campioni dell’indipendentismo veneto come Flavio Contin e Luigi Faccia, che nel 1997 erano nel commando originario dei Serenissimi. Secondo gli inquirenti, sono loro i capi indiscussi dell’Alleanza.

Poi c’è una figura di peso come Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta ed ex sottosegretario agli Esteri nei primi anni Novanta considerato “l’ideologo” del gruppo secessionista. Recentemente lo abbiamo incontrato in piazza a Treviso, intento a celebrare gli esiti del “referendum” e a inveire contro lo stato italiano, “da sempre menzognero, stupratore e fallimentare.”


Rocchetta in piazza a Treviso. 

La storia politica di Rocchetta è piuttosto contorta: prima di consacrare la sua vita all’indipendentismo veneto, il “patriota letterato”—questo il nomignolo affibbiatogli dai membri dell’Alleanza—ha attraversato tutto l’arco parlamentare ed extraparlamentare. Nel 1968 è in Grecia con i neofascisti italiani in visita al regime dei colonnelli (Rocchetta ha sempre negato di aver militato in organizzazioni di estrema destra). Poi milita nel PRI veneto, transita nel PCI (per il quale, ricorda, “ho stilato a mano dazebao lunghissimi in veneto e in altre lingue”) e per un periodo aderisce addirittura a Lotta Continua.

Un altro nome di spicco è quello di Lucio Chiavegato, presidente del movimento indipendentista LIFE e animatore della protesta dei “Forconi” dello scorso 9 dicembre. Il 21 marzo 2014, subito dopo i risultati del “referendum” (a cui aveva dato la sua adesione), Chiavegato aveva pubblicato questo status sul suo profilo Facebook: “[Il Veneto] è una polveriera pronta a scoppiare presto… Io plaudo a tutti coloro che stanno lottando per la causa Veneta e già vedo il giorno che ‘accompagneremo’ ai confini gli occupanti. Sogno? Non credo, presto ne vedremo delle belle.”

Gli indipendentisti veneti potevano contare anche su diversi “patrioti” di altre regioni. Secondo gli inquirenti, l’Alleanza puntava a realizzare “la saldatura di più movimenti separatisti che con iniziative coordinate dovrebbero collaborare nell’attacco all’unità dello Stato.” Tra questi figurano “Brescia Patria” (ritenuta la facciata “legale” del gruppo separatista) e il sardo “Disubbientzia”.

L’“attacco all’unità dello Stato” sarebbe dovuto culminare con “l’occupazione militare” di piazza San Marco, da portare a termine grazie al Tanko 2.0 (“il simbolo dell’indipendenza veneta moderna”, come lo definisce un indagato). Dopo la presa di Venezia era prevista “l’instaurazione provvisoria di un regime autoritario-militare di transizione (‘interregno’) sui territori ‘liberati’.” Oltre all’odio per il tricolore, le molle propulsive che accomunavano i vari cospiratori erano le “pulsioni xenofobe e antimeridionali” e “la rancorosa rabbia per l’imposizione fiscale o per le difficoltà economiche, imputate alla classe politica ‘marcia’.”

La genesi, i piani e le avventure di questa Alleanza sono ricostruite minuziosamente nell’ordinanza del Gip di Brescia che ha disposto le misure cautelari. Si tratta di un documento davvero fenomenale, poiché offre uno sguardo impagabile e a tratti esilarante sul progetto di questi moderni “patrioti”. Più che un tentativo di eversione preparato fino ai minimi dettagli, infatti, dalle numerosissime intercettazioni emerge una via di mezzo tra un remake in salsa veneta di Vogliamo i Colonnelli e uno sgangherato putsch da osteria di provincia.  

Il patto di sangue tra i cospiratori viene siglato la sera del 26 maggio del 2012 in un ristorante in provincia di Brescia. All’incontro partecipano il 74enne Giancarlo Orini, presidente di “Brescia Patria”, e alcuni “patrioti” bresciani; Lucio Chiavegato insieme ad altri due indipendentisti veneti; i sardi Salvatore Meloni e Felice Pani; e i serenissimi Luigi Faccia e Flavio Contin.

La micidiale associazione eversiva deve subito affrontare un primo inconveniente. La mattina del 26 maggio Faccia chiama Orini e gli riferisce di un “piccolo problema da risolvere adesso.” La polizia li sta pedinando? I carabinieri hanno beccato qualcuno? Per nulla: i due sardi sono bloccati a Linate perché uno ha la patente scaduta e l’altro si è “dimenticato la patente a casa,” L’emergenza viene risolta da Orini mandando un suo amico a recuperare i cospiratori isolani.

Nei mesi successivi i patrioti dell’Alleanza, dimostrando una notevole sagacia tattica, telefonano a destra e manca per avvertire amici e reclutare altri adepti alla Causa. Uno dei più attivi è proprio Giancarlo Orini. In una conversazione con un certo Mario, il presidente di “Brescia Patria” dice che “è arrivato il momento di combattere… a breve salta tutto.” Mario non sembra particolarmente convinto, e confida anche di attraversare una fase di “scoglionamento”. “Male che vada,” dice sconsolato l’interlocutore, “ci troviamo a casa mia a tagliare su un salame…” La risposta di Orini è fulminante: “No, più che tagliare il salame noi abbiamo bisogno di caricare i candelotti di dinamite.” Il riferimento alla “dinamite” è quello su cui la stampa si è soffermata maggiormente; tuttavia, se inserita all’interno del contesto della telefonata, è difficile non considerarla una sparata da bar.

Le operazioni per il “golpe” sul Veneto proseguono frenetiche, sempre attraverso una fittissima serie di telefonate—notoriamente il mezzo ideale nel Ventunesimo secolo per nascondere un progetto eversivo. La posta in gioco è altissima: Flavio Contin, parlando con un amico, dice che “bisogna essere realisti ma in maniera fanatica perché se no guarda non ce la facciamo… perché passa tempo… ed abbiamo due nemici: lo Stato italiano ed il tempo che abbiamo a disposizione.” Il fallimento non è contemplato, anche perché il risultato sarebbe intollerabile: “o ci svegliamo fuori o molliamo tutto e ci rassegniamo a diventare italiani… come gli altri.”

Organizzare un’insurrezione armata, però, non è esattamente una passeggiata. Le “beghette”, ovvero le armi leggere, non si trovano così facilmente; i finanziamenti sono scarsi; e la costruzione dei Tanki (che nel progetto originario dovevano essere ben sei) procede quasi esclusivamente nelle fantasie dei separatisti. In una conversazione tra Lanza e Faccia, quest’ultimo dice di voler montare sul “carro armato” una mitragliatrice pesante calibro 50. Lanza si esalta: “Ah, sarebbe una bella bestia! Magari vacca puttana!” Faccia si esalta ancora di più: “Allora, montando le 0,50 là, sono cazzi da cagare, ma grossi, grossi!” Purtroppo per loro, recuperare un’arma del genere è impossibile. Faccia decide dunque di ripiegare su un cannoncino artigianale (ribattezzato “bega”) che dovrebbe servire ad abbattere la statua di quella “merda di Garibaldi” a Venezia.

La “cerimonia d’inaugurazione” del primo Tanko si tiene il 7 ottobre 2012 all’interno del temibile “Arsenale”, un capannone semi-abbandonato nella zona industriale di Casale di Scodosia (Padova) che funge da quartier generale dell’Insurrezione. Ci sono tutti i pezzi grossi dell’Alleanza, compreso Franco Rocchetta. L’assemblea si apre con le parole solenni di Orini: “Sono onorato e molto orgoglioso di essere in questo momento storico […] per ricevere in consegna questo primo potente poderoso mezzo destinato ad attaccare con grande efficacia il regime che da troppo tempo ci affligge ed umilia.”

Giusto per la cronaca, il mezzo che avrebbe dovuto rendere “veramente credibili” i separatisti—per citare Faccia—è questo:

Terminata la riunione, arrivano i primi dubbi. In una telefonata, due indipendentisti (dopo aver fatto una ricerca su Internet) dicono che fare una cosa del genere “non è una cazzata” e che “le conseguenze sono decisamente pesantine per tutti.” Luigi Faccia decide di far firmare ai sodali un “documento di impegno,” che non riesce però a placare i dissidi interni.

Nel corso del 2013 Lucio Chiavegato, che aveva rifiutato il prestigioso incarico di “Comandante della piazza militare di Venezia,” si allontana “formalmente” dall’Alleanza. Nel marzo dello stesso anno Faccia dice che Chiavegato, dopo aver suggerito di fare attentati a tralicci ed Equitalia (suggerimento non raccolto dagli altri separatisti), “ha cominciato a virare sempre di più e sbandarsi sempre di più.”

Nello stesso mese, marzo del 2013, viene “ufficializzata” la formazione del governo clandestino. È a quel punto che si comincia a farneticare di contatti diplomatici con la Serbia, considerata (non si sa per quale motivo) un paese amico. Il 9 giugno 2013 avviene il “giuramento” all’interno dell’Arsenale. L’avanzamento del progetto eversivo convince i suoi membri a cercare di reclutare più patrioti possibili. Tra questi ci sarebbe anche un poliziotto, descritto da Lanza come un tipo “entusiasta” per la Causa e contemporaneamente “demoralizzato” per aver giurato sulla bandiera italiana, che “me la mette nel culo ed io non voglio più restarle fedele.”

L’ossessione separatista arriva alle stelle e assume toni sempre più grotteschi e violenti. Il “Presidente” Luigi Faccia, ad esempio, afferma: “dobbiamo bandire il termine… che noialtri agiamo in maniera pacifica… non esiste… non siamo pacifici noialtri… agiamo in maniera pesante.” 

Nel corso di una lunga conversazione “l’ambasciatore” Tiziano Lanza espone il suo sogno, ovvero quello di pronunciare di fronte ai nemici del popolo veneto (gli italiani) questo discorso: “andatevene dall’Italia e chiedete perdono per 147 anni di crimini contro la nostra popolazione e di ruberie… andatevene e vivrete… rimanete e morirete… perché poi instaureremo veramente il clima di terrore… sai come ci divertiremo… finalmente la mafia anche qua.”

La possibilità di finire in carcere è sempre ben presente nei discorsi, tanto che lo stesso Lanza esprime più volte il timore che “ci arrestano tutti” e che “verranno a prenderci le teste di cuoio come è accaduto nel 1997.” Una profezia auto avverante. A differenza del 1997, però, c’è da dire che non è stata compiuta alcuna azione “bellica” o semplicemente dimostrativa.


E qui entriamo nel terreno più scivoloso dell’intera faccenda: l’azione repressiva dello stato è proporzionata alla minaccia?

Considerati il tono delle conversazioni, i piani eversivi spiattellati ai quattro venti, la totale incapacità organizzativa e l’esiguità numerica dei cospiratori, è difficile parlare di un gruppo realmente pericoloso per l’assetto unitario dell’Italia. Ma del resto, anche nel 1997 gli inquirenti avevano avuto enormi problemi a catalogare “l’assalto” al Campanile di San Marco, proprio per il fatto di essersi trovati di fronte a un clamoroso divario tra la forza del messaggio e la pochezza dei mezzi usati.

Per cercare di capire un evento del genere bisogna dunque partire dal paese in cui si è sognata l’indipendenza. Casale di Scodosia è una placida cittadina che negli ultimi anni ha subito una forte depressione economica. Lì, nel silenzio più assoluto, sono saltate centinaia di aziende del distretto del mobile. Di fronte a una situazione del genere, l’ex sindaco Renato Modenese ha detto che “è comprensibile che possano accadere cose di questo tipo. Quando c’è malumore e malcontento può succedere di tutto.” Il nucleo duro dell’Alleanza, cioè i Serenissimi, cresce e prospera in quella terra di nessuno tra l’Adige e il Brenta che negli ultimi trent’anni ha subito almeno due violente trasformazioni: quella euforica del boom economico degli anni Novanta; e quella devastante della crisi del 2008.

È un mondo che nell’arco di qualche anno si è ritrovato doppiamente spaesato. Dalla povertà si è passati alla ricchezza, e da un benessere dato ormai per scontato ci si è ritrovati strozzati dai debiti. Dietro al Tanko e alle riunioni nei ristoranti di provincia c’è qualcosa di più di un semplice vaneggiamento secessionista: c’è il disperato tentativo di creare artificialmente una nuova identità in cui la “nazione” (l’heimat Veneta) viene sottratta al tempo reale e diventa un simbolo immateriale per cui è doveroso “combattere”, “ribellarsi” o “immolarsi”.

Se da un lato non c’è alcun rischio che il Veneto si trasformi in una specie di Ucraina o in covo di eversori, dall’altro continuare a ignorare la seduzione che esercita questo simbolo, come puntualmente avviene a ogni clamore indipendentista, equivale a garantirgli una lunghissima sopravvivenza.


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