Come si è comportata la polizia al corteo No Expo

Foto di Stefano Santangelo dal corteo No Expo del 1 maggio 2015.

Nella mole di materiale prodotto al corteo No Expo del primo maggio, c’è un video che—pur non avendo avuto lo stesso eco dell’intervista a Tia Sangermano—a mio avviso è altrettanto significativo.

Siamo in uno dei momenti più caldi del corteo, le prime macchine sono state incendiate dagli incapucciati e una barricata brucia davanti alle forze dell’ordine. A un certo punto, un’anziana signora si affaccia dalla finestra del suo appartamento e comincia a gridare: “Sparategli in fronte!” Successivamente, la signora si dirà dispiaciuta di aver detto quelle parole: “A mente fredda anch’io penso che le forze dell’ordine abbiano fatto bene a evitare lo scontro.”

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Considerato il fatto che sin dai primissimi momenti si sono reclamati massacri e nuove Diaz, quanto detto dalla signora non sorprende più di tanto. Anche perché di reazioni simili ce ne sono state altre. Dopo l’invocazione all’impiego di “franchi tiratori,” per esempio, ieri sulla pagina Facebook de Il Giornale si è anche lanciato questo sondaggio.

Per le autorità politiche, molti editorialisti e i vertici di polizia, invece, il primo maggio è stato un successo incredibile. Nel riferire in Parlamento sulla questione, il ministro dell’interno Angelino Alfano ha detto che “il comportamento delle forze di polizia nella manifestazione di venerdì scorso a Milano è da lodare incondizionatamente. È stata una grande prova di civiltà.”

Per il capo della polizia Alessandro Pansa, “l’Expo non si poteva macchiare di sangue, né dei manifestanti, né delle forze dell’ordine,” e quindi “il fatto che le forze dell’ordine abbiano atteso e lasciato che alcune azioni violente venissero compiute è una scelta fatta a monte.” A questo proposito, Roberto Saviano su Repubblica ha parlato di un “cambiamento radicale nella gestione dell’ordine pubblico,” che avrebbe definitivamente allontanato lo spettro del G8 di Genova.

Insomma, come scrive anche il poliziotto Riccardo Gazzaniga—autore del romanzo A viso coperto—a Milano abbiamo visto in opera il “modello di gestione” che “prevale negli ultimi anni in Italia,” ossia un “modello improntanto all’estremo contenimento.”

Di questo “nuovo” approccio se ne parla già da un po’. Dopo i manifestanti scambiati per zaini al corteo del 12 aprile 2014 a Roma e le manganellate gratuite agli operai dell’Ast Terni, la gerarchia delle forze dell’ordine aveva cercato di correre ai ripari varando nuove “regole d’ingaggio” per le manifestazioni, volte soprattutto a evitare ogni tipo di contatto.

Per cercare di andare oltre la cortina di giubilo istituzionale, ho chiesto a Salvatore Palidda—professore di sociologia all’Università di Genova, autore del saggio Polizia postmoderna e studioso di lungo corso delle forze dell’ordine—se effettivamente si possa parlare di una “rivoluzione” della gestione della piazza.

“Non mi pare che ci sia nessuna novità,” mi risponde Palidda. “È come dire che non si sa far altro che quello che si è fatto al G8, oppure di non sapere gestire in maniera intelligente l’ordine pubblico come hanno fatto l’altro ieri a Milano.”

Questo, continua il professore, “vuol dire che dovrebbe esserci abbastanza personale in borghese che cammina in mezzo alla manifestazioni, che sa benissimo isolare e che già prima dovrebbe avere certe informazioni sui soggetti sospettati di estremismo o, come dicono loro, ‘antagonismo insurrezionalista’.”

Allargando un attimo lo sguardo, l’impressione è che le forze dell’ordine italiane non siano particolarmente attrezzate a padroneggiare questo tipo di protesta. Lo scrive lo stesso Gazzaniga nella sua analisi, quando dice che i reparti mobili italiani sono “strutturati come forza statica e potente, in grado di reggere l’urto di un assalto, ma piuttosto lenta nei movimenti. Questo implica la difficoltà a raggiungere fisicamente l’eventuale obiettivo da fermare.” Lo si è visto platealmente nel caso di Milano, dove gli incapucciati si sono mossi molto velocemente e gli agenti, a parte sparare una quantità impressionante di lacrimogeni, non hanno fatto altro.

In parallelo agli elogi dall’alto, dal basso—cioè dai reparti mobili—si sono registrate delusione e un forte senso d’impotenza. In un’intervista, un poliziotto si è lamentato del fatto che “la gente che ti chiede perché non li hai fermati. Veniamo addestrati per fare queste cose, ma se poi non le dobbiamo fare perché ci addestriamo? Ci si poteva organizzare meglio e ne avremmo fermati molti di più. Forse ci volevano più agenti, meno prudenza.”

Questa reazione della “base” non stupisce minimamente Palidda. “Negli ultimi vent’anni, in particolare, nei reparti mobili si sono fatte confluire le persone che hanno un certo animo predisposto alla reazione violenta. In più, in Italia il reclutamento è ormai riservato a quelli che hanno fatto la ferma volontaria per tre anni nei teatri di missione all’estero, cioè di guerra. Queste persone hanno dunque ricevuto una formazione militare, quindi possiamosolo immaginare che spirito abbiano.”

Si può dunque parlare di una sorta di incomprensione, o resistenza, alla tattica impiegata nel corso del primo maggio. Tornando su questo punto, il professore ritiene che “ci sia stata da parte del potere politico un’indicazione precisa di non fare un altro G8.” I motivi sono sostanzialmente due: il primo è che “la sentenza della Corte europea sulle torture alla Diaz è molto recente”; il secondo, ancora più diretto, è che “l’immagine dell’Expo non poteva essere rovinata, dato che sarebbe stata dura per l’Italia reggere un’altra onta del genere.”

Quello che è successo a Milano, comunque, non rimuove le criticità che rimangono nei corpi della polizia italiane. Anzitutto, dice sempre Palidda, c’è il nodo della formazione professione: “Le forze di polizia hanno delle scuole che, a quanto io sappia, sono di un livello basso. Si insegnano dei fondamenti di ‘giuridichese’ che lasciano il tempo che trovano, perché alla fine quello che si è impara è nella pratica.”

I problemi sono sostanzialmente gli stessi anche a livello operativo. “Una delle cose assurde dell’Italia è che ci sono troppi corpi di polizia,” sostiene Palidda, “che quando intervengono hanno bisogno di un coordinamento che non funziona quasi mai. È uno spreco di soldi dovuto a una logica clientelare che si trascina da sempre in Italia, che c’è nelle polizie come in tutti i settori.”

Per quanto riguarda i reali cambiamenti all’interno del corpo, il professore avanza molti dubbi. “Pansa, ad esempio, dovrebbe dirci se ha “bonificato” le unità mobili, inclusa quella componente fascisteggiante all’interno della forza di polizia; se è stata rinnovata la formazione professionale; e se sono state risanare le pratiche correnti, che purtroppo includono casi come quelli di Uva, Aldrovandi e molti altri.”

A un livello eminemente politico, comunque, si può dire che la tattica impiegata nel corso primo maggio milanese abbia sostanzialmente dato i suoi frutti. Da un lato la polizia si è potuta accreditare presso i media come una forza rinnovata, democratica e tollerante (anche troppo, come abbiamo visto all’inizio del pezzo); dall’altro, la politica ha preso la palla al balzo per accelerare un percorso di repressione normativa che va avanti già da un po’.

Alfano, in un’intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa, ha prontamente tirato fuori dal cassetto la proposta di un Daspo di piazza (“divieti preventivi come avviene per le partite di calcio”)—una misura che aleggia nel dibattito da qualche anno, e che oltre a essere impraticabile sarebbe a dir poco incostituzionale.

Al netto della retorica, comunque, la sensazione è che la gestione dell’ordine pubblico a Milano sia stata fondamentalmente dettata dalla pressante contingenza di non fare brutta figura, più che a un cambiamento davvero radicale. Anche perché, appena due giorni dopo il corteo No Expo, si è tornati a parlare delle solite cose—ossia le cariche a Bologna, i feriti e le teste aperte dai manganelli.

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