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Com’è vivere in un paese ‘che non esiste’

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Oggigiorno in Europa ci sono 6,5 milioni di persone residenti in paesi che, almeno secondo gran parte della comunità internazionale, non esistono.

In seguito al collasso dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia sono nati 21 nuovi stati indipendenti. Ma per una serie di gruppi nazionali ed etnici, la rivendicazione di autonomia è caduta nel vuoto.

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Alcuni hanno trovato un modo per vivere in pace entro i nuovi confini dell’Europa dell’Est. Altri hanno combattuto guerre per cacciare gli eserciti “usurpatori” dalle loro terre. Alcuni hanno fatto appello direttamente alla Russia per farsi portare con lei in un fumoso futuro post-sovietico.

Ognuna delle sei regioni contestate dell’Europa dell’Est ha una storia unica, e all’interno di ogni storia ci sono voci diverse, che cercano di vivere vite normali nonostante il caos in cui sono nate.

Nagorno-Karabakh / Artsakh

Un missile inesploso giace incastrato nell'asfalto a Stepanakert, fotografato a ottobre 2020. Foto: Aris Messinis/AFP via Getty Images
Un missile inesploso giace incastrato nell’asfalto a Stepanakert, fotografato a ottobre 2020. Foto: Aris Messinis/AFP via Getty Images

Tra le montagne della catena del Caucaso dove Europa e Asia si incrociano, l’Armenia e l’Azerbaijan sono intrappolate da oltre 30 anni in una guerra che interessa la regione del Nagorno-Karabakh. Nonostante si trovi all’interno dei confini dell’Azerbaijan, Karabakh è popolata e controllata dagli armeni, la nazione cristiana più antica del mondo, la cui storia moderna è segnata da un genocidio perpetrato dal governo turco ottomano durante la Prima Guerra Mondiale.

Dopo un lungo e complesso cessate il fuoco, le ostilità nella regione di Karabakh—nota localmente come Artsakh—sono ricominciate alla fine del 2020. L’esercito dell’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia, è avanzato dentro i territori della Repubblica di Nagorno-Karabakh, riprendendosi alcune zone perse nel 1993. Il costo umanitario di questo intervento è stato devastante.

“La mia famiglia è rifugiata dall’anno scorso, dopo che siamo stati costretti a lasciare le nostre case a Shushi. Abbiamo vissuto condizioni simili in passato, da Baku, con le violenze anti-armeni del 1988,” dice a VICE Saro Saryan, parlando da Yerevan. Saro gestiva un museo geologico a Shushi, prima di essere costretto a scappare. “Psicologicamente, è come essere sottoposti ad una perenne operazione chirurgica: ti abitui al dolore. Non abbiamo più paura. È masochismo.”

“Mio figlio ha perso una gamba negli scontri. È ricoverato in una clinica in Svizzera. Ma siamo stati fortunati. Migliaia di persone non vedranno mai più le loro famiglie.”

“Prima della guerra una spada di Damocle pendeva sulle nostre teste. Ma abbiamo cresciuto i nostri figli senza odio per i nostri vicini dell’Azerbaijan. Abbiamo costruito luoghi che riflettono la cultura armena; musei, chiese, un esercito. Nei nostri cuori, credevamo in un potere superiore. Ora è difficile avere fede.”

“Un riconoscimento internazionale sarebbe una garanzia di sicurezza,” Perché non c’è ancora stato?”

Kosovo

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Nel punto più a sud della ex-Jugoslavia, si trova la Repubblica del Kosovo, che si è separata dalla vicina Serbia nel 1999 dopo una brutale guerra tra la popolazione a maggioranza albanese e le figure di potere serbe. Le Nazioni Unite hanno gestito la regione con un mandato speciale fino al 2008, quando la capitale Pristina ha dichiarato formalmente l’indipendenza del Kosovo.

Da allora, lo stato ha ricevuto riconoscimento da circa metà dei Paesi membri dell’ONU, tra cui Stati Uniti, Regno Unito e Germania, ma una cricca potente si oppone alla rivendicazione di sovranità di Pristina, tra cui Cina e Russia, storica alleata della Serbia. Questo fa sì che il Kosovo sia ancora molto fragile, mentre cerca di ricostruirsi fisicamente e psicologicamente dalla guerra avvenuta 20 anni fa.

“Nel 2008, quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza, ero in una scuola privata internazionale e ho dovuto spiegare ai miei compagni cosa significasse. Ho dovuto spiegare la storia della Yugoslavia e delle repubbliche nate dal suo collasso e tutte le sfumature etniche che esistono,” racconta a VICE World News Valon Xoxa, da Pristina.

“Nessuno sapeva neanche che aspetto avesse la bandiera del Kosovo finché non è stata rivelata nel 2008. È completamente costruita. Quando non avevamo i passaporti, avevamo un documento speciale di viaggio emesso dall’Onu. Causava sempre problemi ai confini internazionali.”

“L’identità del Kosovo è stata in gran parte imposta sulle persone come soluzione neutra ai problemi creati dalla guerra civile. Un sacco di soldi sono stati spesi per creare uno spirito nazionalista del Kosovo nel 2008, ma ora non capita mai di vedere la bandiera agli eventi culturali. Ogni gruppo etnico usa la sua bandiera. Non c’è attaccamento al Kosovo come identità. Io stesso sono albanese e questo sentimento non è separabile dal modo in cui gli albanesi sono stati repressi finché c’è stata la Jugoslavia.”

“Non possiamo ottenere un visto per andare in Spagna con i passaporti kosovari. Lo stesso vale per Cipro, Grecia e Russia; molti paesi non riconoscono i nostri documenti. Hai presente come vi siete sentiti tutti durante la pandemia di COVID-19? Così è come ci sentiamo noi, sempre. Siamo intrappolati nel nostro stesso paese.”

“C’è una fazione qui che dice che cercare di essere uno stato riconosciuto a livello internazionale è troppo costoso e consuma troppo tempo. Non riusciremo mai a convincere un paese come la Spagna a riconoscerci. Magari dovremmo unirci all’Albania o creare una sorta di federazione ibrida tra i due stati. Ma sarebbe troppo problematico per il resto dei Balcani. Dobbiamo trovare una soluzione perché l’indipendenza funzioni, fosse anche una soluzione neutrale.”

Abcasia / Apsny 

Turisti prendono il sole a Gagra, Abcasia, ad agosto 2020, dopo che le restrizioni dovute al COVID19 sono state allentate per i turisti russi. Foto: Dmitry FeoktistovTASS via Getty Images
Turisti prendono il sole a Gagra, Abcasia, ad agosto 2020, dopo che le restrizioni dovute al COVID19 sono state allentate per i turisti russi. Foto: Dmitry Feoktistov\TASS via Getty Images

L’Abcasia è un idilliaco angolo di paradiso dal clima subtropicale posizionato sul Mar Nero, e con una storia tragica. Nota nella lingua locale come Apsny (“la terra dell’anima”), con il collasso dell’Urss nel 1990 è stata inglobata nella Repubblica indipendente della Georgia.

I suoi leader si sono però sentiti minacciati dall’atmosfera nazionalistica del nuovo stato georgiano. La conseguente guerra per l’indipendenza dell’Abcasia, combattuta nel corso di 13 mesi tra il 1992 e il 1993, è stata feroce e crudele. Sono state commesse terribili atrocità sia sugli Abcasi che sui georgiani, e gran parte della capitale Sukhumi è stata fatta a pezzi negli scontri, uno stato in cui versa tutt’ora. L’esercito russo è intervenuto a favore dei ribelli e gli ha permesso di vincere la guerra, e i finanziamenti di Mosca hanno permesso all’Abcasia di sopravvivere fino al 21esimo Secolo.

“La nostra vita qui è imprevedibile e incerta. Per esempio, quando le persone della mia età raggiungeranno il pensionamento, riceveranno solo una pensione locale dell’Abcasia, di circa otto euro al mese. La generazione che sta andando in pensione ora, riceve una pensione russa di circa 120 euro. Non esisterà più quando io andrò in pensione,” racconta Aliona Kuvichko, dalla capitale.

“Il nostro status non riconosciuto implica che è quasi impossibile sviluppare qualsiasi cosa qui. Non possiamo costruire infrastrutture, o un sistema di comunicazione e trasporti nostro. C’è solo un modo legale per entrare e uscire dall’Abcasia, attraverso l’aeroporto di Sochi in Russia. L’aeroporto di Sukhumi e il porto navale sono chiusi. Sono 30 anni che è così.”

“La maggior parte dei giovani se n’è andata. Io non posso perché ho parenti anziani che dipendono da me. Quindi resto, ma non è certo perché la vita qui mi soddisfa.”

“Abbiamo relazioni internazionali solo con la Russia. Ci proteggono. Ma l’Abcasia è stata provocata e spinta a dichiarare indipendenza dalle azioni dell’esercito georgiano. Era una questione di sopravvivenza quando i loro carri armati sono arrivati qui. Prima speravamo di raggiungere una soluzione simile a una federazione con la Georgia, ma i nostri leader non sono riusciti a portarla a termine.”

“Siamo una società molto tradizionale, ma non rigida come la regione nel nord del Caucaso. Non abbiamo discoteche, ma ogni tanto band locali si esibiscono in piccoli concerti. Se sei un uomo, puoi andare a divertirti nel bar di un hotel. Ma non se sei una donna.”

Ossezia del Sud / Stato di Alania

Un cartellone a Tskhinvali celebra il decimo anniversario del riconoscimento da parte della Russia dell'Ossezia del Sud. Foto: Valery Sharifulin/TASS via Getty Images
Un cartellone a Tskhinvali celebra il decimo anniversario del riconoscimento da parte della Russia dell’Ossezia del Sud. Foto: Valery Sharifulin/TASS via Getty Images

Come l’Abcasia, anche la Repubblica dell’Ossezia del Sud, in Georgia, è uno stato “burattino” della Russia, o così dicono in molti. Montagnosa, difficile da raggiungere e povera di risorse naturali, rappresenta una regione significativa solo perché offre una presenza a Mosca nella parte occidentale della Georgia.

Nel 2008, mentre il mondo era concentrato sull’inizio delle Olimpiadi di Pechino, i due paesi hanno combattuto una breve guerra per lo Stato storico dell’Alania, di cui la Russia ha poi riconosciuto formalmente l’indipendenza, insieme a quella dell’Abcasia. Oggi, L’Ossezia del Sud resta un posto simbolico nella guerra per procura tra la Russia e l’Occidente, che stona con le sue minuscole dimensioni.

“Sarebbe molto difficile per una persona che non vive qui immaginare la società in cui sono cresciuto. Sono nato durante il primo conflitto avvenuto negli anni Novanta e cresciuto tra le rovine della guerra. Per un decennio, non c’erano quasi elettricità, gas o acqua calda. Ma la mia infanzia è stata molto felice e interessante, perché era costruita sulle relazioni umane,” racconta Askhar Sanakoyev, dalla capitale Tskhinvali.

“I costumi e la morale a Tskhinvali sono stati, e—penso—ancora sono, parecchio rigidi e conservatori. Ma non è necessariamente un male per me quando ero adolescente, perché c’era una specie di senso comune di cosa è giusto e cosa è sbagliato.”

“Se hai solo la cittadinanza come ossetino, non ottieni granché dal mondo globalizzato. Probabilmente il 90 percento degli ossetini hanno la doppia cittadinanza russa ed è solo per quello che possono viaggiare.”

“Comunque è molto difficile trovare persone nell’Ossezia del Sud contrarie alla separazione dalla Georgia. Personalmente, penso che sia un movimento artificiale, perché serve gli interessi delle politiche russe anziché delle persone dell’Ossezia.”

“Tskhinvali è una città molto calma. Non ci sono grandi infrastrutture o vita culturale. C’è qualche ristorante che serve anche tardi la notte, ma in generale la città va a dormire molto prima di mezzanotte.”

Transnistria / Pridnestrovia

Un cittadino della Transnistria vota alle elezioni presidenziali della Moldavia del 2020. Foto: Pierre Crom/Getty Images
Un cittadino della Transnistria vota alle elezioni presidenziali della Moldavia del 2020. Foto: Pierre Crom/Getty Images

Soprannominata il luogo più fuorilegge d’Europa, la Transnistria è una fetta di terra lungo la frontiera più a est della Moldavia, dove regna il mercato nero. È nata nel 1992 dopo che la sua popolazione a maggioranza russa ha combattuto per evitare di essere risucchiata nella sfera di influenza della Romania. Oggi il tricolore della Russia di Vladimir Putin sventola da ogni palazzo governativo.

Da allora è diventata un paradiso per i contrabbandieri, con miliardi di euro di beni—come armi, sigarette e alcool—passano attraverso i suoi confini porosi e attraversano il vicino Mar Nero, arricchendo ufficiali di dogana, governativi e affaristi locali.

“Poiché non siamo riconosciuti come Stato, siamo una meta ideale per i viaggiatori più esperti. Eppure un sacco di persone hanno paura di venire in Transnistria, perché non ci sono ambasciate ufficiali e leggono molti avvertimenti sui siti governativi e si spaventano,” racconta Andrey Smolensky, da Tiraspol.

“È il conflitto umano tra il conformarsi e il non conformarsi. Così chi ha un’indole anticonformista e cerca avventura preferisce ignorare tutti gli avvertimenti e, a patto che non ci siano guerre in corso, vengono.”

“Ma la vita qui è piuttosto normale. Gli adolescenti del mondo moderno hanno la testa inchiodata su internet e quelli che vivono in Transnistria non fanno eccezione. Stanno seduti a tavola infilati nella realtà virtuale con i loro smartphone, e non si parlano.”

“Molti giovani fanno richiesta di cittadinanza russa e parlano il russo come madrelingua, ecco perché in tanti vanno in Russia una volta finita la scuola.”

“I miei genitori lavoravano nella polizia quando la repubblica è stata creata e hanno sostenuto apertamente l’indipendenza della Transnistria. Da bambino cresciuto in quell’ambiente, sostengo anche io la causa.”

Le Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk

Le persone seguono le procedure per il COVID al confine con Donetsk. Foto: Valentin Sprinchak/TASS via Getty Images
Le persone seguono le procedure per il COVID al confine con Donetsk. Foto: Valentin Sprinchak/TASS via Getty Images

Le regioni sul confine orientale dell’Ucraina di Donetsk e Luhansk sono cadute in mano a separatisti sostenuti dalla Russia nel 2014. C’è un dibattito in corso su che tipo di controllo diretto Mosca abbia sulle regioni, mentre le proporzioni della tragedia umana sono innegabili. Lo schianto dell’aereo MH17 della Malaysian Airlines nel 2014, che ha ucciso 298 civili soprattutto olandesi, è stata uno degli incidenti sconvolgenti di una guerra che ha finora reclamato oltre 13mile vittime, e che è stata condannata quasi universalmente per la presa illegale del potere da parte dei ribelli. Il governo olandese sta portando la Russia davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per il “ruolo avuto dal paese nello schianto” del volo MH17.

Le amministrazioni ucraine in entrambe le città sono state rovesciate con la forza e un intervento (mal celato) di soldati russi, ma esiste anche un movimento popolare a sostegno delle due “repubbliche popolari.” La maggioranza delle persone qui parla russo e, per alcuni, soprattutto appartenenti alle generazioni più anziante, un’Ucraina indipendente è un’idea che non hanno mai approvato, nonostante i sondaggi prima della guerra mostrassero un sentimento di generale supporto alla causa. Ma la libertà di consolidare i legami con la Russia ha poi cominciato a riscuotere un certo favore negli anni successivi alla ripresa del conflitto interno.

“È iniziato tutto perché il presidente dell’Ucraina [Viktor Yanukovych, che è stato rimosso dall’incarico nel 2014] aveva firmato ogni foglio messo davanti a lui da Francia, Germania e Stati Uniti. Ma noi a Donetsk non vogliamo le stesse cose che vogliono a Kiev,” racconta Oleg Antipov, ex addetto stampa al Shakhtar Donetsk Football Club, da Donetsk.

“C’è stato uno scontro nella città di Sloviansk ad aprile 2014, solo qualche ribelle armato con degli AK47. E l’Ucraina è piombata qui armata fino ai denti. Poi, all’improvviso, un sacco di persone a Donetsk si sono unite volontariamente in aiuto e si è instillato un senso di unità e un desiderio di indipendenza per la prima volta.”

“Dopo quegli eventi, l’Ucraina ha annunciato una operazione anti-terroristica contro di noi, la sua gente, e ha iniziato a sparare sui civili. Volevano incuterci paura, così da sottometterci. È stato il punto di non ritorno.”

“Dopo il referendum per l’indipendenza, sono arrivati a Donetsk gli elicotteri dell’esercito. E noi civili siamo diventati davvero l’obiettivo. A quel punto, sapevamo di essere davvero in una guerra civile.”

“Passavano sempre 30 o 40 secondi tra una bomba e l’altra. La cosa peggiore era l’attesa. Quei secondi sembravano anni. Persino il nostro gatto si era abituato alla situazione. All’inizio, quando le bombe hanno cominciato a cadere, ci seguiva al rifugio. Dopo qualche settimana, ci guardava come se non le importasse più.”