gemello untitled intervista ludovica de santis
Fotografia di Ludovica De Santis
Musica

Gemello è un genio incompreso del rap italiano

Dall’odio per gli sbirri dei tempi di In The Panchine alla scrittura per immagini della nuova scuola, Gemello è sempre stato un visionario: abbiamo passato un pomeriggio a dipingere con lui.

Sono nato nei primi Novanta nella periferia di Milano e da pischello avevo il Booster sotto al sedere, le Air Max ai piedi e una fissa gigantesca per l’hip hop. Nonostante l’estetica standard, però, ero l’esatto opposto di quello che si definirebbe un bullo e questo, musicalmente parlando, era un problema. A quei tempi, infatti, i rapper riservavano poco spazio per tematiche conscious, impegnati come erano in estenuanti gare di apparenza: soldi, donne, rispetto della strada. Nel 2006, però, qualcosa mi ha colpito.

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Gemello, membro degli In The Panchine e del TruceKlan, pubblica Non parlarmi d’altro, un disco che in gran parte abbandona quei binari hardcore in favore di un’introspezione profonda; una cosa insolita in quel periodo, ancor di più se consideriamo il background da cui il rapper proviene. Oggi, dopo tredici anni costellati di EP, collaborazioni varie e tanti quadri (il suo lavoro principale, infatti, non è la musica bensì l’attività di pittore), Gemello torna con il secondo LP, UNtitled, fuori ora per Believe Music, e sembra che il tempo non sia mai trascorso.

In realtà, nonostante le classiche atmosfere sospese, le melodie pop e i cari vecchi testi intimi ed evocativi, Andrea è cambiato. Mentre dipinge uno dei suoi quadri mi racconta tutto ciò che è successo in questi anni, dagli esordi col Klan alla scena odierna, dall’essere stato un apripista per un certo tipo di rap all’amore per il songwriting d’autore, passando per l’importanza della libertà e della sincerità, sino ai casini multicolore che ha sempre nella testa ma che ora sembrano dargli un po’ di tregua. Sono passati tredici anni per tutti, ma rileggendo quest’intervista mi viene naturale osservare il presente attraverso una frase di UNtitled: “Se sorrido è perché sto provando a vivere”.

gemello rapper

Foto di Ludovica De Santis

Noisey: Dall’ultimo EP sono passati “solo” due anni, che per i tuoi standard è pochissimo, e finalmente hai fatto un disco: UNtitled . Come mai? Hai sentito una maggiore urgenza espressiva negli ultimi tempi?
Gemello: Stavo ponderando da un po’ di pubblicare un disco, ma sempre con l’idea di farlo quando ne avessi avuto voglia. Nell’ultimo periodo ho avuto un momento di blocco, ma principalmente perché mi stavo concentrando sul lavoro dei quadri. Alla pigrizia e al fatto che il rap non è il mio mestiere primario, aggiungici anche che di testa non stavo benissimo e quindi… Ma appena ho iniziato a sentirmi meglio mi sono reso conto che avevo immagazzinato abbastanza cose da dire per poter lavorare a un album, e infatti mi ci sono buttato a capofitto, chiudendolo nel giro di qualche mese. Comunque anche nel periodo di inattività non sono stato fermo: ho fatto dei featuring, in qualche modo sono sempre stato presente.

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Sei stato presente, è vero, ma non presenzialista. Ora tutti fanno a gara per pubblicare delle hit e restare sulla cresta dell’onda. Tu invece ti sei sempre preso il tuo tempo, ma l’attenzione nei tuoi confronti non è mai calata, sia da parte degli artisti che ti hanno chiamato per le collaborazioni sia da parte del pubblico. Come te la spieghi questa cosa?
Non voglio fare il classico discorso del “meglio poco ma buono”, ma penso che l’aver lasciato la possibilità al pubblico di “dare aria” alle mie canzoni abbia contribuito a questa cosa che dici. Magari qualcuno si va a ricercare i pezzi dopo un po’ di tempo e se li riascolta, li assimila piano piano e riscopre quelli più vecchi. Non aver mai avuto l’obbligo e la pressione delle uscite programmate mi ha aiutato a fare cose di qualità, a scegliere le musiche giuste, ad essere contento e soddisfatto delle produzioni e dei testi. Comunque, come ti dicevo, anche se nell’ultimo periodo sono stato impegnato sul fronte dei quadri e non sono stato bene, mi sono sempre guardato intorno, ho visto cosa succedeva e ho fatto bagaglio di tutto. Ho pure ascoltato roba nuova, non solo rap; non mi sono mai assentato completamente. Alla fine tutto questo mi ha fatto tornare la voglia.

Ti sei tenuto caldo, in qualche modo.
Sì. Io poi sono come un bambino che appena torna dallo stadio spacca casa col pallone: se sono spronato e mi sento ispirato poi mi ci butto, mi esalto. Non prometto niente, ma ora che sono più sereno, nonostante il disco sia appena uscito, ho voglia di scrivere ancora, di sentirmi nuove basi, di fare.

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Questa volontà di prenderti i tuoi spazi l’ho percepita anche dal modo in cui utilizzi i social, ossia poco e in maniera personale, poco professionale nell’ottica dell’industria: non fai pose e non cerchi di apparire, metti foto coi gatti, con gli amici, con la tipa, foto dei tuoi quadri. Pensi che l’essere un po’ un outsider, o in fondo semplicemente normale, sia diventata la tua forza con il tempo? Il tuo essere percepito come una persona vera, intendo.
Sì, non sono uno spammone, non mi piace dover stare sul pezzo per forza di cose e non devo farlo dato che non campo solo col rap. Magari, se fosse così, anche io incapperei in quel meccanismo tipo blogger delle storie Instagram: “Ciao regà, che fate? Allora se vedemo al posto X? Blablabla”. Non che sia sbagliato eh, ma proprio non è nella mia indole. Io sono sempre stato un po’ cupo, per i cazzi miei, non ce la faccio proprio a fingere. Vedendola dall’altro lato, se qualcuno vede una mia story magari è più interessato e invogliato a guardarla, perché sa che non sono uno che posta tutti i giorni. Probabilmente alla fine si crea più interesse proprio perché uno pensa “Fammi un po’ sentire che dice questo che non si fa mai vivo”.

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Foto di Ludovica De Santis

Come dici tu, l’altro atteggiamento non è sbagliato in sé, sono semplici esigenze lavorative che tu non hai.
Esattamente. Io mi considero uno del popolo, mi piace questa situazione in cui cerco di fare contenti tutti i fan e allo stesso tempo di essere contento io, senza troppi pensieri; me la vivo bene. Anche ora che è uscito il disco e la gente mi dice “Grazie che ci hai regalato altre canzoni”, mi viene da sorridere perché sembra che l’abbia fatto per loro, per lavoro. Io in realtà questa cosa l’ho fatta innanzitutto per me, ma mi rendo conto che sto rendendo felici molte altre persone e tutto ciò senza aver mai pensato alle vendite, senza avere mai avuto la prescia di uscire. È sempre stato così, oggi come in passato.

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A proposito dei vecchi tempi: sei partito con gli In The Panchine e con il TruceKlan, ma presto i tuoi lavori solisti sono diventati più intimi, hai iniziato a cantare di prese male accanto alle cose più spaccone. Com’è avvenuto il passaggio da Gmellow a Gemello?
È avvenuto naturalmente. Col TruceKlan eravamo cupi e horror, ma anche dei cazzoni che non si prendevano troppo sul serio; mi divertivo un sacco a fare quelle robe quando le facevo, ci mettevo proprio la grinta e penso pure di averle fatte bene. Nel frattempo però ho sempre avuto questa cosa dentro di dover scrivere anche dei testi più intimi. Mentre rappavo con gli altri avevo già in mente di registrare Non parlarmi d’altro, che tra l’altro non è nemmeno su Spotify…

Eh, appunto, mannaggia…
È una chicca [ride]. Ma come me, allo stesso modo, ogni membro del TruceKlan aveva il suo stile e poi ha continuato per la sua strada, chi più fedele alla linea e chi meno, qualcuno ha smesso. Comunque sì, alla fine questa urgenza è diventata più forte di me e ho dovuto fare il disco, le mie cose soliste.

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Foto di Ludovica De Santis

Sei sempre stato vero, sei cresciuto e hai fatto quel che ti sentivi di fare.
Esatto. Come quando ogni tanto mi chiedono perché non torniamo a fare quelle cose là, quelle truci. È un film che abbiamo già fatto e che poi, dopo un po’… cioè come se ti vai a vedere Lo squalo, ti vedi l’1, ti vedi il 2, a una certa non è che puoi vederne sei o sette, ti rompi le palle, ma pure a farli. Se uno vuole può tornare indietro ad ascoltarsi le cose vecchie, che ancora oggi sono autentiche perché le abbiamo fatte in un periodo in cui avevamo voglia di farle per davvero. Era tutto più divertente, anche grazie a quel mood a-cazzo-di-cane, senza preoccupazioni per la figaggine social. Il rap non se lo inculava nessuno, ai concerti c’erano venti persone e tutti si chiedevano chi fossero ‘sti pazzi. Allo stesso modo poi mi sono sentito di fare le cose mie, più personali, e oggi mi sono sentito di fare UNtitled. Quindi ho sempre fatto quello che mi sentivo di fare, sì, ma senza mai pensarci su.

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Quindi non escludi nulla per il futuro… c’è anche una citazione in “Lacrimogeni”: “Mellon Collie, Smashing Pump' / Ti ricordi? TruceKlan”.
Non saprei proprio. Non rinnego quei tempi, ovvio, ma sono andati. È un po’ come un amore importante che è finito, a cui qualche volta ripensi con un sorriso. Poi oh, poi magari ci ripiglia il momento cazzone in cui a tutti va di rifare una cosa culto, un pezzo epico e turpe con Noyz o con gli In The Panchine, non si può mai dire.

E com’era cantare di sentimenti in un mondo così machista, ancor più di oggi, soprattutto con un background così ingombrante? Ti sei sentito mai, in un certo senso, escluso?
Beh ma è ovvio! Ovvio! Considera che nei miei lavori solisti, seppur diversi da quello che facevo e facevamo agli esordi, ho sempre incluso i miei amici; ci sono molti featuring ma, nonostante questo, spesso i ragazzi mi guardavano del tipo “che palle, ma che è sta cosa?”. Comunque io di mio ho sempre cercato di non fare solo canzoni-lagna ma di mettere richiami e immagini che rimandassero all’altro mio lato.

Comunque non era un comportamento circoscritto al Klan, o a Roma. Anche qui a Milano, penso alla Dogo Gang per esempio, l’attitudine era quella di spaccare, di fare i grossi.
Sì, ma anche loro poi si sono aperti un po'. Alla lunga più o meno tutti hanno tirato fuori un lato un po’ più bambino, romantico, sentimentale.

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Foto di Ludovica De Santis

In questo ti vedo un po’ come un apripista.
Forse mi ha aiutato il fatto che io non ascoltassi solo rap, anzi ho sempre ascoltato anche un sacco di altri generi. Mi piacevano i film, l’arte. Il bisogno di fare quel cazzo che mi pareva era così grande che alla fine l’ho fatto, anche se all’inizio i miei amici storcevano un po’ il naso. Però poi col tempo anche loro hanno capito che questa versione di me non era affatto male, anzi, aveva una forza tutta sua, un’urgenza mai scontata.

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A proposito di forza tutta tua. Mi ricordo che personalmente rimasi molto colpito dal tuo scrivere i testi “per immagini”. Non eri diretto, non sparavi in faccia concetti lineari. Quando passai Non parlarmi d’altro a qualche amico, però, le risposte erano più o meno: “Ma che cosa sta dicendo?”.
Immagino che non capissero, ero bello incasinato di testa.

Io penso che non arrivassi perché i tuoi testi richiedevano un approccio diverso dal solito. L’ascoltatore medio era abituato a una fruibilità immediata, alle punchline. Ora però la scrittura per immagini, simboli e metafore si è ritagliata un importantissimo spazio nella cosiddetta nuova scuola: penso a Tedua, Rkomi, Izi. Sei stato un apripista anche qui, ci hai mai pensato?
E come no?! Devo prendere i punti SIAE per questo! Quando Marietto [Tedua] e Rkomi hanno iniziato a uscire con le prime canzoni io le pubblicavo, mi piacevano, e loro mi scrivevano messaggi carini, di ringraziamento, perché mi conoscevano e mi avevano ascoltato. Magari, sì, non sono stato capito immediatamente; ma col tempo e con una chiave di lettura moderna alla fine questo stile ha preso piede, sono contento.

Dato che le parole nelle tue canzoni sono così importanti, come gestisci la scrittura dei pezzi? Intendo proprio concretamente.
Mi ascolto la base e mi lascio andare alle suggestioni. “Desert Storm” è nata perché le melodie mi ricordavano delle atmosfere un po’ desertiche. Altre mi ricordavano il mare, con le sirene che cantano, e quindi sono andato a parare verso quel tipo di immagini. Qualche volta mi vengono in mente delle rime fighe che mi appunto e che mi rigioco sul beat, ma in generale scrivo del mio immaginario sul momento, con la musica in cuffia. Mi sono accorto che alla fine, quando ho concluso il testo e lo riascolto sulla base, penso sempre che non avrei potuto scrivere altro.

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Ho notato che hai una passione per le tematiche inerenti alla natura.
Sto disegnando una farfalla! Ma non è che ci penso, o che lo faccio apposta perché voglio fare quello strano. Mi vengono così, mi piace, è sempre stato così.

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Foto di Ludovica De Santis

Passando alla musica: UNtitled suona molto curato e coeso, pur essendo incredibilmente vario. È sempre stata una tua peculiarità quella di prendere riferimenti lontani dall’hip hop: la base dei Notwist, i riferimenti a Justin Timberlake e al rock indipendente; ora invece hai un pezzo acustico e uno super pop, attorno ci sono un sacco di atmosfere post-rock e persino dei fiati tendenti al jazz, pezzi più rap e altri più cantati. Come hai fatto a far convivere il tutto? Qual è il fil rouge?
Questo è merito di Sine. Lui ha saputo mettere insieme i riferimenti che gli portavo in studio e le cose che aveva preparato lui. Per questo, tornando a quanto dicevamo prima, è utile far passare il tempo. Di base io cerco sempre delle musiche su cui possa scrivere qualcosa e molte, anche se belle, le scarto perché non riesco a dar loro un’identità testuale. Poterlo fare senza nessuno che ti corre dietro è d’aiuto.

Ne deduco anche che ascolti tanta musica. Cosa ti ha ispirato nella gestazione del nuovo lavoro? Qualche giorno fa hai condiviso una story con Kozelek in sottofondo. Fa un po’ strano vedere un rapper che sta in fissa con il folk.
Quando ero più giovane ero avvelenato, mi ascoltavo qualsiasi cosa uscisse di nuovo e mi rincoglionivo con quello che mi piaceva di più. Ora sono più impegnato e quindi sono meno sul pezzo, ma anche se vado in fissa con qualcosa poi non la porto in studio, o almeno non esplicitamente e non completamente. Le basi devono calzare rispetto a quello che faccio io, non posso riadattare un’altra cosa in toto.

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Abbiamo parlato spesso del concetto di urgenza espressiva, quella voglia di trovare uno schema nel caos. In un certo senso lo rivedo nei tuoi quadri.
Sicuramente i quadri e la musica sono due lati che rispecchiano il mio bisogno di esprimermi. Chi conosce i miei dipinti e le mie canzoni spesso vede delle similitudini. In realtà mi approccio diversamente alla produzione musicale e a quella visiva, ma in fondo il risultato è simile: ci sono mille layer, mille idee e mille colori che all’inizio sembrano un casino indecifrabile, ma alla fine trovano un ordine e un significato. Soprattutto in questo ultimo disco ho asciugato i testi, sono più diretti perché ho meno confusione in testa, sto meglio. UNtitled rispecchia questo momento della mia vita e so che se lo ascolterò tra dieci anni mi ricorderà un periodo positivo, come se fosse la parte felice di un diario.

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Foto di Ludovica De Santis

Mi racconti i featuring? Penso che Gemitaiz e Franco126 siano stati molto naturali. Ensi e Martina May, invece, mi sembra rappresentino gli antipodi di UNtitled e della tua ragione artistica.
Gemitaiz lo conosco da tempo e a furia di cazzeggiare in giro abbiamo fatto un pezzo ufficiale su un disco. Anche Franco è un amico, una persona che stimo e che mi ascoltava quando era più piccolo. Mi è piaciuto che entrambi abbiano scritto delle strofe intime, accostandosi un po’ al mio stile. Poi volevo che ci fosse una voce femminile nel disco, e quindi ho coinvolto Martina, la ragazza di Frenetik, che ha firmato una base del disco. Ensi mi è sempre piaciuto, è un animale, mi ha droppato quella strofa incredibile in pochissimo tempo; anche con lui sono in contatto, abbiamo questa chat brutale con tutti i rapper dove spariamo cazzate. Ogni collaborazione è nata spontaneamente, senza contatti freddi da major; è stato tutto molto familiare, come piace fare a me, senza forzature.

E “Blu Marlin”, il pezzo acustico finale? Pazzesco. Mi ha colpito tantissimo perché nel suo essere nudo assume una sfera cantautorale nuova. Lasci tutto il focus sulla parola che, come dicevamo, è la tua forza. È messo lì in fondo per un motivo?
Ammazza, quella è proprio la mia preferita. Mi andava di mettere insieme il rap alla chitarra classica di Gian Marco Ciampa, di fare un po’ Leonard Cohen, un po’ Nick Drake; ci vado matto per quella roba, se solo avessi quella voce… Poi mi piaceva anche l’idea di chiudere il disco come se fosse un film, coi titoli di coda. Lo so, sono vecchio, ma c’ho ancora la fissa dell’album ascoltato dall’inizio alla fine, seguendo la tracklist lungo i vari mood dei pezzi.

Sono d’accordo, in controtendenza con le logiche di mercato odierne fatte di singoli e playlist Spotify.
Io c’ho provato a fare quelle cose lì, perché di base mi diverto a sperimentare. Ho anche i pezzi più pop, ma non potrei mai fare un disco tutto in uno stile solo, non riesco a non metterci un po’ di mio. Posso fare tutto, ma la solfa è sempre quella: io sono io e faccio quello che mi viene di fare. Penso che questo atteggiamento paghi, alla fine si capisce se uno è sincero.

Simone è su Instagram.

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