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Cos’è il Pallone di Gravina, un formaggio enorme pugliese a forma di…pallone

Pallone di gravina alta murgia

Si chiama così per via della sua forma. Effettivamente, ora che lo afferro, potrei farci anche due palleggi.

Da quando frequento l’Alta Murgia, ho scoperto una terra fantastica con dei paesaggi ai quali non ero sinceramente abituato in Puglia. Avete presente gli ulivi, i mandorli e i ciliegi?

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Dimenticateveli. L’Alta Murgia è un gigantesco sfondo di Windows XP, ma soprattutto è una terra di pascolo dove l’allevamento è da sempre l’attività principale. Tutto il territorio che abbraccia in particolare Altamura e Gravina (proprio la stessa città del ponte dal quale si lancerà James Bond nel prossimo film) e che si estende fino a Matera, è sempre stato tratturo di transumanza. Ed è in questo luogo magico che è nato il Pallone di Gravina.

Sì, il Pallone di Gravina è un formaggio a pasta filata e dalla consistenza semidura. E, sì, come hai ben immaginato, si chiama così per via della sua forma. Effettivamente, ora che lo afferro, potrei farci anche due palleggi.

Il Pallone di Gravina può pesare dai 2,5 ai 10kg

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Foto dell’autore o per gentile concessione dell’autore

Mi trovo al Caseificio Stella Dicecca di Altamura, una delle eccellenze casearie della Puglia, e fra i pochi caseifici a poter produrre il Pallone di Gravina, presidio Slow Food dal 2012, insieme al Caseificio De Rosa e Caseificio Tarantino di Gravina in Puglia e alla Masseria La Ghianda di Santeramo in Colle.

Gli animali passano molto tempo al pascolo, non meno di 180 giorni, permettendo al latte di essere ricco di acidi grassi insaturi e acido CLA antiossidante, perché l’erba di cui le vacche sono ghiotte contiene betacarotene. È proprio quest’ultima caratteristica a donare il tipico colore giallognolo al Pallone

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Angelantonio Tafuno
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Qui incontro Angelantonio Tafuno, 28 anni e quarta generazione di una famiglia di casari. Come tutte le nuove generazioni, Angelantonio ha viaggiato tanto all’estero, confrontandosi con realtà diverse da quella in cui è cresciuto e poi ha lottato per portare una visione più contemporanea nell’azienda di famiglia. Ma questo non vuol dire che le sue mani non siano consumate come quelle di ogni casaro che si rispetti: basta guardare le sue mani e le rughe “che hanno almeno dieci anni”.

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Angelantonio con sua madre Stella

Oggi porta avanti l’attività insieme a sua mamma, Stella, che è la vera star del caseificio (giuro che il calembour non è voluto), che a sua volta l’aveva ereditato l’attività da sua nonna.

Mentre Bruno, il suo collaboratore storico, sta lavorando la cagliata per preparare il Pallone, Angelantonio mi racconta la filosofia dietro la produzione del caseificio e, in particolare, del Pallone di Gravina.

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Tutto il latte proviene da vacche locali di diverse specie -in origine, si allevavano solo vacche di razza podolica nel Bosco Difesa Grande di Gravina-, in parte di proprietà del caseificio e in parte da masserie del territorio.

Una produzione ristretta, tanto che le può perfino chiamare per nome: “Ci sono Carolina, Pupetta e… Fontanella, che come puoi pensare è la più prolifica. Per noi il benessere animale è fondamentale: per questo le nutriamo con un mix di 70% di foraggio ed erba, integrato con al massimo 30% di cereali auto-prodotti, come il favino, un tipo di pisello proteico, e la barbabietola. Passano molto tempo al pascolo, non meno di centottanta giorni, permettendo al latte di essere ricco di acidi grassi insaturi e acido CLA antiossidante, perché l’erba di cui le vacche sono ghiotte contiene betacarotene. È proprio quest’ultima caratteristica a donare il tipico colore giallognolo al Pallone.”

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Ed è anche questo il motivo per cui il Pallone si produce da gennaio a giugno: il latte di pascolo è disponibile solo fino alla fine di maggio. La preparazione è analoga a quella di un caciocavallo: il latte viene riscaldato fino a 37 gradi in un grosso pentolone e poi viene aggiunto il caglio. D’inverno s’aggiunge anche il siero innesto per facilitare la fermentazione. La cagliata matura per circa dodici ore sul tompagno e viene lavorata il giorno successivo.

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Bruno mi mostra come si fa, grazie alla sua tecnica perfezionata nei vari decenni di lavoro: taglia la pasta e comincia ad arrotolotarla su se stessa. Proprio come arrotoleresti i calzini a casa. Mentre lavora a velocità sostenuta, vedo il Pallone prendere forma e già pregusto il risultato finale.

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Quando la forma è pronta, il Pallone passa in acqua di raffreddamento e in salamoia, appeso per circa quindici giorni in caseificio e poi trasferito in una grotta.

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Angelantonio ne ha una nel centro storico di Altamura, dove porta i palloni ad asciugare per un minimo di tre mesi a 13 gradi. È qui che avviene la magia: anzi, la lipolisi e proteolisi che permettono al grasso e alle proteine di evolvere. Dopo tre mesi, il Pallone diventa naturalmente privo di lattosio e, grazie al microclima della grotta e alle muffe nobili, stagiona lentamente acquisendo un gusto e un profumo minerali. Più precisamente è merito della “calcarenite di Gravina”, la tipica roccia dell’Alta Murgia, una terra calcarea notoriamente ricca di gravine, che per noi pugliesi è un po’ il Grand Canyon, grotte e ipogei.

E in quest’area da sempre grotte e ipogei sono stati abitati dall’uomo. È probabile quindi che il Pallone di Gravina esista da secoli, utilizzato dagli allevatori per sfamarsi durante la transumanza, ma la prima apparizione “ufficiale” è recente. Se ne parla nel Dizionario Geografico ragionato del Regno di Napoli pubblicato dal 1797 al 1816, dove viene descritto un caciocavallo “di una figura rotonda appellati meloni o palloni”; le altre apparizioni sono nel 1847 nel “Finanche come le Lectures on Agricultural, Chemistry and Geology” e nel 1859 nell’”Enciclopedia agraria” del Regno di Napoli.

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Le mani di Bruno

Oggi, il Pallone, che può pesare dai 2,5 ai 10kg (non oso nemmeno immaginare cosa sia) e viene venduto a circa 25 euro al chilo, ha fatto un “salto di specie”. Infatti, Angelantonio mi racconta che fra i suoi clienti più appassionati ci sono ristoranti stellati francesi, spagnoli e statunitensi. Sono davvero curioso di sapere come lo usano e con cosa lo abbinano.

Ma non per questo è diventato un formaggio di massa: il caseificio di Angelantonio ne produce solo 450 all’anno. E io, che sono particolarmente fortunato, ho potuto assaggiare proprio l’ultimo rimasto della scorsa stagione.

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Bene. Se ora vi è venuta voglia di assaggiarlo, magari prendendolo direttamente a morsi come se fosse un melone, sapete dove andare e quando. Vi basterà ripercorrere i tratturi della transumanza, o prendere il primo treno in direzione Alta Murgia.

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